“La contesa per le armi di Achille”

Hectore supulto, cum Achilles circa moenia Troianorum vagaretur ac diceret se solum Troiam expugnasse,Apollo iratus, Alexandrum Parin se simulans, talum, quem mortalem habuisse dicitur, sagitta percussit et occidit. Achille occiso ac supulturae tradito, Aiax Telamonius, quod frater patruelis eis fuit, postulavit a Danais ut ama sibi Achillis darent; quae ira Minervae ei abiurgata sunt ab Agamemnone et Menelao, et Ulixi data. Aiax, iniuria accota, per insaniam pecora sua et se ipsum vulneratum occidit eo gladio quem ab Hetore muneri accepit dum cum eo in acie contendit.

Dopo la sepoltura di Ettore, Achille si aggirava attorno alle mura di Troia dicendo che a lui solo si doveva la rovina della città; allora Apollo, adirato, assunte le sembianze di Paride, lo colpì al tallone, che si dice fosse la sua sola parte mortale, e lo uccise. Dopo la morte e i funerali di Achille, Aiace Telamonio chiese ai Danai di avere le armi di Achille, dal momento che era suo cugino. Ma, a causa dell’ira di Minerva, esse gli furono rifiutate da Agamennone e Menelao, che le diedero a Ulisse. Aiace, furibondo, in un accesso di follia uccise le sue greggi e si colpì a morte con la stessa spada che aveva ricevuto in dono da Ettore dopo che essi si erano affrontati a duello.

“Le due isole di Sicilia e Sardegna”

Italia, Romae provinciarum regina, magra et clara peninsula est. Sicilia et Sardinia Italiae insulae sunt. Sicilia insula, pulchrarum patria, magra est. Siciliae incolae agricolae, nautae et poetae sunt; Claudia, nautae filia, et Iulia, agricolae filia, amicae sunt, et discipulae sedulae. In Sardinia insula agricolae et nautae sunt, non poetae; puellae paucae sunt, ancillae multae. Sicilia et Sardiniae incolis piratae multarum lacrimarum causa sunt de insularum divitiis.

L’ Italia, regina delle province di Roma, è una grande e famosa penisola. La Sicilia e la Sardegna sono isole dell’Italia. La Sicilia, patria (terra) di belle fanciulle, è un’ isola grande. Gli abitanti della Sicilia sono contadini, marinai e poeti. Claudia, figlia del marinaio, e Giulia, figlia del contadino, sono amiche e alunne diligenti. Nell’isola della Sardegna ci sono agricoltori e marinai, (ma) non poeti: le ragazze sono poche, le ancelle molte. I pirati sono motivo di molte lacrime per gli abitanti di Sicilia e Sardegna per quanto riguarda le ricchezze delle isole.

“Un Viaggio da Atene a Roma”

Navis, et vectorum et mercium plena, Piraeum, Athenarum portum, relinquit: nautae oculus adiciunt in mirum templum deae Athenae, – graeca lingua Parthenon dicitur – quod splendet in arce urbis, quae Acropolis nominatur. Celeriter navis ventis secundis in altum ducitur. Sol occidit et nox in caelo sidera fert quae nautis viam ostendunt, iam navis laeva Cytheram insulam Veneris deae sacram, relinquit, dextra taenarum promuntorium, qua ad inferos via est. Cum nautae in mare ionium intrat Graeciae litora salutant et ad Italiam navigant. Navigatio usque ad Siciliam tranquilla est, sed fretum siculum, inter Scyllam et Carybdim, horrida monstra, ventorum vi agitatur. Denique gubernatoris peritia nautarumque diligentia navis integra in mare tirrhenum transit. Vectores, longo itinere fessi, cum latii litora vident, “Italiam, Italiam!” una voce clamant. Tandem navis ex alto in Ostiae portum intrat. Nautae de navi exeunt et Neptuno aquarum regi, atque Iovi, deorum patri, sacrificium faciunt.

La nave, piena di merci e vettovaglie, lascia il Pireo, porto di Atene: i marinai volgono lo sguardo al mirabile tempio di Atena – che nella lingua greca è chiamato Partenone – che splende nella rocca della città che è chiamata Acropoli. Velocemente la nave con venti favorevoli è condotta in alto. Il sole tramonta e la notte porta gli astri in cielo che mostrano la via ai marinai, già la nave leggera lascia l’isola di Citerea sacra alla dea Venere, alla destra il promontorio di Tenaro, che è la via agli inferi. Quanto i marinai entrano nel mar Ionio salutano i lidi della Grecia e navigano verso l’Italia. La navigazione fino alla Sicilia è tranquilla ma lo stretto degli scogli, tra Scilla e Cariddi, orribili mostri, è agitato dalla forza dei venti. Infine per l’esperienza dei timonieri e la perizia dei marinai la nave passa integra nel mar Tirreno. I vettori, stanchi per il lungo viaggio, quando vedono i lidi del Lazio gridano a gran voce: “Italia, Italia!”. Allora la nave entra dall’alto nel porto di Ostia. I marinai scendono dalla nave e fanno un sacrificio a Nettuno re delle acque dei mari, e a Giove padre degli dei e degli uomini.

“La battaglia delle Termopili”

Postquam Darius pater e vita excessit, Xerses magnas copias conscripsit classemque paravit, quoniam valde cupiebat in suam potestatem Graeciam redigere. Quare aestivo tempore Hellespontum traiecit, per Thracum Macedonumque fines cum suis militibus iter fecit et ad angustias Thermopylarum pervenit. Rerum scriptores tradunt Graecos periculum providisse et, quia potius libertatem quam vitam existimabant, contra hostem communem omnes simultates inter se posuisse. Ita cum ad Thermopylas xerses pervenit, Graecorum praesidium ibi invenit sed sine mora adfirmavit se Graecorum parvum manipulum facile visturum esse. Autem Xersis milites non sua vi ferroque sed dolo vicerunt. Nam a proditore devium per montes iter Persis apertum est: ita e Thessalia in Phocidem, in Boeotiam et inde in Atticam penetraverunt. Narrant barbaros in incolas vim fecisse, ferro ignique oppida vastavisse dum Athenienses, iuxta oraculum responsum, in naves conscendunt et salutem fuga petunt.

Dopo che Dario morì, Serse arruolò grandi truppe e preparò una flotta, poichè desiderava fortemente portare in suo potere la Grecia. Per tale motivo in estate si spinse all’Ellesponto, fece un viaggio con i suoi soldati attraverso i confini della Tracia e della Macedonia e giunse allo stretto delle Termopili. Gli storici dicono che i Greci avessero predetto il pericolo e, poichè consideravano di più la libertà che la vita, si sarebbero posti tra loro tutti insieme contro il nemico comune. Così quando Serse giunse alle Termopili, quì trovò il presidio dei Greci ma senza esitazione affermò che lui avrebbe devastato facilmente il piccolo manipolo di Greci. Tuttavia i soldati di Serse non vinsero per la loro forza o armi ma con l’inganno. Infatti la via è aperta da un traditore ai Persiani per i monti: così dalla Tessaglia in Focide, in Beozia e poi penetrarono in Attica. Narrano che i barbari abbiano fatto forza contro gli abitanti, abbiano devastato con ferro e fuoco le città mentre gli Ateniesi, oltre il responso dell’oracolo, si imbarcarono e cercarono la salvezza con la fuga.

“Virtù di Lucrezia, moglie di Collatino”

Cum ardea, Rutulorum urbs, a Tarquinio Superbo obsidione cingebatur et bellum diu producebatur, a tarquinii filiis tempus saepe conviviis terebatur. Dum apud eos olim forte cenat collatinus (postea idem cum Bruto consul eligetur), sermo de uxoribus incidit et omnes suam magnopere laudaverunt. Eis igitur Collatinus dixit: cur verbis frustra certamus? Conscendere equos possumus atque oculis videre uxores nostras, dum vitam domi agunt. Mox domos suas pervenerunt; quia regiae nurus in conviviis deprensae sunt Lucretiaque autem, Collatini uxor, cum ancillis ad lanam intenta Lucretiae ipsi praecipua laus muliebris virtutis tributa est.

Mentre Ardea, città dei Rutuli, era cinta da un assedio da parte di Tarquinio il Superbo e la guerra si stava svolgendo da molto, spesso il tempo era fatto trascorrere dai figli di Tarquinio con banchetti. Quando presso di loro giunse una volta per caso Collatino (lo stesso poi era stato eletto console insieme a Bruto), il discorso cadde sulle mogli e tutti lodavano vivamente la propria. Collatino, dunque, disse loro: “Perchè disputiamo inutilmente con le parole? Possiamo montare a cavallo e vedere personalmente le nostre mogli, mentre trascorrono la vita in casa”. In poco tempo giunsero alle loro abitazioni; mentre le (altre) giovani donne furono sorprese mentre (si intrattenevano) con banchetti, Lucrezia invece, moglie di Collatino, fu trovata mentre, insieme alle ancelle, era intenta alla tessitura. Alla stessa Lucrezia fu attribuita una particolare lode per la (sua) virtù femminile.

“Leonida”

Non possunt ignorari Graecorum clara opera in bello adversus persas acto.Iustum est praecipue Leonidam, fortem virum, Lacedaemoniorum regem memori oratione celebrare. Xerses enim, Perdarum dux, cum ingentibus copiis per asperas angustias in Graeciam penetrare optaverat. Sed Leonidas una cum paucis militibus viam artam et difficilem strenue tenebat. Diu pugnatum est et hostes saepe propulsi sunt, donec infamis proditoris auxilio occulta semita a Persis reperta est. Iam Graeci circumventi erant et omnes atroci proelio vitam amiserunt. Apud Thermopylas – ita appellatur regio, ubi proelium commissum erat – monumentum postea pisitum est: tam clari facinoris nobili fama grataque memoria Graeci sunt commoti.

Non si possono ignorare le famose imprese dei Greci nella guerra fatta contro i Persiani. E’ giusto soprattutto celebrare con un discorso riconoscente Leonida, uomo forte, re degli Spartani. Serse, infatti, condottiero dei Persiani, cercava di penetrare in Grecia con ingenti milizie attraverso difficili strettoie. Ma Leonida, insieme con pochi soldati, teneva valorosamente una via stretta e difficile. Si combatté a lungo e i nemici furono respinti spesso, finché con l’aiuto di un infame traditore non fu trovato dai Persiani un passaggio nascosto. I Greci erano stati ormai circondati e e persero tutti la vita in un terribile combattimento. Presso le Termopili, così si chiama quella regione dove era stato fatto il combattimento, poi fu posto un monumento: i Greci furono spinti dalla nobile fama e dalla gradita memoria di un’impresa tanto famosa.

“Camillo e il maestro di scuola”

Dum M. Furius Camillus oppidum Falerios obsidet, ludi magister multos generosos pueros extra oppidum secum eduxit, velut ambulandi gratia. Inde ineptis verbis iter produxit, et paulatim inter vigilias ac denique in castra Romanorum discipulos duxit atque Camillo tradidit. Magnum praemium ob id a Romanis sperabat, nam tacite secum dicebat: “Si filios magistratuum Faliscorum Romanis tradam, tum ii indutias statim petent et Romanas copias intra moenia oppidi accipient”. Sed Camillus perfidiam ac dolum eius improbavit et: “Arma, inquit, non adversum inermos, sed adversum armatos Romani sumunt”; deinde perfidum magistrum nudatum pueris tradidit, virgasque eis dedit. Pueri eum verberabant, dum in oppidum ducunt. Statim Falisci, quorum oppidum Romani expugnare non potuerant, beneficio magis quam armis victi, portas Romanis aperuerunt.

Mentre M. Furio Camillo assediava la città di Faleri, un maestro elementare condusse con sé dei nobili bambini fuori dalla città, come per fare una passeggiata. Poi presentò il cammino con inopportune parole, e a poco a poco condusse gli alunni tra le sentinelle e infine nell’accampamento dei Romani e li consegnò a Camillo. Per questo sperava in un grande premio dai Romani, infatti diceva tra sé e sé in silenzio: “Se avrei consegnato ai Romani i figli dei magistrati Falisci, allora loro chiederanno subito una tregua e faranno entrare le truppe Romane dentro le mura della città”. Ma Camillo disapprovò la sua perfidia e il suo inganno e disse: “I Romani prendono le armi non contro i disarmati, ma contro gli armati”; quindi consegnò il perfido maestro denudato ai bambini, e diede loro dei bastoni. I ragazzi lo percossero, mentre lo conducevano in città. Subito i Falisci, la cui città i Romani non avevano potuto espugnare, vinti con il beneficio più che con le armi, aprirono le porte ai Romani.

“L’impresa di Teseo”

Cum Theseus, ut Minotaurum occideret, Cretam venisset, ibi mirabilem Graecum artificem, virum magni ingenii et omnibus artibus excellentem, invenit: hominis nomen Daedalus erat. Praeclarus artifex, regis Minois iussu, labyrinthum construxerat, immensum aedificium innumerabilibus conclavibus atque artis longisque faucibus praeditum. In labyrintho Minos Minotaurum secluserat, monstrum corpus humanum et caput taurinum habens. Ariadna, Minois filia, cum amore Thesei arderet, ut Theseus sine difficultate e labyrintho effugeret, viro dedit caput lanei fili, alterum caput manibus suis tenens. Itaque Theseus, cum Minotaurum gladio trucidavisset, filum iterum volvendo, exitum invenit et labyrinthum salvus reliquit.

Teseo, per uccidere il Minotauro, essendo venuto a Creta, qui trovò il mirabile artista dei Greci, uomo di grande senno e eccellente in tutte le arti: il nome dell’uomo era Dedalo. Artista illustre, per ordine di Minosse costruì un labirinto fornito con numerose stanze e con lunghe strettoie. Nel labirinto Minosse aveva chiuso il Minotauro, mostro di corpo umano e testa taurina. Arianna, figlia di Minosse, ardendo d’amore per Teseo, affinchè Teseo fuggisse senza alcuna difficoltà dal labirinto, diede all’uomo un gomitolo di lana, tenendo con le sue mani l’altro gomitolo, sciogliendo il filo via via, trovò la via di uscita e lasciò salvo il labirinto.

“L’oratore Demostene”

In Demosthene, Graecorum oratorum principe, tandum discendi studium fuit, ut tandem superaret impedimenta naturae diligentia atque industria. Ita balbus erat, ut rethoricae artis, quam discere cupiebat, primam littera non posset dicere; tamen perfecit exercitatione ut nullus orator eo melior putaretum. Deinde perduxit ad gratum auribus sonum vocem suam, quae propter exilitatem acerba erat. Laterum firmitate destitutus, obtinuit a labore eas vires quas corporis habitatus negaverat. Coniectis in os calcoli, summa voce multos versus pronuntiabat inambulans et ardua loca celeri gradu scandens. Sic diu adversus naturam pertinaciter pugnavit, ut victor discesserit et malignitatem eius superaverit.

In Demostene, principe degli oratori greci, ci fu tanto desiderio di apprendere, per superare infine le cose avverse della natura con diligenza e operosità. Era balbuziente così non potendo pronunciare la prima lettera desiderava apprendere l’arte della retorica; tuttavia portò a termine con l’esercizio tanto che nessun oratore era considerato migliore di lui. Poi migliorò il suono della sua voce per le orecchie, voce che per la tenuità era stridula. Sospeso per la robustezza dei fianchi, ottenne dal lavoro quelle forze che prima non aveva. Raccolti i sassi nella bocca, pronunciava con voce imponente molti versi passeggiando e scendendo con velocità i gradini di luoghi angusti. Così a lungo combattè tenacemente contro la natura per uscirne vincitore e superare la sua malignità.

“Meraviglie del mondo”

Apolloniae in Epiro in monte de terra exit flamma; sub monte in campo sunt lacus aquae pleni; cum manibus plauditur, ab aqua ingentibus bullis pix emanat; Ambraciae Iovis templum est, unde ad inferos descensus est. Sycione in Achaia in foro aedes Apollinis est; in aede sunt posita Amemnonis clipeus et gladius, Ulixis lorica, Teucri sagittae et arcus, Penelopae tela, remi Argonautarum cum gubernaculis. In Caria est fanum Veneris in ora maritima; ibi est lucerna, super candelabrum posita, lucens ad mare sub divo, quae neque vento extinguitur neque pluvia aspergitur. Magnesiae apud Sipylum columnae sunt quattuor; inter columnas est Victoria ferrea pendens sine ullo vinculo, quae ne vehementi vento quidem movetur. Ecbatanis in Media domus est Cyri regis, aedificata lapidibus candidis et nigris, aureis laminis vinctis.

Ad Apollonia in Epiro, in una montagna dalla terra esce il fuoco; sotto il monte, in un campo, ci sono laghi pieni di acqua; quando si battono le mani, dall’acqua vien fuori della pece in molte bolle; ad Ambracia vi è il tempio di Giove, da dove è sceso agli inferi. A Sicione in Acaia nel foro vi è il tempio di Apollo; nel tempio sono custoditi lo scudo e la spada di Agamennone, la corazza di Ulisse, gli archi e le frecce di Teucro, la tela di Penelope, i remi degli Argonauti con i timoni. Nella Caria sulla costa vi è il santuario di Venere; qui vi è una lucerna, messa sopra un candelabro, lucente allo scoperto verso il mare, che non viene spenta né dal vento né è inzuppata dalla pioggia. A Magnesia presso Sifilo vi sono quattro colonne; fra le colonne c’è una Vittoria di ferro pendente senza nessun vincolo, che non è mossa nemmeno dal vento forte. A Ecbatana in Media vi è la casa del re Ciro, edificata con pietre bianche e nere, unite da lamine d’oro.

“Fasi alterne della prima guerra punica”

Primo bello Punico Romani, Carthagiensibus apud Mylas victis, exercitum a Sicilia in Africam traduxerunt ut hostibus commeatum intercluderent atque eorum fines vastarent. Romanorum consules Marcus Manlius et Atilius Regulus cum exercitu usque ad Carthaginem processerunt multa oppida omnesque agros hostium ferro ignique vastantes. Postea M. Manlius consul, in Italiam a senatu revocatus, Romam rediit magnum captivorum numerum secum ducens. A. Regulus autem in Africa mansit ut bellum pergeret; nam tres Carthaginiensium duces vicit eorumque copias fudit. Tum Carthaginienses legatos ad Regulum miserunt ut de pace agerent. Cum Regulus condiciones graviores tulisset – imperaverat enim ut hostes arma deponerent, classem submergerent ac grave tributum penderent – Carthaginienses legatos Lacedaemonem miserunt auxilium contra Romanos petituros. A Lacedaemoniis Carthaginem missus et Xantippus dux cum copiis delectis. Is, cum proelium cum Romanis commisisset, eos vicit fugavitque. A. Regulus consul captus est ac in vincula coniectus (est).

Durante la prima guerra punica i Romani, vinti i Cartaginesi presso Milazzo, condussero l’esercito dalla Sicilia in Africa per bloccare i rifornimenti ai nemici e devastare il loro territorio.
I consoli dei Romani M. Manlio e Attilio Regolo avanzarono con l’esercito fino a Cartagine mettendo a ferro e fuoco molte città e tutti i campi dei nemici. Poi il console M. Manlio richiamato in Italia dal senato tornò a Roma portando con sè un gran numero di prigionieri. Attilio Regolo invece rimase in Africa per proseguire la guerra, infatti vinse tre comandanti dei Cartaginesi e sbaragliò le loro truppe. Allora i Cartaginesi mandarono gli ambasciatori da Regolo affinchè trattassero le condizioni di pace. Avendo Regolo proposto condizioni troppo dure – infatti ordinò che i nemici deponessero le armi, affondassero la flotta e pagassero un pesante tributo, i Cartaginesi mandarono degli ambasciatori a Sparta per chiedere aiuto contro i Romani. Dagli Spartani fu mandato a Cartagine il comandante Santippo con delle truppe scelte. Egli, avendo attaccato battaglia con i Romani li vinse e li mise in fuga, il console Attilio Regolo fu catturato e imprigionato.

“Augusto e Mecenate”

Maecenas eques Romanus fuit Augusti amicus cuius animum ardentem ac mobilem saepe ad bonum opportune et callide flexit. Interdum principem etiam a malis consiliis devocavit. Olim Augustus cum in tribunali ut iudex sederet multos homines capitis damnavit. Maecenas re cognita ad tribunal accurrit et ad imperatorem appropinquare temptavit sed frustra cum permagnus populi concursus esset. Itaque imperavit ut tabella sibi ferretur ubi haec verba calamo exaravit:”Surge tandem carnifex!” tabellam obsignavit et effecit ut Augusto traderetur. Augustus cum tabellam legit statim ius dicere cessavit ac neminem capitis amplius damnavit.

Mecenate, cavaliere romano, fu amico di Augusto, il cui, animo ardente e nobile spesso lo volse opportunamente e astutamente verso il bene. Talvolta richiamò l’imperatore anche dai cattivi consigli. Una volta Augusto mentre sedeva in tribunale come giudice, condannò a morte molti uomini. Mecenate, conosciuta la cosa, corse verso il tribunale e tentò di avvicinarsi verso l’imperatore ma inutilmente, poichè fu attaccato dal popolo. E così ordinò che gli si prendesse una lettera dove scrisse con lo stilo queste parole: “Vieni fuori una buona volta carnefice!”, sigillò la lettera e fece si che fosse consegnata ad Augusto. Augusto, quando lesse la lettera, subito cessò di amministrare la giustizia e non condannò a morte più nessuno.

“Il dio Giano”

Ianus a Romanis scriptoribus antiquus Italiae deus putatur. Ianus enim – utt sciptores tradunt – primus Romanis sacros ritus dedit. Is omnium operarum initiis praesidebat, quapropter primus anni mensis Ianuarius appellatus est et deo sacer fuit. Sculptores pictoresque romani Ianum bifrontem fingebant, id est cum duplici vultu, quod uno vulto praeterita facta respiciebant, altero futura
animadvertebat. Praeterea Ianus cum baculo in dextra manu clavemque in sinistra fingebatur, quia sub eius tutela erant urbium domorumque ianuae, qua homines in urbes domosque inibant et quae a deo nomen trahebant. Romae Iani templum apud montem Capitolium erat: templi ianuae belli tempore aperiebantur, pacis tempore, autem, claudebantur. A Iano nomen trahit etiamo Ianiculus mons, qui trans pontem Sublicium apud Tiberim surgit.

Giano è ritenuto dagli scrittori Romani un antico dio dell’Italia. Giano infatti, come tramandano gli scrittori, per primo diede ai Romani i riti sacri. Costui presiedeva alle fasi iniziali di tutte le opere, per la qual cosa il primo mese dell’anno fu chiamato Gennaio e fu consacrato al dio. Gli scultori e i pittori romani raffiguravano Giano bifronte, cioè con un duplice volto, poichè con un volto erano guardate le cose accadute e con l’altro quelle future. Talvolta Giano era raffigurato con il bastone nella mano destra e con la chiave nella sinistra, poichè erano sotto la sua protezione le porte delle città e delle case, attraverso le quali gli uomini entravano in città e nelle case e che prendevano nome dal dio. A Roma vi era presso il colle Capitolino il tempio di Giano: in tempo di guerra le porte del tempio erano aperte, invece in tempo di pace erano chiuse. Da Giano prende anche il nome il monte Gianicolo, che si innalza oltre il ponte Sublicio sul Tevere.

“Il ratto delle Sabine”

Iam Romani multas finitimas gentes crebiis proeliis vicerant, eorumque potentia iam valida erat, sed de penuria mulierum iuventus sollicit erat. Frusta Romulus legatos circa vicinas gentes miserat et conubia petierant; nusquam finitmi benigne audiverant legatos, sed saepe eos spreverant et acerbe dimiserant. Aegre Romani has iniurias tolerabant, et iam animo bellum cogitabant, cum Romulus magna cum calliditate magnificos ludos Neptuno paravit et finitimos ad spectacula invitavit. Multi convenerunt, cupidi visendi et novam urbem et inusitatos ludo; Sabini quoque cum liberis uxoribusque venerunt. Comiter Romni advenas per vias urbis circumducunt, nova aedificia monstrant, liberaliter convivia instruunt.

I Romani avevano vinto con feroci battaglie molte genti confinanti e la loro potenza era già forte, ma la gioventù era inquieta per mancanza di donne. Invano Romolo aveva mandato ambasciatori tra le genti vicine, ma spesso li allontanavano e aspramente li cacciavano. I Romani mal tolleravano queste offese, e già pensavano in animo alla guerra, quando Romolo con astuzia preparò giochi magnifici per Nettuno e invitò i vicini allo spettacolo. Molti giunsero, desiderosi di vedere sia la nuova città sia gli spettacoli inusuali; i Sabini vennero anche con figli e mogli. Amichevolmente i Romani conducono gli arrivati per le vie della città, mostrano i nuovi edifici, preparano pranzi con generosità.

“La famiglia de Cicerone”

Tulliorum familia, quae et Ciceronis postea cognomentum recepit, ex minicipio Arpinati originem traxit; principium vero generis in Tullium, Volscorum regem, santis constanti opinione hominum referebatur. Haec familia, quamquam a regibus orta est, tamen, quoniam res mortalium fluxae ac labiles sunt, procedente tempore, claritate nominis exstincta, famam omnino amisit et Romae equestrem locum, qui medius inter patricios et plebem habebatur, consecuta est. Qui primus ex ea familia Cicero cognominatus est in estrema nasi parte eminens quidam in figuram ciceris habuit, a quo ei cognomen inditum est, ac per eum in posteros transfusum est. Ex hac itaque famiglia Cicero orator natus est patre Tullio, matre Olbia, quae et ipsa honestis parentibus orta erat. Tradunt nutrici eius phantasma, per somnum visum, dixisse magnam rei publicae salutem ab illa nutriri. Hoc oraculum, ab inizio spretum, ipse mox verum fuisse ostendit.

La famiglia dei Tulli, da cui dopo prese il cognome di Cicerone, trasse origine dal municipio di Arpinate, l’inizio in verità della stirpe era attribuita secondo l’opinione degli uomini a Tullio, re dei Volsci. Questa famiglia, sebbene sorta dai re, tuttavia, poichè le cose dei mortali sono volubili e labili, con l’andar del tempo, estinta la celebrità del nome, perse completamente la fama e ottenne a Roma il luogo equestre, che era intermediario tra i patrizi e la plebe. Il Cicerone che per primo ottenne il cognome da quella famiglia aveva nella parte estrema del naso una tale sporgenza dalla forma di un cece, per la quale a quello venne affidato il cognome e attraverso quello venne tramandato ai posteri. Da questa famiglia così l’oratore Cicerone nacque dal padre Tullio, madre Olbia, che lei stessa nacque da onesti genitori. Dicono che il fantasma della sua nutrice, attraverso un sogno, abbia detto che grande parte della salute delle stato era nutrito da quella. Questo oracolo, disprezzato sin dall’inizio, mostra che quello stesso subito dopo sia stato vero.

“Tarpea”

Sabini bellum adversum Romanos susceperant ut iniuriam raptarum virginum armis vindicarent. Cum hostes iam urbem oppugnarent, Romani in Capitolium confugerunt. Capitolii arcis curtos Spurius Tarpeius erat, cuius filiam, Tarpeiam nomine, Titus Tatius, Sabinorum rex, auro corrupit ut milites armatos in arcem acciperet. Ea enum forte de Capitolio descenderat, ut aquam sacrificiis necessariam e fonte remota hauriret. Tum Tatius, cum virginem conspicatus esset, eam clam secutus est et, ut viam ad Capitolium cognosceret arceque facilius potiretur, magnis pollicitationibus illexit: “Quidquid cupis, puella, tibi libentissime concedam , si me meosque milites in Capitolium perduxeris”. Tarpeia ut proditionis pretium petivit quod Sabini in manibus sinistris gerebant: arbitrabatur enim se pretiosis armillis atque anulis gemmatis ab eis donari. Itaque, falsa spe inducta, portam aperuit ut hostes in arcem ingrederentur. Sed confestim proditionis suae maximas poenas pependit: nam, Sabinorum scutis obruta, suffocatione vulneribusque mortua est. Hostes enim non solum monilia sed etiam scuta in manibus sinistris gerebant. Quicumque turpe facinus commisit, invisus hostibus ipsis est.

I Sabini avevano mosso guerra contro i Romani per vendicare con le armi l’offesa del ratto delle vergini. Avendo i nemici assediato la città, i Romani si rifugiarono nel Campidoglio. Spurio Tarpeo era custode della rocca del Campidoglio, la cui figlia, di nome Tarpea, Tito Tazio, re dei Sabini, aveva corrotto con l’oro affinchè accogliesse i soldati armati nella rocca. Quella allontanandosi dal Campidoglio, perchè portasse l’acqua necessaria dalla fonte (remota) ai sacrifici. Allora Tazio, avendo visto la vergine, la seguì di nascosto, per conoscere la via al Campidoglio e entrare facilmente nella rocca, la illuse con grandi preghiere: “Qualsiasi cosa desideri, o fanciulla, te la concederò volentieri, se condurrai me e i mei soldati nel Campidoglio”. Tarpea chiese come prezzo del tradimento ciò che i Sabini avevano nella mano sinistra: pensava infatti che quelli gli avrebbero donato braccialetti preziosi e anelli gemmati. E così indotta da falsa speranza aprì la porta per far entrare i nemici nella rocca. Ma subito pagò grandissime pene del suo tradimento: infatti coperta dagli scudi dei Sabini, morì di soffocamento e per le ferite. I nemici infatti non portavano solo gioielli ma anche scudi nelle mani sinistre. Chiunque commetta una turpe azione, è inviso agli stessi nemici.

“Il ratto delle Sabine” (2)

Iam res publica romana tam valida erat, ut finitimis populis numero civium par esset. Sed civitas feminis carebat. Itaque Romulus ad gentes vicina legatos misit, qui ab iis peterent ut Romanis filias uxores darent. Sed cum Romanorum legati nusquam benigne accepti essent, rex dolo mulieribus potitus est. Ludos enim sollemnes maximo apparatu fecit et in urbem proximas civitates invitavit. Cupiditate spectaculorum flagrantes, omnes homines cum uxoribus ac liberis Romam convenerunt; in quibus erant etiam Sabini. Cum universi ludos spectarent, repente regis iussu omnes Romani Sabinorum virgines, quas quisque arripuerat, domos suas vi traxerunt. Parentes filiabus suis orbati magno cum clamore profugerunt et a propinquis quxilium petiverunt, ut violati hospitii iniuriam ulciscerentur. Sic bellum magnum coortum est, sed Romani brevi tempore Sabinos eorumque socios devicerunt.

La repubblica romana era già tanto potente, essendo pari ai popoli limitrofi per numero di cittadini. Ma la città era carente di donne. Perciò Romolo mandò dalle genti confinanti ambasciatori, che chiedessero loro di dare le figlie in mogli ai Romani. Ma, dopo che gli ambasciatori dei Romani non furono per nulla bene accolti, il re con l’inganno s’impadronì delle donne. Egli infatti allestì con grande apparato spettacoli solenni e invitò a Roma le città vicine. Conquistati dal desiderio degli spettacoli, tutti gli uomini convennero a Roma con mogli e figli; tra loro c’erano anche i Sabini. Mentre tutti assistevano ai giochi, improvvisamente per ordine del re tutti i Romani trascinarono con forza verso le proprie case le vergini dei Sabini, che ognuno di loro aveva afferrato. I genitori, privati delle loro figlie, con gran clamore fuggirono e chiesero l’aiuto degli abitanti vicini, affinchè si vendicassero dell’offesa arrecata dall’oltraggiosa ospitalità. Così scoppiò una grande guerra, ma i Romani in breve tempo vinsero definitivamente i Sabini e i loro alleati.

“E’ bene leggere pochi libri, ma buoni”

Seneca hortabatur Lucilium suum ut libros, non multos sed utiles, apud se haberet. Eadem fuit Aristippi, philosophi eminentissimi, sententia. Olim enim apud eum homo vanus et stultus gloriabatur se plurimos libros lectitavisse. Quare se doctissimum esse arbitrabatur et doctrinam suam iactaner celebrebat. Eius iactantiam Aristippus aegre passus, eum percontatus est: “Meliusne arbitraris copisum deterioremque cibum sumere an modicum sed meliorem? Num validiores esse exstimas eos qui multos cibos edunt quam eos qui salubrioribus vescuntur? Ego quidem arbitror nimium cibum hominii semper nocere. Ita docti existimari debent non illi qui multos, sed qui optimos libros legunt. Non multa enim, sed bona, a viro sapienti expetuntur. Praeterea qui vere sapiens est, etiam modestus est neque arbitrantur se omnia scire”.

Seneca esortava il suo Lucilio affinché avesse con sé dei libri, non molti ma utili. Uguale fu il pensiero di Aristippo, eminentissimo filosofo. Una volta infatti presso di lui un uomo vano e stolto si glorificava per aver letto moltissimi libri. Per questo motivo credeva di essere molto sapiente ed esaltava spudoratamente la sua dottrina. Aristippo, tollerando a stento la sua arroganza, gli chiese: “E’ forse meglio assumere cibo abbondante e meno buono o modico ma migliore? Forse giudichi che siano migliori quelli che mangiano molto cibo rispetto a quelli che mangiano cibi più salutari? Io per conto mio reputo che troppo cibo danneggi sempre l’uomo. Così devono essere considerati sapienti non quelli che leggono molti libri, ma quelli che leggono i migliori. Infatti dall’uomo sapiente sono cercate non molte cose, ma buone. Inoltre chi è veramente saggio, è anche modesto e non crede di sapere tutto”.

“Glauco e Diomede”

Urbs Troia a graecis multos per annos obsessa est. Ab omnibus fere populis Asiae strenui duces cum ingentibus copiis troianis auxilio venerunt. Inter eos eminebat Glaucus, iuvenis Lycius acris aingenii ac singularis audiaciae, qui in bello saepe magna experimenta virtutis suae dedit. Is olim sub moenibus Troiae Diomedem, fortem virum graecum ad singulare certamen proocavit. Ante proelium Diomedes sic eum interrogavi: “Quod nomen inquit est tibi? Unde originem trabis?”. Respondit Glaucus: “Voluntati tuae satisfacere volo tibique genus meum libenter indicabo. Mihi pater est Hippolochus avus Bellerophon, vir audax fortisque: nam Chimaeram mosntrum triforme, necavit et amazones genus mulierum bellicosarum er crudelium occidit”. Tunc Diomedes magno gaudio captus est: “Mihi tecum inquit antiquum hospitium est! Nam cum Bellerophon in Graeciam venit, benigne acceptus est ab Oeneo avo meo. Bellerophon balteum purpureum hospiti dono dedit, Oeneus ei pateram auream donavit et amicitiam sempiternam iunxerunt”. Itaque Glaucus et dioemdes amicos non hostes se agnoverunt, proelium non commiserunt et arma inter se commutaverunt.

La città di Troia fu assediata dai Greci per molti anni. Da tutti i popoli vicini dell’Asia vennero in aiuto ai Troiani comandanti con ingenti truppe. Tra loro emergeva Glauco, giovane della Licia di acuto ingegno e di singolare audacia, che spesso aveva dato prova della sua virtù in guerra. Lui una volta provocò Diomede, forte uomo greco, a singolare duello sotto le mura di Troia. Prima della battaglia Diomede lo interrogò così: “Qual è – disse – il tuo nome? Da dove provieni?” Glauco rispose: “Voglio soddisfare la tua volontà e volentieri ti indicherò la mia stripe. Mio padre è Ippoloco, mio nonno Bellerofonte, uomo audace e forte: infatti uccise Chimera, mostro a tre teste, e uccise le amazzoni, stirpe di donne crudeli e bellicose”. Allora Diomede fu preso da grande gioia: “Tra me e te – disse – c’è un antico vincolo di ospitalità! Infatti quando Bellerofonte giunse in Grecia, fu accolto benignamente da Eneo, mio nonno. Bellerofonte diede in dono all’ospite una cintura purpurea, Eneo gli donò un recipiente d’oro e unirono l’amicizia eterna”. Così Glauco e Diomede si riconobbero come amici e non nemici, non commisero battaglia e si scambiarono le armi tra loro.

“Spedizione contro i Senoni”

Caesar, nondum hieme confecta, proximis quattuor coactis legionibus, de improviso fines Nerviorum contendit et, prius quam illi aut convenire aut profugere possent, magno pecoris atque hominum numero capto atque praeda militibus concessa vastatisque agris, in deditionem venire atque obsides sibi dare coegit. Celeriter confecto negotio, rursus in hiberna legiones reduxit. Concilio Galliae primo vere, ut instituerat, indicto, quia reliqui praeter Senones, Carnutes, Treverosque venerant, cum initium belli ac defectionis timeret, concilium lutetiam parisiorum traduxit.

Cesare, non appena terminato l’inverno, con le più vicine quattro legioni costrette, si diresse improvvisamente verso i territori dei Nervi e, prima che quelli potessero radunarsi o fuggire, preso un gran numero di uomini e di animali e data ai soldati la possibilità di devastare i territori, li obbligò a trattare ed a dare ostaggi. Concluse velocemente le trattative, ricondusse presto negli accampamenti invernali le legioni. Indetta l’assemblea della Gallia in primavera, poiché, oltre ai Senoni vennero anche i Carnuti ed i Treviri, temendo un inizio di un’altra guerra, spostò il concilio a Lutezia.

“Alessandro e la nobile prigioniera”

Alexander, Dareo proelio superato, assiduis conviviis dies noctesque consumebat. Olim inter epulas captivas Persas suo ritu carmen canere iussit. Inter quas unam rex ipse conspexit maestiorem quam ceteras et producentibus eam verecunde reluctantem. Excellens erat forma et formam pudor honestabat: deiectis in terram oculis et ore velato suspicionem praebuit regi eam nobilissimo genere natam esse. Ergo interrogata quaenam esset, respondit se genitam esse filio Ochi, qui ante Dareum regnaverat apud Persas, et uxorem Hystaspis esse. Hic e propinquis Darei fuerat et ipse magni exercitus dux. Tunc Alexander, et fortunam mulieris, regia stirpe genitae, et tam celebre nomen Ochi reveritus, non dimitti modo captivam, sed etiam restitui ei suas opes iussit, virum quoque requiri, ut ei reperto uxorem redderet.

Alessandro, superato in battaglia Dario, consumava giorni e notti in continui conviti. Un giorno durante il banchetto ordinò alle prigioniere persiane di cantare un canto secondo il loro rito. Tra di loro il re stesso vide una sola più infelice delle altre e riluttante per vergogna davanti a coloro che la portavano avanti. Era eccellente di bellezza e il pudore rendeva onorevole la bellezza: gli occhi fissi a terra e il viso velato, fece sospettare il re che fosse nata da una famiglia assai nobile. Dunque interrogata chi fosse, rispose che era stata generata dal figlio di Oco, che prima di Dario aveva regnato presso i persiani e che era moglie di Istaspe. Egli era stato uno dei parenti di Dario e lui stesso comandante di un grande esercito. Allora Alessandro, avendo avuto riguardo della condizione della donna, nata da stirpe regale, e del nome tanto celebre di Oco, non solo ordinò che la prigioniera fosse rilasciata, ma anche che le fossero restituite le sue ricchezze, che fosse trovato il marito anche, affinché a lui ritrovato rendesse la moglie.

“Il topo di campagna e il topo di città”

Olim mus rusticus urbanum murem, veterem amicum suum, ad cenam in paupere cavo invitavit et hospit in humuli mensa ciceres et uvas aridas et duras vicini memoris glandes apposcuit. Urbanus mus vix vilem cibum dente superbo tangebat et rustica alimenta contemnebat. Tandem sic exclamavit: “Cur, amice, vitam tam miseram ruri agis? Veni nepum in urbem, ubi magnam cibi suavis copiam in venie set beatus sine curis vides”. Consilium placuit muri rustico et is migravit cum comite in domicilium splendidum urbanum; hic dum tranquilli et securi cenante et gustant cibaria soaves, de improvviso, latratus canum resonant et servi irrumpunt. Mures territi fugiunt et vestigant refugium. Tum mus rusticus dixit muri urbano: “Vale amice mie, mane in urbe cum tuis cibis soavibus, ego autem redeo in meam miseram et securam vitam rusticam”.

Una volta, un topo di campagna invitò e ospitò un topo di città, un suo vecchio amico, a pranzo in una misera tana e servì in un’umile tavola ceci, uva secca e aspra e ghiande dal bosco vicino. Il topo di città assaggiava appena quel cibo banale con gusto severo e disprezzava quegli alimenti contadini. Infine così esclamò: “Perché, o amico, conduci una vita talmente misera in campagna? Vieni con me in città, dove troverai abbondante quantità di cibo piacevole e vivrai felice senza preoccupazioni”. Il consiglio piacque al topo di campagna e si trasferì con il compagno nella magnifica casa urbana; qui mentre tranquilli e sicuri cenavano e gustavano le vivande delicate, all’improvviso rimbombano i latrati dei cani e irrompono i servi. I topi spaventati scappano e cercano un rifugio. Allora il topo di campagna disse al topo di città: “Salute amico mio, tu rimani in città con i tuoi cibi squisiti, io invece ritorno alla mia povera e sicura vita di campagna”.

“L’incendio del tempio di Apollo a Dafne”

Imperatore Iuliano regnante, amplissimus Daphnaei Apollonis fanum, quod rex Antiochus condiderat, et simulacrum dei, statuae Iovis Olympiaci magnitudine simile, subita vi flammarum exustum est. Imperator propter atrocem casum tanta ira permotus est ut iuberet quaestions agitari solito acrioreset maiorem ecclesiam Antiochiae claudi. Iulianus enim putabat Christianos incendium excitavisse, invidia stimulatos, quod templum splendidis columnis ornatum videbat. Ferebant autem delubrum conflagravisse, quod Asclepides philosophus,cum ad templum venisset, deae Veneris argentum parvum signum ante pedes simulacri posuerat et ex usu cereos accenderat. Itaque media nocte volitantes scintillae adhaeserunt materiis aridissimis er celerrime omnia concremaverunt.

Sotto l’impero dell”imperatore Giuliano, fu devastato con forza improvvisa delle fiamme il grandissimo tempio di Apollo e Dafne, che il re Antioco aveva eretto, e il simulacro del dio (Apollo), uguale per grandezza alla statua di Giove Olimpico. L’imperatore per il fatto atroce fu scosso da un’ira così forte che ordinò di avviare indagini e di chiudere la più grande chiesa di Antiochia. Giuliano infatti riteneva che i cristiani avessero scatenato l’incendio, spinti dall’invidia perchè vedevano il tempio ornato di splendide colonne. Si diceva che il tempio andò in fiamme poichè il filosofo Asclepiade, essendo giunto al tempio, aveva posto un piccolo segno d’argento della dea Venere ai piedi del tempio e secondo l’uso aveva acceso i ceri. E così in piena notte le fiamme scintillanti presero fuoco con il materiale più secco e arsero velocemente ogni cosa.

“Un ufficiale pericoloso”

Avidius Cassius qui, ut quidam aiunt, ex nobilissima familia Cassiorum per matrem fuit, genitus est Avidio Severo, qui humili loco natus,ad summas dignitates pervenerat. Quadratus in historiis meminit eum et necessarium rei publicae fuisse et apud ipsum imperatorem Marcum Aurelium prevalidum; constat autem, illo imperante, fatali sorte periisse. Hic ergo Cassius, ex familia, ut diximus, Cassiorum, qui in Caesarem conspiraverant, oderat tacite principatum nec ferre poterat imperatorium nomen dicebatque nihil esse gravius nomine “imperio”. Ferunt eum temptavisse in adulescntia extorquere etiam Antonino Pio principatum, sed per patrem, virum sanctum et gravem, affectationem tyrannidis latuisse. Cassium tam semper ducibus suspectus fuit. Imperatori Vero illum paravisse insidias, ipsius Veri epistola ad Marcum Aurelium scripta indicat: Avidius Cassius imperii avidus est, opes magnas parat, omnia nostra ei displicent, imperata haud diligenter facit. Vide quid agentum sit. Ego eum non odi, sed timeo ne miles, qui eum libenter audieunt et libenter vident, corrumpat.

Avidio Cassio che, come dicono alcuni, fu per madre dalla nobilissima famiglia dei Cassi, fu generato da Avidio Severo, che nato da umile stirpe, era giunto a somme dignità. Quadrato ricorda nelle storie che quello sia stato necessario allo Stato e assai valido presso lo stesso imperatore Marco Aurelio, è noto tuttavia, quello imperante, che sia morto per sorte fatale. Questo dunque Cassio, dalla famiglia, come abbiamo detto, dei Cassi, che avevano congiurato contro Cesare, odiava silenziosamente il principato e non poteva sopportare il nome degli imperatori e diceva che niente vi era di più grave del nome “impero”. Dicono che quello abbia provato da giovane ad estorcere anche il principato ad Antonino Pio, ma attraverso il padre, uomo pio e onesto, abbia nascosto la brama della tirannide. Tuttavia Cassio fu sempre in sospetto ai comandanti. All’imperatore Vero abbia preparato insidie come indica la stessa lettera di Vario a Marco Aurelio: Avidio Cassio è avido di potere, prepara grandi imprese, gli dispiacciono tutte le nostre cose, non fa diligentemente le cose ordinate. Considera cosa bisogna fare. Io non lo odio, ma temo che corrompa i soldati che lo ascoltano piacevolmente e lo vedono piacevolmente.

“L’amore per il lusso e il piacere porta alla rovina eserciti e città”

Campana luxuria utilissima nostrae civitati fuit: invictum enim Hannibalem illecebris suis alliciens, debiliorem militibus Romanis tradidit. Nam luxuria Carthaginiensium vigilantissimum ducem et acerrimum exercitum dapibus largis, maxima vini copia, unguentorum fragrantia, amoris consuetudine lasciviore ad desidiam et delicias evocavit. Ac tum demum Punica feritas fracta et contusa est. Nihil ergo foedius est, nihil damnosius vitiis quae virtutem atterunt, sopitam gloriam in infamiam convertunt animique pariter et corporis vires expugnant. Talia vitia etiam Volsiniensium civitatem funditus everterunt. Urbs opulentissima atque morum et legum observantissima erat, Etruriae caput putabatur: sed eius cives, postquam luxuriae stultissime se dederant, tam indulgentes ignavique facti sunt ut servorum insolentissimae dominationi se subicerent.

La lussuria Campana fu utilissima per la nostra Roma: attraendo infatti l’invincibile Annibale con le sue lusinghe, offrì il meglio ai soldati romani. Infatti l’amore per il lusso dei Cartaginesi chiamò all’inoperosità e all’amore per le delizie il più attento comandante dei Cartaginesi e l’esercito più combattivo per mezzo di sontuosi banchetti, abbondanza di vino, fragranze di profumi, con la consuetudine troppo sfrenata dell’amore verso l’ozio e le delizie. E allora la grande ferocia dei Cartaginesi fu precisamente spezzata e confusa. Nulla è dunque così cattivo, nulla più dannoso ai vizi che logorano il valore, trasformano la gloria dell’animo e del corpo. Tali vizi distrussero del tutto anche la città del Volsiniesi. La città era assai ricca e rispettosa delle tradizioni e delle leggi, era ritenuta il capo dell’Etruria: ma i suoi cittadini, dopo che molto stupidamente si diedero alla lussuria, diventarono così indulgenti e pigri che si sottomisero all’insolentissima dominazione della servitù.

“Notizie sulle regioni nordiche”

Ex libris Caesaris et Taciti cognoscere possumus quid veteresde regionibus ad Septentrionemversis senserint. Caelum Germaniae asperius quam nostrum putabant et agros minus fertilies, quia ibi – sic enim in suis libris scripserunt – sol rarius et pallidiore luce splendet, noctes sunt longiores et fridiores, aestas perbrevis, hiems diututnior et asperior quam in nostris regionibus. Itaque incolae natura maestiores videbantur et saepe in miserrima condicione propter frigus acerrimum et molestissimum. Italiae regionibus contra erat caelum purum et tenuius, aer hominibus saluberrimus et frugibus aptissimus, agri fertiliores; quare incolae laetiores et alacriores videbantur. In silvis Germaniae vivebant plurima animalia, Romanis ignota, inter quae Caesar alces et uros posuit. Alces erant figura simillimae capris, sed paulo maioreset mutilae cornibus; crura sine nodis articulisque habebant neuqe procumbebant ut quiscerent, quia, si concidebant, surgere, non poterant. Uri ernat paulo minores slephantis et habebant figuram tauri, sed amplitudo cornuum multo a nostrorum boum cornibus differebant.

Dai libri di Cesare e di Tacito possiamo sapere che cosa gli antichi abbiano pensato delle regioni volte a Settentrione. Reputavano il clima della Germania più rigido del nostro e i campi meno fertili, perché lì – così infatti scrissero nei loro libri – il sole splende più raramente e di luce più pallida, le notti sono più lunghe e più fredde, l’estate brevissima, l’inverno più lungo e più aspro che nelle nostre regioni. E così gli abitanti per la natura sembravano più tristi e spesso in condizione pessima a causa del freddo durissimo e molto molesto. Le regioni d’Italia, al contrario, avevano un clima puro e mite, un’aria molto salubre per gli uomini e adattissima ai raccolti, campi più fertili; motivo per cui gli abitanti sembravano più lieti e alacri. Nelle foreste della Germania vivevano numerosi animali, ignoti ai Romani, tra i quali Cesare classificò le alci e gli uri. Le alci erano per l’aspetto molto simili alle capre, ma di poco più grandi e dalle corna tronche; avevano zampe senza nodi e articolazioni e non si coricavano per dormire, perché, se fossero cadute, non avrebbero più potuto rialzarsi. Gli uri erano di poco più piccoli degli elefanti e avevano l’aspetto del toro, ma per l’ampiezza delle corna differivano di molto dalle corna dei nostri buoi.

“Promesse elettorali”

Marcus tribunatum petit, quare veste candida indutus, inforumit, ad rostra ascendit et sic ad populum orationem habet: “Cives, si plebis tribunus creabor atque fidem vestram mihi dabitis, ego semper iura vestra contra patriciorum insolentiam defendam: vos sub mea tutela tuti ac tranquilli vivetis. Si liberos, uxores parentesque vastros amatis, si Romae deos deasque colitis, si libertatem pacem concordianque diligitis. Si iustum honestumque honoratis si bona vestra servare vultis. Cum suffragium vestrum in urnam deponetis, hoc solum mementote: ego semper vobiscum ero vos adiubavo atque defendere officio tribuni est semperque erit. In urbe concordia denique erit inter patricios ac plebem”. Vos, quid dicitis? Si Marcus tribunus creabitur promissa sua tenebit?

Marco chiese il tribunato, perciò indossata la veste bianca, entrò nel foro, si recò dai Rosti e così fece un orazione al popolo: “O cittadini, se verrò eletto tribuno della plebe, e voi mi darete la vostra fiducia, io giuro di difendervi per sempre dalle insolenze dei patrizi: voi vivrete tranquilli sotto la mia protezione. Se amate i vostri figli, le vostre mogli e i vostri parenti, se adorate gli dei e le dee di Roma, se prediligite la libertà, la concordia e la pace. Se onorate il giusto e l’onesto, se volete preservare voi stessi. Deponendo il vostro voto nell’urna, ricordate solo questo: io sarò sempre a voi, e a difendervi sempre dalle decisioni dei tribuni. Nella città vi sarà la concordia fra i patrizi e i plebei”. Voi che dite? Se Marco verrà eletto tribuno, manterrà la sua promessa?

“La vecchietta sincera e il tiranno Dionigi”

Syracusis anicula deos cotidie obsecrabat ut Dionysius, crudelissimus civitatis tyrannus, incolumis semper esset diuque viveret. Dionysus, re nova cognita, mulierem in regiam adduci iuissit precumque causam quaesivit. Anicula liberius respondit: “Olim Syracusis iniquus ryrannus imperium tenebat; cum e vita excessisset, ferocior tyrannus urbis arcem occupavit, ideoque vehementer cupiebam ut eius dominatus quam brevissimus esset. Sed postea habuimus te, omnium tyrannorum saevissimum et violentissimum. Ita deos pro tua salute obsecro, ne post mortem tuam tyrannus etiam peior civitati contingat”. Tam liberum ac facetum responsum Dyonisius punire noluit et aniculam dimisit incolumem.

A Siracusa una vecchietta ogni giorno pregava gli dei affinchè il crudelissimo tiranno della città Dionigi, fosse sempre incolume e vivesse a lungo. Dopo che Dionigi ebbe saputo il fatto, fece venire la vecchietta, e domandò il motivo delle preghiere. La donna molto sinceramente rispose: “Una volta a Siracusa comandava un tiranno ingiusto; quando quello morì, un tiranno (ancora) più crudele occupò la rocca di Siracusa, e perciò desideravo ardentemente che anche la sua tirannia fosse quanto più breve possibile; ma poi abbiamo avuto te, il più crudele di tutti i tiranni. Perciò prego vivamente gli dei per la tua salvezza, che non ci tocchi dopo la tua morte un tiranno perfino peggiore di te. Dionigi non punì una franchezza così spiritosa e lasciò andare la vecchietta.

“Il canto del Ciclope innamorato”

Apud Ovidium poetam legimus Polyphemum, ferum cyclopem, Galateae nymphae amore incensum, blandissimis verbis pulcherrimam puellam celebravisse: “Tu es, galatea, candidior folio nivei ligustri, floridior pratis, longa alno procerior, splendidior vitro, tenero haedo lascivior, levior conchis assiduo aequore maris detritis, sole hiberno, aestiva umbra gratior, lucidior glacie, matura uva dulcior,mollior cycni plumis, riguo horto formosior”. Cyclops autem, quia crudelis nimpha eius amori repugnabat, maestissimus longam querelam edidit: “Sed etiam tu es durior annosa quercu, fallacior undis, lentior salicis virgis, scopulis immobilior, violentior amne, pavone superbior, acrior igni, asperior tribulis, ursa truculentior, calcato angue immitior, non solum velocior cervo canum latratibus exterrito, verum etiam ventis volucrique aura fugacior”.

Presso il poeta Ovidio leggiamo che Polifemo, feroce ciclope, acceso d’amore per la ninfa Galatea, abbia celebrato la bellissima fanciulla con piacevolissime parole: “Tu sei, Galatea, sei il più più candido di un petalo di ligustro, più florida dei prati, più slanciata di un ontano vettante, più splendente del cristallo, più allegra di un giovane aedo, più liscia di conchiglie levigate dal flusso del mare, più gradevole del sole in inverno, dell’ombra d’estate, più luminosa del ghiaccio, più dolce dell’uva matura, più morbida di una piuma di cigno, più bella di un orto irriguo”. Il ciclope tuttavia poichè crudelmente la ninfa ripudiava il suo amore, assai triste emise una lunga lamentela: “Ma tu anche sei più dura di una vecchia quercia, più ingannevole delle onde, più insensibile del salice giovane, più immobile di una roccia, più violenta di un fiume, più superba del pavone, più furiosa del fuoco, più aspra delle spine, più ringhiosa dell’orsa, più spietata di un serpente calpestato, e più veloce non solo del cervo incalzato dai latrati dei cani, ma anche dai venti e dalla più sfuggente brezza alata”.

“Gesta di Annibale”

Numquam Carthaginiensibus dux magis strenuus, Romanis hostis acrior quam Hannibal fuit. Cum admodum iuvenis Carthagine discessisset, in Hispania sub patre Hamilcare militavit et post eius mortem imperator a militibus consalutatus est. Gloriae imperiique cupidissimus, cum magno militum agmine in Italiam pervenit. Hieme iter per Alpes ob nivium copiam ac asperrimum frigus difficilius fuit, sed firma Hannibalis voluntas omnes difficultates omniaque pericula superavit. In pugna peritior et minus imprudens quam Romanorum consules fuit; nam apud Ticinum, Trebiam et Trasumenum lacum praeclaras victorias facile obtinuit. Denique hostes apud Cannas profligavit, ubi L. Aemilius Paulus consul atque plurimi milites necati sunt, pauci incolumes effugerunt. Postea, Carthaginem revocatus, Hannibal cum Scipione Africanum, peritissimo duce, apud Zamam conflixit.Cum victus esset, in Bithyniam apud Prusiam regem confugit, ubi, ne a Romanis caperetur, venenum sumpsit.

Mai i Cartaginesi ebbero un condottiero più valoroso di Annibale, mai i Romani ebbero un nemico più valoroso di Annibale. Essendo (Annibale) partito molto giovane da Cartagine, prestò servizio militare in Spagna sotto il padre Amilcare e dopo la morte di questo fu acclamato generale dai soldati. Assai desideroso di gloria e potere, arrivò in Italia con un gran numero di soldati. Il tragitto attraverso le Alpi, d’inverno, fu piuttosto difficile per l’abbondanza delle nevi e del gelo rigidissimo, ma la forte volontà di Annibale superò tutte le difficoltà e tutti i pericoli. In battaglia fu più abile e meno imprudente dei consoli dei Romani; infatti, presso il Ticino, la Trebbia ed il lago Trasumeno ottenne facilmente vittorie famosissime. Infine sbaragliò i nemici presso Canne, dove il console Lucio Emilio Paolo e molti soldati furono uccisi, pochi ne uscirono incolumi. Poi, richiamato a Cartagine, Annibale combattè presso Zama contro Scipione l’Africano, generale abilissimo. Dopo essere stato vinto, si rifugiò in Bitinia presso il re Prusia, dove, per non essere catturato dai Romani, assunse un veleno.