Ab Urbe Condita, I, 3 – “Ascanio e la fondazione di Alba Longa”

Nondum maturus imperio Ascanius Aeneae filius erat; tamen id imperium ei ad puberem aetatem incolume mansit; tantisper tutela muliebri – tanta indoles in Lavinia erat – res Latina et regnum avitum paternumque puero stetit. Haud ambigam – quis enim rem tam veterem pro certo adfirmet? – hicine fuerit Ascanius an maior quam hic, Creusa matre Ilio incolumi natus comesque inde paternae fugae, quem Iulum eundem Iulia gens auctorem nominis sui nuncupat. Is Ascanius, ubicumque et quacumque matre genitus – certe natum Aenea constat – abundante Lavinii multitudine florentem iam ut tum res erant atque opulentam urbem matri seu novercae relinquit, novam ipse aliam sub Albano monte condidit quae ab situ porrectae in dorso urbis Longa Alba appellata.

Ascanio, il figlio di Enea, non era ancora maturo per comandare; tuttavia il potere rimase intatto finché egli non ebbe raggiunto la pubertà. Nell’intervallo di tempo, lo Stato latino e il regno che il ragazzo aveva ereditato dal padre e dagli avi gli vennero conservati sotto la tutela della madre (tali erano in Lavinia le qualità caratteriali). Non mi metterò a discutere – e chi infatti potrebbe dare come certa una cosa così antica? – se sia stato proprio questo Ascanio o uno più vecchio di lui, nato dalla madre Creusa quando Ilio era ancora in piedi e compagno del padre nella fuga, quello stesso Julo dal quale la famiglia Giulia sostiene derivi il proprio nome. Questo Ascanio, quali che fossero la madre e la patria d’origine, in ogni caso era figlio di Enea. Dal momento che la popolazione di Lavinio era in eccesso, lasciò alla madre, o alla matrigna, la città ricca e fiorente, e per conto suo ne fondò sotto il monte Albano una nuova che, dalla sua posizione allungata nel senso della dorsale montana, fu chiamata Alba Longa.

“Discorso di Lucio Emilio Paolo al popolo”

Bello in Perseum, Macedonum regem, a senatu indicto, ego Romani reliqui et prima luce classem a Brundisio solvi ut in Macedoniam exercitum traicerem; occidente sole cum omnibus meis navibus Corcyram tenui. Inde quinto die Delphos contendi ut oraculum de exitu belli consulerem atque Apollini pro me exercitibusque et classibus vestris sacrificavi. Delphis post aliquotdies in castra perveni et, imperio accepto, mutatis rebus quae impedimento victoriae erant, ad Pydnam perrexi ut Perseum pugnam recusantem ad pugnandum cogerem. Itaque regem ade vici, Macedoniam in potestatem populi Romani redegi et bellum, quod per quadriennium tres consules ante me gesserunt, ego quindecim diebus perfeci. Praeterea et sponte se dediderunt; gaza regia Romam translata est atque Perseus rex cum liberis est captus.

Dato che c’era la guerra contro Perseo, re dei Macedoni secondo quanto venne prescritto dal senato io lasciai Roma e all’alba salpai da Brindisi per trascinare l’esercito in Macedonia; al tramontar del sole occupai con tutte le mie navi Circira. Da lì dopo cinque giorni giunsi a Delfi per consultare l’oracolo in merito all’esito della guerra e e feci sacrifici ad Apollo per me per gli eserciti e per le vostre flotte. Da Delfi dopo alcuni giorni giunsi nell’accampamento e, secondo l’ordine ricevuto, in quanto era mutata la situazione che era d’impedimento alla vittoria, proseguii in direzione di Pidna per costringere Perseo che rifiutava lo scontro a combattere. E così sconfissi il re, ridussi la macedonia in potere del popolo Romano ed io in quindici giorni portai a termine la guerra, che per 12 anni i consoli prima di me avevano combattuto. E per di più si consegnarono spontaneamente; il tesoro regale fu trasportato a Roma e il re Perseo venne catturato con i figli.

Ab Urbe Condita, XXIX, 20

Haec quamquam partim vera partim mixta eoque similia veris iactabantur, tarnen vicit Q. Metelli sententia qui de ceteris Maximo adsensus de Scipionis causa dissensit: qui enim convenire quem modo civitas iuvenem admodum unum reciperandae Hispaniae delegerit ducem, quem recepta ab hostibus Hispania ad imponendum Punico bello finem creaverit consulem, spe destinaverit Hannibalem ex Italia retracturum, Africam subacturum, eum repente, tamquam Q. Pleminium, indicta causa prope damnatum ex provincia revocari, cum ea quae in se nefarie facta Locrenses quererentur ne praesente quidem Scipione facta dicerent, neque aliud quam patientia aut pudor quod legato pepercisset insimulari posset? Sibi piacere M. Pomponium praetorem, cui Sicilia provincia sorti evenisset, triduo proximo in provinciam proficisci: consules decern legatos quos iis videretur ex senatu legere quos cum praetore mitterent, et duos tribunos plebei atque aedilem; cum eo Consilio praetorem cognoscere; si ea quae Locrenses facta quererentur iussu aut voluntate P. Scipionis facta essent, ut eum de provincia decedere iuberent; si P. Scipio iam in Africam traiecisset, tribuni plebis atque aedilis cum duobus legatis quos maxime idoneos praetor censuisset in Africam proficiscerentur, tribuni atque aedilis qui reducerent inde Scipionem, legati qui exercitui praeessent donec novus imperator ad eum exercitum venisset: si M. Pomponius et decern legati comperissent neque iussu neque voluntate P. Scipionis ea facta esse, ut ad exercitum Scipio maneret bellumque ut proposuisset gereret. Hoc facto senatus consulto, cum tribunis plebis actum est aut compararent inter se aut sorte legerent qui duo cum praetore ac legatis irent: ad collegium pontificum relatum de expiandis quae Locris in tempio Proserpinae tacta ac violata elataque inde essent. Tribuni plebis cum praetore et decern legatis profecti M. Claudius Marcellus et M. Cincius Alimentus; aedilis plebis datus est quem, si aut in Sicilia praetori dicto audiens non esset Scipio aut iam in Africam traiecisset, prendere tribuni iuberent, ac iure sacrosanctae potestatis reducerent. prius Locros ire quam Messanam consilium erat.

Benché queste cose che si spacciavano fossero vere in parte, in parte miste, e per ciò più simili al vero, nondimeno prevalse il parere di Quinto Metello, il quale, assentendo quanto al resto a Quinto Fabio, discordò quanto a Scipione. “Infatti, come accordare insieme, che quello che testé la città elesse assai giovane a recuperare la Spagna, quello che, recuperata la Spagna, creò console per metter fine alla guerra Cartaginese, per opera del quale sperò che Annibale potesse essere scacciato dall’Italia e l’Africa soggiogata, questo stesso, come un altro Quinto Pleminio, quasi condannato prima di ascoltarlo sia improvvisamente richiamato dalla provincia? Mentre che le iniquità, di cui si dolgono i Locresi non le dicono commesse presente Scipione, né di altro si può tacciarlo, che di pazienza o troppo rispetto per aver perdonato al legati. Era egli d’avviso, che il pretore Marco Pomponio, cui era toccata in sorte la Sicilia, nei prossimi tre giorni andasse al suo governo; che i consoli scegliessero nel senato dieci legati, che paresse loro, mandandoli con il pretore e insieme due tribuni della plebe ed un edile; che il pretore con questo consiglio conoscesse della cosa. Se avessero trovato i falli di cui si lamentavano i Locresi avvenuti per volontà o comando di Publio Scipione, gli ordinassero di partire dalla provinicia. Se Publio Scipione fosse già passato in Africa, i tribuni della plebe, e l’edile con due legati che il pretore stimasse più idonei, andassero in Africa; i tribuni e l’edile per portare via da lì Scipione; i legati per attendere all’esercito, in sino a tanto, che vi giungesse il nuovo comandante. Se poi Marco Pomponio e i dieci legati avessero trovato che quelle cose non erano state fatte né per comando, né per volere di Publio Scipione, rimanesse Scipione al comando dell’esercito, governasse la guerra nella forma, che aveva proposto”. Fatto questo decreto, si trattò con i tribuni, perché tra loro convenissero o scegliessero a sorte i due che andassero col pretore e con i legati. Si consultò il collegio dei pontefici intorno all’espiazione da farsi per le cose toccate, violate o portate via dal tempio di Proserpina in Locri. Partirono con il pretore e con i dieci legati i tribù della plebe Marco Claudio Marcello e Marco Cinzio Alimento. Si aggiunse loro un edile della plebe, al quale, se Scipione o in Sicilia o di già passato in Africa ricusasse di obbedire, i tribuni commettessero di arrestarlo, e in virtù del sacrosanto loro potere, lo riportassero. Erano del parere di andare prima a Locri che a Messina.

“Discorso di Scipione ai suoi prima della battaglia”

Scipio, priusquam exercitum educeretin aciem, talem orationem habuit: “Novo imperatori apud novos rnilites pauca verba facienda sunt. Nunc cumiis est vobis, milites, pugnandum quos terra marique priore bello vicistis, a quibus stipendium per viginti annos exegistis. Cum his equitibus, cum his pedi ti bus pugn aturi estis. At nunc non est vobis dimicandum pro decore tantum, sed pro salute! Non de possessione Siciliae ac Sardiniae, de quibus quondam agebatur, sed pro Italia est vobis pugnandum. Nec est alius a tergo exercitus, qui, nisi nos vincimus, hosti obsistat. Hic est obstandum, milites, velut si ante Romana moenia pugnemus. Unusquisque se non corpus suum, sed coni u gem ac liberos parvos armis protegere putet; nec domesticas solum con siderei cu ras, sed identidem hoc animo reputet: nostras nunc intueri manus senatuni populumque Romanum; qualis nostra vis virtusque fu eri t, talem deinde fortunam illius urbis ac Romani imperii fu tu ram
esse”.

Scipione, prima di schierare l’esercito in campo, tenne il seguente discorso: “Un nuovo comandante deve pronunciare poche parole dinnanzi a nuovi soldati. Ora, o soldati, voi dovete combattere con coloro che vinceste durante la prima guerra per terra e per mare, dai quali esigeste un tributo per vent’anni. Con questi cavalieri, con questi fanti state per combattere! Ma ora voi non dovete lottare soltanto per l’onore bensì perla salvezza! Non dovete combattere per il possesso della Sicilia e della Sardegna, delle quali un tempo si trattava, ma in difesa dell’Italia. E non c’è altro esercito alle spalle, che, se noi non vinciamo, si opponga al nemico. Qui si deve resistere, soldati, come se combattessimo davanti alle mura di Roma. Ciascuno pensi di stare proteggendo con le armi non il suo stesso corpo ma la moglie e i figlioletti, e non consideri solo le preoccupazioni familiari, ma ripensi a questo incessantemente fra sé: ora il senato e il popolo di Roma guardano alle nostre schiere; quali saranno state la nostra forza e virtù, tale è destinata ad essere la sorte di quella città e del potere romano”.

“Discorso di Scipione alle truppe (I)”

Cum Placentiam Scipio consul venit, iam ex stativis moverat Hannibal Taurinorumque urbem, quae in amicitiam cum Punicis non venit, vi expugnaverat. Deinde Hannibal castra ex Taurinis ad Ticinum movit, ubi cum Romanis dimicare volebat. Scipio postquam trans Padum copias duxit et ad Ticinum amnem castra movit, ad militum hortationem dixit: “Novus imperator apud novos milites pauca verba dicet. Pro patriae salute pugnabitis, milites, cum gentibus quas terra marique iam bello vicistis, a quibus stipendium per multos annos exegistis ac belli praemia Siciliam ac Sardiniam habuistis. Erit igitur Romanis legionibus in hoc certamine victorum animus, quia Iuppiter auxilio nostris copiis iam venit primo Punico bello; hostium autem robora ac vires languescunt, Poeni iam non homines sed hominum umbrae sunt, fama, frigore, squalore contusi ac debilitati sunt inter saxa rupesque Alpium. Cum vestris gladiis tacti erint, eorum corpora quassabantur armaque frangentur. Itaque reliquias extremas hostis, non hostem habetis”.

Quando il console Scipione giunse a Piacenza, già Annibale aveva levato il campo, ed aveva espugnato con la forza una città dei Taurini che si era rifiutata di stringere patti d’amicizia con i Cartaginesi. Poi Annibale mosse gli accampamenti dai Taurini al Ticino, dove voleva combattere con i Romani. Scipione, dopo avere passato il Po con l’esercito e mosso il campo verso il fiume Ticino, per incitare le truppe disse: “Poche parole deve dire un comandante nuovo a truppe nuove. Combattere, o soldati, a difesa della salvezza della patria, contro coloro che già vinceste in guerra per terra e per mare, dai quali per molti anni percepiste un tributo, ai quali prendeste, trofei di vittoria, la Sicilia e la Sardegna. Avranno dunque le legioni Romane in questo conflitto l’animo dei vincitori, poiché Giove già venne in soccorso del nostro esercito in occasione della prima guerra Punica; languono peraltro il nerbo e le forze dei nemici, i Cartaginesi ormai non sono uomini ma ombre d’uomini, fiaccati dalla fame, dal freddo, dalla sporcizia, sono stati feriti ed indeboliti fra le rocce ed i sassi delle Alpi. Quando saranno colpiti dalle vostre spade, i loro corpi saranno scossi e le loro armi infrante. Così, gli ultimi avanzi di un nemico, non un nemico avrete davanti”.

“Valerio Corvino”

Bello contra Gallos, cum Romani quieti in castris tempus tererent, Gallus quidam, magnitudine et armis insignis, ex acie processit et, cum silentium omnibus imposuisset, unum e Romanis provocavit ut secum ferro decerneret. Erat tum in castris tribunus militum M. Valerius, qui certamen non recu savit et armatus in medium processit ut contra Gallum pugnaret. Sed dum adulescens Romanus cum Gallo manus conserit, corvus consedit in galea eius. Quod augurium putavit de caelo deos misisse, et oravit ut numina sibi propitia in pugna adessent. Ales, cum certatem initium habuit, levans se alis, os oculosque Galli rostro et unguibus invasit, qua re Valerio haud difficile fuit hostem turbatum necare. Tum corvus avolavit et Romani, victoria grati, Valerio Corvino cognomen indiderunt.

Nella guerra contro i Galli, i Romani mentre trascorrevano tranquilli il tempo nell’accampamento, un Gallo, insigne di grandezza e armi, avanzò dalla schiera e, avendo imposto a tutti il silenzio, provocò uno dei Romani per gareggiare con lui con la spada. Allora era nell’accampamento il tribuno militare Valerio, che non rifiutò lo scontro e armato avanzò nel mezzo per combattere contro il Gallo. Ma mentre il giovane si azzuffava con il Gallo, un corvo si posò sul suo elmo. Considerò questo un presagio che gli dei avevano mandato dal cielo, e pregò che gli dei gli dessero segni propizi nella battaglia. L’uccello, quando ebbe inizio lo scontro, levandosi in ali, invase il volto e gli occhi del Gallo con il becco e le unghie, per tale ragione a Valerio non fu difficile uccidere il nemico turbato. Allora il corvo volò e i Romani, grati della vittoria, diedero a Valerio il cognome di Corvino.

“Risolutezza di Scipione dopo la battaglia di Canne”

Post cladem Cannensem, in qua milia Romanorum militum perierant, pauci superfuerant, senatus, omnibus consentientibus, ad P. Cornelium Scipionem, admodum iuvenem, maximum imperium commisit, ut rei publicae saluti provideret. Olim ei, qui senatus consilio intererat, nuntiatum est aliquot nobiles iuvenes, de rei punlicae salute desperantes, statuisse, deserta italia, in asiam apud barbarum regem se transferre. Tum Scipio, consilio dimisso, statim ad illum, qui conspirationis auctor erat, advenit et, cum ibi concilium iuvenum, de quibus supra dictum ast, invenisset, stricto super illorum capita gladio: “Ut ego – inquit – rem publicam romanam in adversis rebus non deseram, sic non sinam ream ab alio cive Romano deseri. Iurate igitur vos numquam patriam vestram deserturos (esse)!”. Iuraverunt illi et semper patriae Scipionique fideles fuerunt.

Dopo la battaglia di Canne, in cui erano morti migliaia di soldati romani e pochi erano sopravvissuti, il senato, con il consenso di tutti, affidò il supremo potere a Publio Cornelio Scipione, assai giovane, perchè provvedesse alla salvezza dello stato. Una volta a lui che partecipava ad una riunione del senato fu annunciato che alcuni giovani nobili, disperando della salvezza dello stato, avevano deciso, abbandonata l’Italia, di trasferirsi in Asia presso il re barbaro. Allora Scipione, sciolta l’assemblea, subito andò da quello che era il fautore della cospirazione e, avendo trovato il gruppo di giovani, di cui si è detto sopra, impugnata la spada sopra le loro teste disse: “Come io non abbandonerò lo Stato romano nelle avversità, così non permetterò che esso sia abbandonato da un altro cittadino romano. Giurate dunque che voi mai abbandonerete la vostra patria!”. Quelli giurarono e furono sempre fedeli alla patria e a Scipione.

“Inizio del regno di Anco Marzio”

Post Tulli regis mortem, ut a patribus institutum iam inde ab initio erat, patres interregem nominaverant. Cum comitia haberentur, Ancum Marcium regem populus creavit; patres fuerunt auctores. Numae Pompili regis nepos, filia genitus, Ancus Marcius erat. Avitae gloriae memor, quia Tulli regnum, cetera egregium, ab una parte haud satis prosperum fuerat, cum neglectae religiones essent aut prave cultae essent, longe antiquum sacra publica facere quae ab Numa instituta erant putavit er pontificem omnia ea ex Numae regis commentariis in album elata in publico proponere iubet.

Dopo la morte del re Tullio, come era già stato deciso dai padri dall’inizio, essi avevano nominato un successore. Quando si riunirono, il popolo scelse Anco Marzio; come avevano designato i padri. Anco Marzio era nipote del re Numa Pompilio, nato dalla figlia. Memore dell’avidità della gloria, poiché il regno di Tullio, buono per gli altri, era stato da una parte prospero, però carente o mal rispettoso della religione, si facevano da quel tempo tantissime manifestazioni pubbliche a sfondo sacro istituite da Numa, che propose di raccoglierle su di un libricino da esporre in pubblico.

“Annibale e Flaminio combattono al lago Trasimeno”

Ex hiberis Hannibal per Etruriam ad Trasumenum lacum perverat, ibique in loco aperto castra posuit, pedites post montem locavit equitatumque apud saltus fauces occultavit. Romanorum exercitus quoque, a Flaminio consule ductus, ad lacum pervenit, angustias superavit et, postquam Poenorum castra copiasque in patenti campo conspexerant, ad hostes processit. Forte e lacu densa nebula surrexit atque omnia loca contexit; itaque consul Carthaginiensium indias supra caput inmpendentes non animadverit. Hannibal, ubi clausum lacu ac montibus et circumfusum suis copiis habuit hostem, signum omnibus dat pugnae. Carthaginienses undique in Romanos impetum fecerunt. Romani in fronte, in laevo cornu et post terga hostes habebant, montes lacumque in dextero cornu; prae strepitu ac tumultu consulis imperia non audiebantur. Praeterea visum et prope armorum usum densa caligo eripiebat. Tum terrificus terrae motus multas italicas urbes ac vicos prostravit avertitque cursu rapidos amnes et montes ingenti lapsu proruit, sed nemo pugnantium id sensit, tantus fuit ardor animorum in pugna. In tam atroci tumultu ingens fuit caedes. Hostium ictus multos Romanos obtruncaverunt; pauci per montium saltus evaserunt. Flaminius quoque in proelio strenue pugnans cecidit.

Dai quartieri invernali Annibale attraverso l’Etruria era giunto al lago Trasimeno, e qui in luogo aperto pose l’accampamento, posizionò i fanti alle spalle dei monti e nascose la cavalleria presso dei passaggi stretti della foresta. Anche l’esercito dei Romani, condotto dal console Flaminio, giunse al lago, superò le difficoltà e, dopo che avevano visto in campo aperto l’accampamento e le truppe dei Cartaginesi, avanzò contro i nemici. Per caso dal lago si sollevò una densa nebbia e oscurò ogni luogo; e così il console dei Cartaginesi non si rese contro della (indias) che incombevano sulla testa. Annibale, appena ebbe il nemico chiuso dal lago e dai monti e circondato con le sue truppe, dà a tutti il segnale della battaglia. I Cartaginesi da ogni parte fecero impeto contro i Romani. I Romani di fronte, avevano dal lato sinistro e alle spalle i nemici, e i monti e il lago dal lato destro; non sentirono per lo strepito e il tumulto gli ordini del console. Inoltre la densa nebbia sottraeva la vista e l’uso delle armi. Allora un tremendo terremoto devastò le molte città italiche e i vicoli e allontanò i rapidi fiumi nel corso e fece cadere in un grande crollo i monti, ma nessuno dei combattenti capì ciò, tanto fu l’ardore degli animi in battaglia. Nell’ingente tumulto grande fu la disfatta. I colpi dei nemici massacrarono molti Romani, pochi evasero attraverso i passi dei monti. Anche Flaminio cadde in battaglia combattendo strenuamente.

“Il senato dichiara guerra a Filippo di Macedonia”

Anno quingentesimo quinquagesimo primo ab Urbe condita, bellum cum rege Philippo indictum est, paucis mensibus post pacem Carthaginiensibus datam. Primum eam rem Publius Sulpicius consul ad senatum rettulit, qui decrevit ut consules maioribus hostiis rem divinam facerent et post hanc rem divinam de repubblica deque provinciis senatum consulerent. Per eos dies et litterae ab M. Aurelio legato et M. Valerio Laevino propraetore apportatae sunt et Atheniensium nova legatio venit, quae regem appropinquare finibus suis nuntiaret, brevique non agros modo, sed ipsam urbem in dicionem regis venturam esse. Litterae Aurelii Valerique lectae sunt et legati Atheniensium auditi. Senatus deinde consultum decrevit ut sociis gratiae agerentur, quod ne obsidionis quidem metu decessissent fide. De auxilio mittendo placuit ut Philippo, Macedonum regi, indiceretur bellum.

Nell’anno 551 dalla fondazione di Roma, fu dichiarata guerra contro il re Filippo, pochi mesi dopo che era stata concessa la pace ai Cartaginesi. Dapprima il console Publio Sulpicio riportò questa questione al senato, che stabilì che i consoli facessero un sacrificio con animali adulti e dopo questo sacrificio consultassero il senato sullo stato e sulle provincie. Durante quei giorni fu consegnata una lettera dal legato M. Aurelio e dal propretore M. Valerio Levino e venne una nuova ambasciata degli ateniesi, che annunciava che il re si stava avvicinando ai loro confini, e a breve non solo i campi, ma la stessa città sarebbe caduta sotto il dominio del re. La lettera fu letta da Aurelio e da Valerio e gli altri ambasciatori furono ascoltati. Una decisione del senato decretò che si ringraziassero gli alleati, poichè nemmeno per il timore di un assedio erano mancati di fedeltà. Riguardo a mandare truppe ausiliarie si stabilì di dichiarare guerra a Filippo, re dei macedoni.

Ab Urbe Condita, XXXIV, 1 (“La legge Oppia”)

Inter bellorum magnorum aut uixdum finitorum aut imminentium curas intercessit res parua dictu sed quae studiis in magnum certamen excesserit. M. Fundanius et L. Ualerius tribuni plebi ad plebem tulerunt de Oppia lege abroganda. Tulerat eam C. Oppius tribunus plebis Q. Fabio Ti. Sempronio consulibus in medio ardore Punici belli, ne qua mulier plus semunciam auri haberet neu uestimento uersicolori uteretur neu iuncto uehiculo in urbe oppidoue aut propius inde mille passus nisi sacrorum publicorum causa ueheretur. M. et P. Iunii Bruti tribuni plebis legem Oppiam tuebantur nec eam se abrogari passuros aiebant; ad suadendum dissuadendumque multi nobiles prodibant; Capitolium turba hominum fauentium aduersantiumque legi complebatur. Matronae nulla nec auctoritate nec uerecundia nec imperio uirorum contineri limine poterant, omnes uias urbis aditusque in forum obsidebant, uiros descendentes ad forum orantes ut florente re publica, crescente in dies priuata omnium fortuna matronis quoque pristinum ornatum reddi paterentur. Augebatur haec frequentia mulierum in dies; nam etiam ex oppidis conciliabulisque conueniebant. Iam et consules praetoresque et alios magistratus adire et rogare audebant; ceterum minime exorabilem alterum utique consulem M. Porcium Catonem habebant, qui pro lege quae abrogabatur ita disseruit.

Tra tutte le preoccupazioni che venivano dalle grandi guerre da cui Roma era appena uscita o che la minacciavano da vicino, si svolse una vicenda certo di non grande rilevanza ai fini del racconto, ma tale da degenerare, con l’accendersi degli animi, in un’aspra contesa. I tribuni della plebe Marco Fundanio e Lucio Valerio presentarono al popolo una legge tesa ad abrogare la legge Oppia. Questa legge era stata proposta dal tribuno della plebe Gaio Oppio, nell’anno in cui erano consoli Quinto Fabio e Tiberio Sempronio, proprio quando più divampava la guerra punica: secondo questa legge nessuna donna poteva possedere più di mezza oncia d’oro, indossare vestiti dai colori appariscenti, farsi portare in carrozza in Roma o in altre città o nel raggio di un miglio da esse se non per motivi legati a cerimonie religiose. I tribuni della plebe Marco e Publio Giunio Bruto difendevano la legge Oppia e proclamavano che non ne avrebbero mai accettato l’abrogazione; molti esponenti della nobiltà si facevano avanti parlando a favore della legge o contro di essa e tutto il Campidoglio era pieno di una folla di favorevoli e contrari alla legge. E le donne: non riuscirono a trattenerle in casa nè l’autorità, nè il senso del pudore, nè le imposizioni dei loro mariti; avevano occupato tutte le strade della città e tutti gli accessi al Foro, chiedendo agli uomini i quali vi si recavano che consentissero, in un momento di grande floridezza della repubblica e di crescita continua e generale della ricchezza privata, che alle donne fossero restituiti i loro antichi ornamenti. Le donne si radunavano, di giorno in giorno, sempre più numerose arrivando perfino dalle città e dai luoghi di mercato dei dintorni. Ormai osavano avvicinare i consoli, i pretori e gli altri magistrati presentando le loro richieste. Tuttavia avevano un implacabile nemico in almeno uno dei consoli, Marco Porcio Catone, il quale così parlò a favore della legge che si voleva abrogare.

“L’apologo di Menenio Agrippa”

Propter vectigalium militiaeque impatientiam, plebs patribus obstiterat et in Aventinum montem secesserat. A patribus igitur Melenius Agrippa, qui in populi gratia erat, missus est ut concordiam inter patres plebemque restitueret. Is ad populum venit fabulamque de ventre et membris narravit. “Olim -inquit- humani artus, quia ventrem otiosum putabant, ab eo discordaverunt coniuraveruntque ne manus cibum ad os admoverent neu os acciperet neu dentes conficerent. Artus ipsi relanguescere inceperunt. Venter enim piger non est, sed cibum accipit ut per omnia corporis membra distribuat. Sic patres populusque, quasi unum corpus, cocordia confirmantur, discordia pereunt”. Propter Melenii fabulam, populus in urbem revenit; tribunos plebis tamen creavit ut libertatem suam adversus nobilitatis superbiam defenderet.

A causa dell’impazienza delle milizie e dei tributari, la plebe si era opposto ai senatori e si erano ritirati sull’Aventino. Tra i senatori dunque fu mandato Melenio Agrippa, che era nella grazia del popolo, affinchè restituisse la concordia tra i senatori e la plebe. Quello giunse dal popolo e raccontò una favola sul ventre e sulle membra. Disse “Una volta le membra umane, poichè consideravano il ventre ozioso, litigarono con quello e si misero d’accordo affinchè le mani non portassero alla bocca il cibo e la bocca non lo prendesse e i denti non lo afferrassero. Ma gli stessi arti iniziarono a indebolirsi. Infatti il ventre non è pigro ma prende il cibo per poi distribuirlo a tutte le membra. Così il senato e il popolo, come in un solo corpo, sono rafforzati nella concordia e periscono nella discordia”. A causa della favola di Melenio, il popolo ritornò in città, tuttavia nominò i tribuni della plebe per difendere la loro libertà contro la superbia della nobiltà.

“Ponzio attira i Romani verso le Forche Caudine”

Duae ad Luceriam ferebant viae, altera praeter oram superi maris, patens apertaque sed quanto tutior tanto fere longior, altera per Furculas Caudinas, brevior; sed ita natus locus est: saltus duo alti angusti silvosique sunt montibus circa perpetuis inter se iuncti. Iacet inter eos satis patens clausus in medio campus herbidus aquosusque, per quem medium iter est; sed antequam venias ad eum, intrandae primae angustiae sunt et aut eadem qua te insinuaveris retro via repetenda aut, si ire porro pergas, per alium saltum artiorem impeditioremque evadendum. In eum campum via alia per cavam rupem Romani demisso agmine cum ad alias angustias protinus pergerent, saeptas deiectu arborum saxorumque ingentium obiacente mole invenere. Cum fraus hostilis apparvisset, praesidium etiam in summo saltu conspicitur. Citati inde retro, qua venerant, pergunt repetere viam; eam quoque clausam sua obice armisque inveniunt.

Le strade che portavano a Luceria erano due: una lungo la costa adriatica, aperta e sgombra, ma tanto più lunga quanto più sicura, l’altra attraverso le Forche Caudine, più rapida. Si tratta però di un luogo con questo tipo di conformazione: due gole profonde, strette e coperte di boschi, collegate da una catena ininterrotta di montagne. In mezzo a queste montagne si apre una pianura abbastanza ampia, ricca di acque e di pascoli, e tagliata da una strada. Ora, per accedervi è necessario attraversare la prima gola, mentre per uscire si deve o tornare sui propri passi per la strada fatta all’andata, oppure – qualora si voglia procedere – attraversare una gola ancora più stretta e impervia della prima. L’esercito romano, dopo aver raggiunto quella pianura attraverso uno dei passaggi incassati nella roccia, stava marciando verso la seconda gola, quando la trovò ostruita da una barriera di tronchi abbattuti e di grossi massi. Era chiaro che si trattava di un agguato nemico: infatti avvistarono sulla cima della gola un manipolo di armati. Cercarono quindi, senza perdere un attimo, di ritornare indietro per il passaggio attraverso il quale erano arrivati, ma trovarono sbarrato anche questo da ostacoli naturali e da uomini armati.

“Le oche del Campidoglio”

Devictis apud Alliam flumen legionibus et sine praesidio urbe relicta, iuvenes Romani, missi Veium legatibus, se receperunt in Capitolium, Galli autem, obsidone posita, quia vestiga humana conspexerant vel quia sua sponte animadveterunt saxum pervium apud Carmentae templum, nocte sublustri primum exploratores inermes praemiserunt, deinde, traddentes arma et sublevantes in vicem, tacite in summum evaserunt: non custodes solum fefellerunt, sed ne canes quidem, animalia sollicita ad nocturnos strepitus, excitaverunt. Anseres vero in templo Iounonis -quod ad iis in summa inopia cibi tamen abstinebatur- non fefellerunt: alarum crepito excitu est M. Manilius, triennio ante consul et vir bello egregius, qui armis arreptis, ad arma ceteros ciens vadit. Dum ceteri trepidant, ille solus unum hostem iam in summo muro consistentem ambone ictum deturbat, et alios subvenientes in moeniis trucidat. Nacque et alii succurrerunt, telis missilibus saxisque proturbaverentur hostes et Gallos praecipitaverunt. Sedato deinde tumultu reliquum noctis quieti datum est.

Dopo che le legioni erano state sottomesse presso il fiume Allia e poichè avevano lasciato la città senza protezione i giovani romani, che erano stati inviati a Veio in qualità di ambasciatori, ritornarono al campidoglio. I Galli invece che avevano posto l’assedio o perché avevano notato orme umane, o perché si erano resi conto da soli che l’erta nei pressi del tempio di Carmenta poteva essere superata senza difficoltà, una notte debolmente rischiarata inviarono prima in avanscoperta un uomo disarmato per accertare che il passaggio fosse praticabile; poi, passandosi le armi nei punti più difficili, appoggiandosi a vicenda e silenziosamente raggiunsero la cima: non solo riuscirono a passare inosservati alle sentinelle, ma non svegliarono nemmeno i cani che invece sono animali sensibilissimi ai rumori notturni. Non sfuggirono però alle oche nel tempio di Giunone che, nonostante la grande penuria di viveri, erano state risparmiate. Marco Manlio, che era stato console tre anni prima e si era sempre distinto in campo militare, fu svegliato infatti dal verso e dallo starnazzare delle oche e afferrate le armi incoraggiò gli altri ad imitarlo. Mentre i suoi compagni correvano in disordine, con un colpo di scudo ricacciò giù dal pendio un nemico che era già riuscito a raggiungere la sommità dell’erta e travolse quelli che gli venivano dietro. E poichè si aggiunsero gli altri, i nemici vennero allontanati con lancio di frecce e di pietre, i Galli precipitarono. Tornata la calma, il resto della notte venne dedicato al riposo.

Ab urbe condita I, 30 (“Istituzioni politiche e militari di Tullio Ostilio”)

Roma interim crescit Albae ruinis. Duplicatur civium numerus; Caelius additur urbi mons, et quo frequentius habitaretur eam sedem Tullus regiae capit ibique habitavit. Principes Albanorum in patres ut ea quoque pars rei publicae cresceret legit, Iulios, Seruilios, Quinctios, Geganios, Curiatios, Cloelios; templumque ordini ab se aucto curiam fecit quae Hostilia usque ad patrum nostrorum aetatem appellata est. Et ut omnium ordinum viribus aliquid ex novo populo adiceretur equitum decem turmas ex Albanis legit, legiones et veteres eodem supplemento explevit et novas scripsit. Hac fiducia virium Tullus Sabinis bellum indicit, genti ea tempestate secundum Etruscos opulentissimae viris armisque. Vtrimque iniuriae factae ac res nequiquam erant repetitae. Tullus ad Feroniae fanum mercatu frequenti negotiatores Romanos comprehensos querebatur, Sabini suos prius in lucum confugisse ac Romae retentos. Hae causae belli ferebantur. Sabini haud parum memores et suarum virium partem Romae ab Tatio locatam et Romanam rem nuper etiam adiectione populi Albani auctam, circumspicere et ipsi externa auxilia. Etruria erat vicina, proximi Etruscorum Veientes. Inde ob residuas bellorum iras maxime sollicitatis ad defectionem animis voluntarios traxere, et apud vagos quosdam ex inopi plebe etiam merces ualuit: publico auxilio nullo adiuti sunt ualuitque apud Veientes – nam de ceteris minus mirum est – pacta cum Romulo indutiarum fides. Cum bellum utrimque summa ope pararent vertique in eo res videretur utri prius arma inferrent, occupat Tullus in agrum Sabinum transire. Pugna atrox ad siluam Malitiosam fuit, ubi et peditum quidem robore, ceterum equitatu aucto nuper plurimum Romana acies ualuit. Ab equitibus repente inuectis turbati ordines sunt Sabinorum, nec pugna deinde illis constare nec fuga explicari sine magna caede potuit.

Con la distruzione di Alba, Roma si espande, raddoppia la sua popolazione. Il colle Celio viene inserito nella città e, per spingere la gente a sceglierlo come residenza, Tullo lo elegge a sede permanente della reggia da quel momento in poi. La nobiltà albana (Giuli, Servili, Quinzi, Gegani, Curiazi e Cleli) ottenne nomine senatoriali, così che anche quella parte dello Stato potesse avere un incremento numerico. E come sede consacrata per questo strato sociale che egli stesso aveva aumentato di proporzioni creò la curia, che continuava ad avere il nome di Curia Ostilia ancora ai tempi dei nostri padri. E perché tutte le classi potessero crescere numericamente grazie al nuovo popolo, arruolò dieci plotoni di cavalieri, completò i ranghi delle vecchie legioni e ne creò di nuove, sempre attingendo esclusivamente alle forze alleate. Confidando in queste forze, Tullo dichiara guerra ai Sabini che, in quel tempo, eran secondi soltanto agli Etruschi per disponibilità di uomini e di armi. Entrambe le parti avevano causato danni senza poi mai farvi seguire alcuna riparazione. Tullo lamentava la cattura di alcuni mercanti romani nel pieno di una fiera nei pressi del tempio di Feronia. I Sabini sostenevano invece che tempo prima alcuni dei loro concittadini erano andati a rifugiarsi nel bosco sacro del santuario ed erano stati trattenuti a Roma. Questi erano i pretesti addotti per la guerra. I Sabini, però, non trascuravano che parte delle loro forze era stata trasferita a Roma da Tazio e che la potenza romana era cresciuta grazie alla recente annessione del popolo albano. Per questi motivi, cominciarono anch’essi a cercare aiuti dall’estero. Gli Etruschi erano vicini, ma ancora più vicini erano i Veienti. Presso questi ultimi, essendo il rancore dovuto alle recenti guerre un incentivo fortissimo alla rivolta, riuscirono a mettere insieme dei volontari e ad assoldare degli avventurieri senza né arte né parte attratti soltanto dall’opportunità di fare due soldi. Non venne fornito alcun aiuto ufficiale: Veio (e a maggior ragione gli Etruschi) restava fedele al suo trattato concluso con Romolo. Mentre l’una e l’altra parte si preparavano scrupolosamente alla guerra e sembrava che avrebbe avuto la meglio chi avesse aggredito per primo, Tullo anticipa i nemici e invade il territorio dei Sabini. Ci fu uno scontro tremendo presso la selva Maliziosa. I Romani ebbero la meglio grazie sì alla forza d’urto della loro fanteria, ma soprattutto grazie alla recente immissione di effettivi nella cavalleria. Fu proprio una carica improvvisa di cavalieri a seminare il panico tra le fila sabine; da quel momento in poi non furono più in grado né di tenere la propria posizione in battaglia, né di districarsi con la fuga senza incappare in perdite massicce.

“Marco Valerio Corvino”

Bello Gallico, anno quadrigentesimo quinto ab Urbe condita, cum Romani in stationibus quieti tempus tererent, Gallus quidam, magnitudine atque armis insignis, processit quatiensque scutum hasta, cum silentium fecisset, per interpretem provocavit unum ex Romanis ut secum ferro decerneret. Marcus Valerius, tribunus militum adulescens, cum facultatem a consule petivisset, in medium armatus processit. Tum res mirabilis accidit: corvus repente consedit in galea iuvenis Romani qui manus cum Gallo conserturus erat. Hoc ut augurium de caelo missum tribunus existimavit et deos oravit ut propitii sibi Romanisque essent. Ales non solum in galea permansit sed, cum Romanus et Gallus certamen inchoaverunt, levans se alis os oculosque Galli rostro et unguibus appetivit, donec Valerius hostem prodigio territum obtruncavit. Tum corvus evolavit orientem petens atque Romani Valerio cognomen Corvinum indiderunt.

Durante la guerra gallica, nell’anno 405 dalla fondazione di Roma, trascorrendo i Romani tranquilli il tempo nei posti di guardia, un Gallo, insigne in armi e in grandezza, avanzò scuotendo lo scudo con la lancia, essendosi fatto silenzio (tacendo tutti), provocò attraverso un interprete uno tra i romani affinchè si battesse con la spada con lui. Marco Valerio, giovane tribuno militare, chiedendo la possibilità al console, avanzò armato nel mezzo. Allora accadde una cosa incredibile: un corvo all’improvviso si sedette sull’elmo del giovane romano che stava per venire in battaglia con il gallo. Il tribuno credette che questo fosse un presagio mandato dal cielo e pregò gli dei affinchè fossero propizi a lui e ai romani. L’uccello non solo restò sull’elmo ma, quando il romano e il gallo vennero allo scontro, sollevandosi con le ali si avvicinò alla bocca e agli occhi del gallo con le unghie e il becco, finchè Valerio sconfisse il temico spaventato dal prodigio. Allora il corvo volò verso oriente e i romani diedero a Valerio il cognome di Corvino.

“Imprudenza di Gaio Ampio e assalto dei Galli Boi”

P. Aelius consul, cum in Gallia citeriorem pervenisset atque audivisset a Boiis ante suum adventum incursiones in agros sociorum factas, duabus legionibus subitariis inter socios conscriptis, additisque quattuor cohortibus de exercitu suo, C. Ampium, praefectum sociorum, hac tumultuaria manu agrum Boiorum invadere iussit. Ampius, ingressus in hostium fines, primum populationes satis prospere ac tuto fecit, deinde, delecto apud Mutilum loco ad castra satis idoneo, castra posuit atque cum omnibus fere militibus frumentatum (iam enim maturae erant segetes) profectus est. Sed, neque explorato circa, neque stationibus positis ut milites inermes et operi demetendi intenti protegerentur, improviso impetu Gallorum cum frumentatoribus circumventus est. Tum pavor etiam armatos (milites) cepit, qui fugae se dederunt. Circiter septem milia hominum palata per segetes caesa sunt, inter quos ipse C. Ampius praefectus: ceteri in castra, metu compulsi, confugerunt. Inde sine certo duce, consensu militari, inseguenti nocte, relicta magna parte rerum suarum, ad consulem P. Aelium per saltus prope invios pervenerunt.

Il console P. Elio, essendo giunto nella Gallia Citeriore e avendo saputo che erano state fatte dai Boi nei campi degli alleati incursioni prima del suo arrivo, arruolate due legioni occasionali tra gli alleati, aggiunte quattro coorti dal suo esercito, ordinò che C. Ampio, prefetto degli alleati, invadesse con questo manipolo tumultuoso i campi dei Boi. Ampio, entrato nei confini dei nemici, rese le popolazioni abbastanza prospere e sicure, infine, scelto un luogo presso Mutilo idoneo all’accampamento, pose l’accampamento e partì con tutti i soldati verso il frumento (già infatti erano mature le messi). Ma, non esplorato intorno, nè poste le stazioni perche fossero protetti i soldati inermi e intenti all’opera della mietitura, con un improvviso assalto dei galli fu circondato con i suoi mietitori. Allora il terrore prese anche gli armati, che si diedero alla fuga. Circa settemila dispersi tra i campi di messi caddero uccisi, tra i quali lo stesso prefesso Ampio: gli altri fuggirono nell’accampamento, spinti dalla paura. Infine senza un sicuro comandante, per il consenso militare, fattasi notte, lasciata grande parte delle sue cose, giunsero al console Elio attravesso il passo quasi inaccessibile.

“Morte di Asdrubale”

Cum Hasdrubal, Hannibalis frater, in Italiam ingressurus esset, senatus duos consules Livium Salinatorem ac Claudium Neronem Roma proficisci iussit: prior in Galliam Cisalpinam ut Hasdrubali occurreret missus est, alter in Apuliam ut Hannibali se opponeret. Interea Hasdrubal, Alpibus superatis, quattuor equites cum litteris ad Hannibalem misit ut eum de suo adventu certiorem faceret, sed ii, a Romanis capti, ad Claudium Neronem perducti sunt. Consul, cognitis Hasdrubalis consiliis, cum delectis copiis nocte profectus est et, magnis itineribus, spatio sex dierum ad castra alterius consulis Livii Salinatoris pervenit. Itaque ambo consules, copiis coniunctis, Hasdrubalem apud Senam devicerunt. Occisa sunt eo proelio quinquaginta sex hostium milia; ipse Hasdrubal, ne tantae cladis superesset, concitato equo, se in cohortem Romanam immisit atque pugnans cecidit.

Quando Asdrubale, fratello di Annibale, stava per giungere in Italia, il senato ordinò ai due consoli, Livio Salinatore e Claudio Nerone, di mettersi in marcia. Il primo fu mandato in Gallia Cisalpina per combattere Asdrubale, l’altro in Puglia per combattere Annibale. Nel frattempo Asdrubale, valicate le Alpi, mandò quattro cavalieri ad Annibale con una lettera, perchè lo informasse del suo arrivo. Ma quelli catturati dai Romani, furono condotti da Claudio Nerone. Il console, conosciuti i piani di Asdrubale, con truppe scelte nella notte partì e con marce forzate, nello spazio di sei giorni arrivò nell’accampamento dell’altro console Livio Salinatore. E così entrambi i consoli, unite le truppe, sbaragliarono Asdrubale presso Sena. In quel combattimento furono uccisi 56000 nemici; lo stesso Asdrubale, per non sopravvivere ad una così grande strage, spronato il cavallo, si slanciò contro la coorte romana e mentre combatteva morì.

“Lealtà del popolo romano”

Ingenti poenorum classe circa Siciliam devicta, duces eius, fractis animis, consilia petendae pacis agitabant. Quorum Hamilcar ire se ad consules negabat audere, ne eodem modo catenae sibi inicerentur, quo ab ipsis Cornelio Asinae consuli fuerant iniectae. Hanno autem, certior Romani animi aestimator, nihil tale timendum ratus, maxima cum fiducia ad colloquium eorum tetendit. Apud quos cum de fine belli ageret, et tribunus militum ei dixisset posse illi merito evenire quod Cornelio accidisset, uterque consul, tribuno iacere iusso, “Isto te” inquit “metu, Hanno, fides civitatis nostrae liberat”. Claros illos facerat tantum hostium ducem vincire potuisse, sed multo clariores fecit noluisse.

Dopo che l’ingente flotta dei Cartaginesi fu sconfitta davanti alla costa della Sicilia, i comandanti Cartaginesi pensarono alla pace. Amilcare, scelto per discutere con i Romani delle condizioni di pace, disse di non voler recarsi dai consoli temendo di essere gettato in catene allo stesso modo in cui era stato gettato dai Cartaginesi il console Cornelio. Invece Annone, più consapevole estimatore dell’animo romano credendo che non si dovesse temere nulla di simile, si diresse con la massima fiducia al colloquio. Presso i Romani mentre discuteva della fine della guerra, un tribuno gli disse che poteva accadergli giustamente ciò che era accuduto a Cornelio; entrambi i consoli fatto silenzio e mandato il via il tribuno dissero: “Annone il patto della nostra città ti libera da questa paura”. Tanto li avrebbe fatti famosi, il gettare in catene il comandante dei nemici, ma di gran lunga li rese più celebri non averlo voluto.

Ab Urbe Condita, V, 47

Dum haec Veiis agebantur, interim arx Romae Capitoliumque in ingenti periculo fuit. Namque Galli, seu vestigio notato humano qua nuntius a Veiis pervenerat seu sua sponte animadverso ad Carmentis saxo in adscensum aequo, nocte sublustri cum primo inermem qui temptaret viam praemisissent, tradentes inde arma ubi quid iniqui esset, alterni innixi sublevantesque in vicem et trahentes alii alios, prout postularet locus, tanto silentio in summum evasere ut non custodes solum fallerent, sed ne canes quidem, sollicitum animal ad nocturnos strepitus, excitarent. Anseres non fefellere quibus sacris Iunonis in summa inopia cibi tamen abstinebatur. Quae res saluti fuit; namque clangore eorum alarumque crepitu excitus M. Manlius qui triennio ante consul fuerat, vir bello egregius, armis arreptis simul ad arma ceteros ciens vadit et dum ceteri trepidant, Gallum qui iam in summo constiterat umbone ictum deturbat. Cuius casus prolapsi cum proximos sterneret, trepidantes alios armisque omissis saxa quibus adhaerebant manibus amplexos trucidat. Iamque et alii congregati telis missilibusque saxis proturbare hostes, ruinaque tota prolapsa acies in praeceps deferri. Sedato deinde tumultu reliquum noctis, quantum in turbatis mentibus poterat cum praeteritum quoque periculum sollicitaret, quieti datum est. Luce orta vocatis classico ad concilium militibus ad tribunos, cum et recte et perperam facto pretium deberetur, Manlius primum ob virtutem laudatus donatusque non ab tribunis solum militum sed consensu etiam militari; cui universi selibras farris et quartarios vini ad aedes eius quae in arce erant contulerunt, — rem dictu parvam, ceterum inopia fecerat eam argumentum ingens caritatis, cum se quisque victu suo fraudans detractum corpori atque usibus necessariis ad honorem unius viri conferret. Tum vigiles eius loci qua fefellerat adscendens hostis citati; et cum in omnes more militari se animadversurum Q. Sulpicius tribunus militum pronuntiasset, consentiente clamore militum in unum vigilem conicientium culpam deterritus, a ceteris abstinuit, reum haud dubium eius noxae adprobantibus cunctis de saxo deiecit. Inde intentiores utrimque custodiae esse, et apud Gallos, quia volgatum erat inter Veios Romamque nuntios commeare, et apud Romanos ab nocturni periculi memoria.

Mentre a Veio succedevano queste cose, nel frattempo la cittadella di Roma e il Campidoglio corsero un gravissimo pericolo. Infatti i Galli, o perché avevano notato orme umane nel punto in cui era passato il messaggero giunto da Veio, o perché si erano resi conto da soli che l’erta nei pressi del tempio di Carmenta poteva essere superata senza difficoltà, una notte debolmente rischiarata inviarono prima in avanscoperta un uomo disarmato per accertare che il passaggio fosse praticabile; poi, passandosi le armi nei punti più difficili, appoggiandosi a vicenda e spingendosi verso l’alto gli uni con gli altri a seconda della natura del terreno, raggiunsero la cima in un tale silenzio che non solo riuscirono a passare inosservati alle sentinelle, ma non svegliarono nemmeno i cani che invece sono animali sensibilissimi ai rumori notturni. Non sfuggirono però alla vigilanza delle oche che, non ostante la grande penuria di viveri, erano state risparmiate perché sacre a Giunone. E questo fatto salvò i Romani. Svegliato infatti dal verso e dallo starnazzare delle oche, Marco Manlio, che era stato console tre anni prima e si era sempre distinto in campo militare, afferrando le armi e insieme chiamando gli altri a imitarlo, si fece avanti e mentre i suoi compagni correvano in disordine a armarsi, con un colpo di scudo ricacciò giù dal pendio un Gallo che era già riuscito a raggiungere la sommità dell’erta. Ma siccome la sua caduta travolse quelli che gli venivano dietro, altri Galli, colti dal panico, nel tentativo di aggrapparsi con le mani alle rocce alle quali aderivano con il corpo, lasciarono cadere le armi e finirono sotto i colpi di Manlio. Essendosi nel frattempo aggiunti anche altri Romani, i nemici vennero ricacciati dalle rocce con lancio di frecce e di pietre, così che l’intero contingente di Galli fu respinto con successo franando rovinosamente giù dal precipizio. Tornata la calma, per quanto era consentito a menti sconvolte dal ricordo del pericolo anche se ormai passato, il resto della notte venne dedicato al riposo. Alle prime luci del giorno, il suono delle trombe chiamò i soldati all’adunata di fronte ai tribuni. E siccome era necessario ricompensare chi aveva fatto il proprio dovere e punire chi invece non era stato all’altezza, prima di ogni altra cosa Manlio venne elogiato per il suo coraggio e premiato non solo dai tribuni dei soldati ma anche all’unanimità dai soldati, ciascuno dei quali portò mezza libbra di grano e un quarto di vino alla sua casa sulla cittadella: ricompensa modesta, a parole, ma che in quella situazione di grave penuria era prova di enorme affetto, in quanto ogni soldato, per onorare quell’unico uomo, si privava di viveri, li sottraeva alla propria persona e necessità. Poi vennero chiamati in giudizio le sentinelle di guardia nel punto in cui i nemici erano riusciti a salire senza che nessuno se ne accorgesse. Il tribuno Quinto Sulpicio annunciò di volerli punire tutti in base alla legge marziale: ma trattenuto dalle concordi grida dei soldati che addossavano la responsabilità dell’accaduto su un’unica sentinella, risparmiò gli altri, e, col consenso di tutti, fece scaraventare dalla rupe Tarpea l’uomo che senza dubbio era il responsabile di quella colpa. Da quel momento in poi da entrambe le parti la vigilanza fu più accurata: sia presso i Galli che erano venuti a sapere dell’avvenuto passaggio di messaggieri tra Roma e Veio, sia presso i Romani, memori del pericolo corso quella notte.

Ab Urbe Condita, XXII, 7

Haec est nobilis ad Trasumennum pugna atque inter paucas memorata populi Romani clades. Quindecim milia Romanorum in acie caesa sunt; decem milia sparsa fuga per omnem Etruriam aversis itineribus urbem petiere; duo milia quingenti hostium in acie, multi postea [utrimque] ex volneribus periere. Multiplex caedes utrimque facta traditur ab aliis; ego praeterquam quod nihil auctum ex vano velim, quo nimis inclinant ferme scribentium animi, Fabium, aequalem temporibus huiusce belli, potissimum auctorem habui. Hannibal captivorum qui Latini nominis essent sine pretio dimissis, Romanis in vincula datis, segregata ex hostium coacervatorum cumulis corpora suorum cum sepeliri iussisset, Flamini quoque corpus funeris causa magna cum cura inquisitum non invenit.
Romae ad primum nuntium cladis eius cum ingenti terrore ac tumultu concursus in forum populi est factus. Matronae vagae per vias, quae repens clades allata quaeve fortuna exercitus esset, obvios percontantur; et cum frequentis contionis modo turba in comitium et curiam versa magistratus vocaret, tandem haud multo ante solis occasum M. Pomponius praetor “pugna” inquit “magna victi sumus”. Et quamquam nihil certius ex eo auditum est, tamen alius ab alio impleti rumoribus domos referunt: consulem cum magna parte copiarum caesum; superesse paucos aut fuga passim per Etruriam sparsos aut captos ab hoste. Quot casus exercitus victi fuerant, tot in curas distracti animi eorum erant quorum propinqui sub C. Flaminio consule meruerant, ignorantium quae cuiusque suorum fortuna esset; nec quisquam satis certum habet quid aut speret aut timeat. Postero ac deinceps aliquot diebus ad portas maior prope mulierum quam virorum multitudo stetit, aut suorum aliquem aut nuntios de iis opperiens; circumfundebanturque obviis sciscitantes neque avelli, utique ab notis, priusquam ordine omnia inquisissent, poterant. Inde varios voltus digredientium ab nuntiis cerneres, ut cuique laeta aut tristia nuntiabantur, gratulantesque aut consolantes redeuntibus domos circumfusos. Feminarum praecipue et gaudia insignia erant et luctus. Unam in ipsa porta sospiti filio repente oblatam in complexu eius exspirasse ferunt; alteram, cui mors filii falso nuntiata erat, maestam sedentem domi, ad primum conspectum redeuntis filii gaudio nimio exanimatam. Senatum praetores per dies aliquot ab orto usque ad occidentem solem in curia retinent, consultantes quonam duce aut quibus copiis resisti victoribus Poenis posset.

Fu questa la famosa battaglia del Trasimeno, una delle poche sconfitte memorande del popolo romano. Quindicimila Romani caddero uccisi sul campo, diecimila si dispersero fuggendo in tutta l’Etruria, per diversi cammini dirigendosi a Roma; dei nemici, duemila e cinquecento perirono in battaglia, molti, più tardi, delle ferite. Secondo altri, la strage d’ambe le parti fu maggiore; io, che non voglio accogliere notizie da fonti dubbie, al che inclinano troppo, quasi sempre, gli animi degli scrittori, mi sono attenuto particolarmente a Fabio, che di questa guerra fu contemporaneo. Annibale, lasciati liberi senza riscatto i prigionieri italici, messi in catene i romani, ordinò che si separassero dai mucchi dei nemici uccisi i cadaveri dei suoi soldati e che si desse loro sepoltura; fece anche cercare accuratamente il corpo di Flaminio, per seppellirlo; ma non lo trovò.
A roma, appena giunse la notizia di quel disastro, il popolo accorse in folla, atterrito e tumultuante, al Foro; le donne, vagando per le vie, chiedevano a tutti quelli in cui s’imbattevano quale strage fosse questa di cui si parlava e che cosa fosse avvenuto dell’esercito. E poiché la folla, come se si trattasse d’una regolare adunazione popolare, si riversava al luogo dei comizi e alla Curia, e reclamava i magistrati, finalmente poco prima del tramonto il pretore Marco Pomponio annunziò: “Siamo stati vinti in una grande battaglia”. Null’altro più preciso si seppe da lui; pure, l’uno con l’altro empiendosi la testa di dicerie, riferirono alle loro case che il console era morto con grande parte delle truppe, e che pochi eran sopravvissuti, o fuggiaschi per l’Etruria o prigionieri del nemico. Quante erano state le vicende dell’esercito vinto, altrettante furono le preoccupazioni di tutti quelli che avevano dei congiunti al seguito del console Caio Flaminio, ignari quali erano della sorte toccata a ciascuno del loro cari; né alcuno aveva certezza di quel che dovesse sperare o temere. L’indomani, e poi per alcuni giorni, alle porte fu maggiore la folla delle donne che non degli uomini, in attesa o di alcuno dei loro o di loro notizie; e a quelli che arrivavano facevan ressa intorno, né se ne potevano staccare, particolarmente dai loro conoscenti, prima di aver tutto domandato per filo e per segno. E avresti potuto distinguere, nei diversi volti di quelli che se ne ritornavano, se liete o tristi erano le notizie da essi apprese, mentre intorno ad essi si affollavano quelli che o si congratulavano o davano conforto mentre tornavano alle loro case. Particolarmente visibili erano le manifestazioni liete o luttuose delle donne. Di una si narra che, incontratasi proprio sulla porta col figlio tornato incolume, spirò tra le braccia di lui; di un’altra, che, mentre sedeva afflitta in casa per il falso annunzio ricevuto della morte del figlio, nel vederlo subitamente ritornato morì per eccesso di gioia. I pretori, per parecchi giorni, tennero riunito il Senato nella Curia, dal mattino fino al tramonto, discutendo con qual comandante e con quali forze si potesse opporre resistenza ai Punici vittoriosi.

“Annibale incita le truppe”

Cum Carthaginienses in cospectum Alpium pervenissent, magnus pavor eos invasit. Tum Hannibal, contione vocatā, militum animos ad spem erexit. Cur -inquit- vestra pectora semper impavida repens terror invasit? Memoria tenete totam Hipaniam a vobis occupatam esse, flumen Hiberum superatum ad delendum nomen Romanorum liberandasque omnes gentes orbis terrarum. Cum autem montes Pyrenaeos et flumen Rhodanum, inter fercissimas gentes, superabatis, pro certo habebatis etiam Alpes a vobis superatum iri. Nunc, tot populis victis, cum Alpes in conspectu habeatis, quarum alterum latus Italiae est, cur putatis fore ut vestra virtus minus quam antea niteat? Quid existimatis Alpes esse? Dico vobis Alpes habitari, coli, pervias esse exercitibus, etiam a Romanis saepe superatas esse. Eaedem olim Gallorum gentibus superandae fuerunt, ut Romam peterent vastarentque. Proinde vobis aut virtute Gallis cedendum est, aut Roma, caput orbis terrarum, itineris finis existimanda?

I Cartaginesi essendo giunti al cospetto delle Alpi, li invase un grande timore. Allora Annibale, convocata l’assemblea, eresse alla speranza gli animi dei soldati. “Perchè” -disse- ” il terrore invade all’improvviso i vostri petti sempre impavidi? Ricordate che avete occupato tutta la Spagna, superato il fiume Ibero per distruggere il nome dei romani e per liberare tutte le genti della terra. Quando tuttavia supererete i monti Pirenei e il fiume Rodano, tra le genti ferocissime, certamente supererete anche le Alpi. Ora, vinti tutti i popoli, quando sarete davanti alle Alpi, dall’altro lato delle quali si trova l’Italia, perchè ritenete che la vostra virtù splenda meno di prima? Che pensate siano le Alpi? Vi dico che le Alpi sono abitate, sono state attraversate dagli eserciti e spesso anche dai Romani. Le stesse furono superate anche dai popoli dei Galli, per prendere e devastare Roma. Infine bisogna che i Galli cedano a voi e alla virtù, e che Roma, capitale di tutte le terre, sia considerata la fine del viaggio.

“I romani deportano l’intera popolazione dei Liguri Apuani”

Ut Ligustinum bellum tandem componerent, Romani statuerunt deducere Ligures Apuanos ex montibus in loca campestria procul a domo, ne spes reditus esset. Cum Senatus traducere Ligures in Samnium statuisset, missi sunt ad eos duo consules cum exercitu ut mandata senatus perficerent. Consules edixerunt ut ii de montibus descenderent cum liberis coniugibusque omniaque sua secum ferrent. Ligures, ne cogerentur relinquere Penates, sedem, domos, maiorumque sepulcra, arma obsidesque promiserunt. Sed, cum nihil impetravissent neque vires et opes, ut bellum peragerent, haberent, edicto paruerunt. Traducti sunt publico sumptu quadraginta milia virorum cum feminis puerisque.

Affinchè preparassero la guerra “Ligustinum”, i romani decisero di condurre i liguri apuani dai monti ai luoghi campestri lontani da casa, affinchè non avessero la speranza di tornare. Avendo deciso il senato di trasportare i liguri nel Sannio, furono mandati a quelli due consoli con l’esercito per riferire i mandati del senato. I consoli dissero di allontanarsi dai monti con i figli e i coniugi, e di portare con loro tutte le cose. I liguri promisero, affinchè non pensassero di lasciare i penati, la sede, le case, i sepolcri degli antenati, armi e prigionieri. Ma non avendo ottenuto niente e non avendo nè uomini nè opere, per diffondere la guerra, si conformarono all’editto. Furono trasportati a spese pubbliche quarantamila uomini con donne e bambini.

Ab Urbe Condita, XXXVIII, 38

Cum Apamaeam, ubi consul Gneus Manlius castra posuerat, Antiochi regis legati venissent, foedus in haec fere verba conscriptum est: “Amicitia regi Antiocho cum populo Romano his legibus condicionibusque esto: Ne ullum exercitum, qui cum populo Romano sociisve bellum gesturus erit, rex Antiochus per fines suos transire sinat; neu commeatu neque alia ope eos adiuvet. Idem Romani sociique Antiocho praestent. Bellum gerendi ius Antiocho ne esto cum iis, qui insulas colunt, neve ei ullo modo in Europam transire liceat. Excedito urbibus, agris, castellis, vicis, quae cis Taurum montem ad Halym amnem sunt, et a valle Tauri usque ad iuga, quae in Lycaoniam vergunt. Ne ulla arma extulerit ex iis oppidis, agris, castellisque, ex quibus excedat. Eumeni regi, populi Romani socio, talenta trecenta quinquaginta intra quinquennium dentur et pro frumento, ubi aestimatio facta erit, talenta centum viginti septem. Obsides Romanis viginti rex det et post triennium eos mutet. Controversiae inter se iure aut iudicio disceptentur, aut, si utrisque placebit, bello”.

Una volta giunti gli ambasciatori del re Antioco ad Apamea – dove il console Cneo Manlio s’era accampato – il trattato fu redatto pressappoco in questi termini: “Sarà in vigore un’alleanza tra il re Antioco e Roma a questi patti ed a queste condizioni: il re Antioco non deve permettere ad alcun esercito – che avrà mostrato intenzione di portare guerra al popolo di Roma – di transitare entro il proprio territorio, né lo deve aiutare con rifornimenti o in altro modo. I Romani e gli alleati offriranno identiche garanzie ad Antioco. Antioco (inoltre) non avrà diritto di portare guerra agli abitanti delle isole, né potrà in alcun modo passare in Europa. (Il re) dovrà abbandonare le città, le campagne, le roccaforti e i villaggi che s’estendono al di qua del monte Tauro fino al fiume Halis, e dalla vallata del Tauro fino alle vette verso la Licaonia; non porterà (via) alcuna arma da quelle cittadelle, (da quei) campi e (da quelle) roccaforti, dalle quali si ritirerà. Si dovranno versare (dal re Antioco) al re Eumene – stretto alleato del popolo romano – 350 talenti in 5 anni e, al posto del frumento, 127 talenti, (qualora sarà stata stimata una) somma (equivalente). Il re (Antioco, inoltre) dovrà consegnare ai Romani 20 ostaggi e li dovrà cambiare dopo 3 anni. Le reciproche controversie dovranno risolversi o con mezzi diplomatici oppure – se sarà tale la volontà di entrambi – con la guerra”.

“Esempi di coraggio”

Quia tribuni plebis Saturnius et Equitius ac pretor Glaucia magnos seditionis motus in civitate excitabant, senator M. Aemilius Scaurus iam senex arma et ipse ad rei publicae salutem cepit, atque armatus ante Curiae fores stetit donec ictu saxi vulneratus est. C.Caesar, quod acies sua propter Nerviorum multitudem inclinabatur, rapuit scutum militi, qui admodum timide pugnabat, et strenue pugnare coepit: sic aciem restituit. Q. Occius, qui ob fortitudinem suam Achilles cognominabatur, dum sub Q. Metello consule legatus in Hispania est, quia miles ei rettulerat: “A viro Celtibero provocatus es!”, statim a mensa surrexit – forte enim prandebat – cum Celtibero manus conseruit et eum interfecit. Caesius Scaeva, dum Caesaris legiones e navibus in Britanniam exeunt, rate ad scopulum litori proximum pervenit et ibi solus Britannorum impetum strenue sustinuit: eius femur sagitta transfixum est et scutum crebris foraminibus transfossum est. Denique Caesius in mare se mersit et, postquam nando ad litus pervenit, Caesaris veniam petivit, quod sine scuto redierat.

Poiché i tribuni della plebe Saturnino ed Equizio, e il pretore Glaucia sollevavano gravi disordini in Roma, il senatore M. Emilio Scauro, oramai anziano, impugnò anch’egli le armi per difendere la patria, ed armato si piazzò davanti alla porta della Curia, finché alfine (non) fu colpito da un sasso. C. (Giulio) Cesare, poiché il proprio esercito ripiegava a causa del gran numero di Nervii (che attaccavano), strappò lo scudo ad un soldato, che stava combattendo con scarso coraggio, e prese a combattere con ardimento: in tal modo, riordinò le file dell’esercito. Q. Occio, soprannominato “Achille” per il suo coraggio, mentre stazionava in Spagna come legato sotto il comando del console Metello, poiché un soldato gli aveva riferito (le seguenti parole) ““ “Sei stato sfidato a duello da un Celtibero!” ““ s’alzò immediatamente dalla mensa ““ in quel frangente stava infatti mangiando ““ affrontò il Celtibero e lo uccise. Cesio Sceva, mentre le legioni di Cesare sbarcavano in Britannia, con una zattera si portò su uno scoglio molto vicino al litorale, e lì, da solo, sostenne con ardimento l’assalto dei Britanni: venne trapassato da una freccia ad una coscia, e lo scudo venne crivellato in molti punti. Alla fine, Cesio si gettò in mare e, giunto a nuoto sulla battigia, chiese il perdono di Cesare, perché era tornato senza scudo.

Ab Urbe Condita, I, 20

Tum sacerdotibus creandis animum adiecit, quamquam ipse plurima sacra obibat, ea maxime quae nunc ad Dialem flaminem pertinent. Sed quia in civitate bellicosa plures Romuli quam Numae similes reges putabat fore iturosque ipsos ad bella, ne sacra regiae vicis desererentur flaminem Iovi adsiduum sacerdotem creavit insignique eum ueste et curuli regia sella adornavit. Huic duos flamines adiecit, Marti unum, alterum Quirino, virginesque Vestae legit, Alba oriundum sacerdotium et genti conditoris haud alienum. His ut adsiduae templi antistites essent stipendium de publico statuit; virginitate aliisque caerimoniis venerabiles ac sanctas fecit. Salios item duodecim Marti Gradiuo legit, tunicaeque pictae insigne dedit et super tunicam aeneum pectori tegumen; caelestiaque arma, quae ancilia appellantur, ferre ac per urbem ire canentes carmina cum tripudiis sollemnique saltatu iussit. Pontificem deinde Numam Marcium Marci filium ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera quoque omnia publica priuataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec caelestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus alIove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Ad ea elicienda ex mentibus divinis Iovi Elicio aram in Aventino dicavit deumque consuluit auguriis, quae suscipienda essent.

Quindi rivolse la sua attenzione ai sacerdoti: bisognava nominarli, nonostante egli stesso fosse preposto a parecchi riti sacri, soprattutto quelli che oggi sono di competenza del flamine Diale. Ma poiché riteneva che in un paese bellicoso i re del futuro sarebbero stati più simili a Romolo che non a Numa e sarebbero andati di persona a combattere, non voleva che passassero in secondo piano le attribuzioni sacerdotali del re. Quindi designò un flamine a sacerdote unico e perpetuo di Giove, dotandolo di una veste speciale e della sedia curule, simbolo dell’autorità regale. A lui aggiunse altri due flamini, uno per Marte e uno per Quirino. Inoltre sceglie delle vergini da porre al servizio di Vesta, sacerdozio questo di origine albana e in qualche modo connesso con la famiglia del fondatore. Per permettere loro di dedicarsi esclusivamente al servizio del tempio, fece assegnare a esse uno stipendio dallo stato e, a causa della verginità e di altre cerimonie rituali, le rese sacre e inviolabili. Scelse anche dodici Salii per Marte Gradivo e garantì loro la possibilità di distinguersi vestendo una tunica ricamata e provvista di una placca di bronzo sul petto. Inoltre ordinò loro di portare gli scudi caduti dal cielo (noti come ancilia) e di compiere processioni in città cantando inni accompagnati da solenni passi di danza in tre tempi. Poi nomina pontefice un senatore, Numa Marcio, figlio di Marcio, cui fornisce dettagliate istruzioni scritte per tutte le cerimonie sacre: i tipi di vittime, i giorni prescritti, i templi in cui celebrare i vari riti e le risorse cui fare capo per mantenerne le spese. Subordinò all’autorità del pontefice anche tutte le altre cerimonie di natura pubblica e privata, in modo tale che la gente comune avesse un qualche punto di riferimento e che nessun elemento della sfera religiosa dovesse subire alterazioni di sorta, dovute a negligenze dei riti nazionali o all’adozione di culti di importazione. Inoltre il pontefice doveva diventare un esperto e attento interprete non solo delle cerimonie legate alle divinità celesti, ma anche delle pratiche funerarie, di quelle di propiziazione dei mani e dell’interpretazione dei presagi legati ai fulmini o ad altre manifestazioni. Per desumere questi mistici segreti dallo spirito dei numi, innalzò sull’Aventino un altare in onore di Giove Eliio e fece consultare il dio attraverso degli auguri per vedere di quali prodigi si dovesse tener conto.