“I Senoni saccheggiano Roma”

Galli Senones, qui viribus copiosis et robustis urbem Clusium obsidebant, viderunt Romanorum legatos, qui tunc pacis arbitri venerunt, pugnates inter Clusinos. Galli irati oppidi obsidionem dimittunt et totis viribus ad Urbem magnis itineribus contendunt. Fabius consul eos cum copiis excepit, nec tamen obstitit, immo Gallorum infestum agmen Romanos quasi aridam segetem succidit et stravit. Allia fluvius Fabii cladem memoria tenet, sicut Cremera Fabiorum. Senones Urbem iam vacuam defensoribus penetrant, in curiam intrant et trucidant senatores, qui in suis sedilibus insidebant et honorem Romanum defendebat; postea universam reliquam inventutem, quae in arce Capitolini montis latebat, obsidione concludunt ibique miseras reliquias fame, peste, desperatione, formidine terunt et subigunt. Galli fessi caede excedunt et ruinarum horridum acervum relinquunt: undique horror quatiebat animos, silentia quoque terrebant quia est materia pavoris raritas in locis spatiosis. Ideo Romani mutaverunt sedes, Iovem suosque deos oraverunt, aliud oppidum incoluerunt, sed Camillus dictator, qui princeps, Romanorum erat, migrationem alio prohibuit et patriam seravit.

I Galli Senoni, che con molte e ingenti forze assediavano la città di Chiusi, videro gli ambasciatori, che allora erano venuti (come) arbitri di pace, che combattevano fra i Chiusini. I Galli adirati lasciano l’assedio e con tutte le forze si affrettano con grandi marce verso Roma. Il console Fabio li accolse con le truppe, nè tuttavia contrastò, al contrario la schiera nemica dei Galli i Romani come un arido terreno seminato miete e devasta. Il fiume Allia mantiena (per) memoria della rovina di Fabio, così come il (fiume) Cremera dei Fabia. I Senoni penetrano in Roma già sgombra dai difensori, entrano in curia e trucidano i Senatori, che sedevano nei loro posti e difendevano l’onore dei Romani; dopo ciò tutta la restante gioventù che era al sicuro sulla torre capitolina, racchiudono in assedio e lì i miseri resti per fame, peste, disperazione, spavento logorano e soggiogano. I Galli spossati per la strage si ritirano e lasciano indietro un cumulo di spaventose rovine: da ogni parte l’orrore scuoteva gli animi, anche i silenzi terrorizzavano perchè è motivo di spavento la solitudine in luoghi spaziosi. Per questo i Romani cambiarono i domicili, pregarono Giove e i suoi dei, abitarono un’altra città, ma Camillo, che principe, era il dittatore dei Romani, proibì una emigrazione altrove e fondò la patria.

“Meraviglie del mondo”

Apolloniae in Epiro in monte de terra exit flamma; sub monte in campo sunt lacus aquae pleni; cum manibus plauditur, ab aqua ingentibus bullis pix emanat; Ambraciae Iovis templum est, unde ad inferos descensus est. Sycione in Achaia in foro aedes Apollinis est; in aede sunt posita Amemnonis clipeus et gladius, Ulixis lorica, Teucri sagittae et arcus, Penelopae tela, remi Argonautarum cum gubernaculis. In Caria est fanum Veneris in ora maritima; ibi est lucerna, super candelabrum posita, lucens ad mare sub divo, quae neque vento extinguitur neque pluvia aspergitur. Magnesiae apud Sipylum columnae sunt quattuor; inter columnas est Victoria ferrea pendens sine ullo vinculo, quae ne vehementi vento quidem movetur. Ecbatanis in Media domus est Cyri regis, aedificata lapidibus candidis et nigris, aureis laminis vinctis.

Ad Apollonia in Epiro, in una montagna dalla terra esce il fuoco; sotto il monte, in un campo, ci sono laghi pieni di acqua; quando si battono le mani, dall’acqua vien fuori della pece in molte bolle; ad Ambracia vi è il tempio di Giove, da dove è sceso agli inferi. A Sicione in Acaia nel foro vi è il tempio di Apollo; nel tempio sono custoditi lo scudo e la spada di Agamennone, la corazza di Ulisse, gli archi e le frecce di Teucro, la tela di Penelope, i remi degli Argonauti con i timoni. Nella Caria sulla costa vi è il santuario di Venere; qui vi è una lucerna, messa sopra un candelabro, lucente allo scoperto verso il mare, che non viene spenta né dal vento né è inzuppata dalla pioggia. A Magnesia presso Sifilo vi sono quattro colonne; fra le colonne c’è una Vittoria di ferro pendente senza nessun vincolo, che non è mossa nemmeno dal vento forte. A Ecbatana in Media vi è la casa del re Ciro, edificata con pietre bianche e nere, unite da lamine d’oro.

“Gli spettacoli che Augusto offrì al popolo romano “

Ter munus gladiatorium dedi meo nomine et quinquiens filiorum meorum aut nepotum nomine, quibus muneribus depugnaverunt hominum circiter decem millia. Bis athletarum undique accitorum spectaculum propulo praebui meo nomine et tertium nepotis mei nomine. Venationes bestiarum Africanarum meo nomine aut filiorum meorum et nepotum in circo aut in foro aut in amphitheatris populo dedi sexiens et viciens, quibus confecta sunt bestiarum circiter tria millia et quingentae. Navalis proeli spectaclum populo dedi trans Tiberim in quo loco nunc nemus est Caesarum, cavato solo in longitudinem mille et octingentos pedes, in latitudinem mille et ducenti, in quo triginta rostratae naves triremes aut biremes, plures autem minores inter se confilxerunt; quibus in classibus pugnaverunt praeter remiges millia hominum tria circiter.

Tre volte ho fornito spettacoli di gladiatori sotto il mio nome (quando ero imperatore) e cinque volte sotto il nome dei miei figli e nipoti; in questi spettacoli circa dieci mila uomini combattevano. Due volte ho allestito sotto al mio nome spettacoli di atleti radunati da ogni luogo, e tre volte sotto il nome di mio nipote. Ventisei volte, sotto al mio nome o dei miei figli e nipoti, ho dato al popolo delle battute di caccia di bestie Africane nel Circo, all’aperto, o nell’anfiteatro, nelle quali furono uccise circa tremila e cinquecento bestie. Ho dato al popolo uno spettacolo di battaglia navale, nella zona al di là del Tevere dove è ora il boschetto dei Cesari, con il terreno scavato in lunghezza per 1800 piedi e in larghezza per 1200 (piedi), nel quale trenta navi munite di rostro, biremi e triremi, ma anche molte (navi) più piccole, si combatterono l’un l’altra; in queste navi circa tremila uomini combatterono oltre ai rematori.

Res Gestae I, 22

Ter munus gladiatorium dedi meo nomine et quinquiens filiorum meorum aut nepotum nomine, quibus muneribus depugnaverunt hominum circiter decem millia. Bis athletarum undique accitorum spectaculum propulo praebui meo nomine et tertium nepotis mei nomine. Ludos feci meo nomine quater, aliorum autem magistratuum vicem ter et viciens. Pro conlegio XV virorum magister conlegii collega M. Agrippa ludos saeclares C. Furnio C. Silano cos. feci. Consul XIII ludos Martiales pimus feci quos post id tempus deinceps insequentibus annis s.c. et lege fecerunt consules. Venationes bestiarum Africanarum meo nomine aut filiorum meorum et nepotum in circo aut in foro aut in amphitheatris populo dedi sexiens et viciens, quibus confecta sunt bestiarum circiter tria millia et quingentae.

Tre volte allestii uno spettacolo dei gladiatori a nome mio e cinque volte a nome dei miei figli o nipoti; e in questi spettacoli combatterono circa diecimila uomini. Due volte a mio nome offrii al popolo spettacolo di atleti fatti venire da ogni parte, e una terza volta a nome di mio nipote. Allestii giochi a mio nome quattro volte, invece al posto di altri magistrati ventitré volte. In nome del collegio dei quindecemviri, come presidente del collegio, avendo per collega Marco Agrippa, durante il consolato di Gaio Furnio e Gaio Silano, celebrai i Ludi Secolari. Durante il mio tredicesimo consolato celebrai per primo i Ludi di Marte che in seguito e di seguito negli anni successivi, per decreto dl senato e per leggi, furono celebrati dai consoli. Allestii per il popolo ventisei volte, a nome mio o dei miei figli e nipoti, cacce di belve africane, nel circo o nel foro o nell’anfiteatro, nelle quali furono ammazzate circa tremilacinquecento belve.

“Noè e il diluvio universale”

Postquam numerus hominum crevit, omnia vitia invaluere. Quare offensus Deus statuit perdere hominum genus diluvio. Attamen pepercit Noemo et liberis eius, quia colebant virtutem. Noemus, admonitus a Deo, extruxit ingentem arcam in modum navis: linivit eam bitumine, et in eam induxit par unum omnium avium et animantium. Postquam Noemus ipse ingressus est arcam cum coniuge, tribus filiis et totidem nuribus, aquae maris et ominum fontium eruperunt. Simul pluvia ingens cecidit per quadraginta dies et totidem noctes. Aqua operuit universam terram, ita ut superaret quindecim cubitis altissimos montes. Omnia absumpta sunt diluvio; arca autem supernatans ferebatur in aquis. Deus immisit ventum vehementem, et sensim aquae imminutae sunt. Tandem, mense undecimo, postquam diluvium coeperat, Noemus, aperuit fenestram arcae, et emisit corvum, qui non est reversus. Deinde emisit columbam: cum ea non invenisset locum ubi poneret pedem, reversa est ad Noemus, qui extendit manum, et intulit eam in arcam. Columba rursum emissa attulit in ore suo ramum olivae virentis, quo finis diluvii significabatur.

Dopo che il numero degli uomini crebbe, tutti i vizi presero vigore. Allora Dio irritato decise di distruggere il genere umano con un diluvio. Tuttavia risparmiò Noè e i suoi figli, poichè coltivavano la virtù. Noè, avvertito da Dio, costruì una grande arca simile ad una nave: la ricoprì con il bitume e su di essa convocò una coppia di tutti gli uccelli e di tutti gli animali. Dopo che Noè fu entrato nell’arca con la moglie, i figli e le nuore, le acque del mare e di ogni fonte tracimarono. Allo stesso modo, cadde un’ingente pioggia per 40 giorni e altrettante notti. L’acqua ricoprì tutta la terra e tutte le cose furono distrutte dal diluvio: l’arca invece galleggiò. Dio mandò un vento che soffiava fortemente e lentamente le acque furono diminuite. Noè aprì la finestra dell’arca e mandò un corvo; ma esso non tornò. Quindi mandò una colomba; poichè non aveva trovato un luogo asciutto la colomba tornò all’arca; Noè stese la mano e la riprese. La colomba fu nuovamente mandata e ritornò: teneva in bocca un ramoscello fiorente d’olivo: da quel ramoscello veniva annunciata la fine del diluvio.

Annales, I, 61

Igitur cupido Caesarem invadit solvendi suprema militibus ducique, permoto ad miserationem omni qui aderat exercitu ob propinquos, amicos, denique ob casus bellorum et sortem hominum. praemisso Caecina ut occulta saltuum scrutaretur pontesque et aggeres umido paludum et fallacibus campis inponeret, incedunt maestos locos visuque ac memoria deformis. prima Vari castra lato ambitu et dimensis principiis trium legionum manus ostentabant; dein semiruto vallo, humili fossa accisae iam reliquiae consedisse intellegebantur: medio campi albentia ossa, ut fugerant, ut restiterant, disiecta vel aggerata. adiacebant fragmina telorum equorumque artus, simul truncis arborum antefixa ora. Iucis propinquis barbarae arae, apud quas tribunos ac primorum ordinum centuriones mactaverant. et cladis eius superstites, pugnam aut vincula elapsi, referebant hic cecidisse legatos, illic raptas aquilas; primum ubi vulnus Varo adactum, ubi infelici dextera et suo ictu mortem invenerit; quo tribunali contionatus Arminius, quot patibula captivis, quae scrobes, utque signis et aquilis per superbiam inluserit.

Sorse allora in Cesare Germanico il desiderio di rendere gli estremi onori ai soldati e al loro comandante, tra la generale commiserazione dell’esercito lì presente al pensiero dei parenti, degli amici e ancora dei casi della guerra e del destino umano. Mandato in avanscoperta Cecina a esplorare i recessi della foresta e a costruire ponti e dighe sugli acquitrini delle paludi e sui terreni insidiosi, avanzavano in quei luoghi mesti, deprimenti alla vista e al ricordo. Il primo campo di Varo denotava, per l’ampiezza del recinto e le dimensioni del quartier generale, il lavoro di tre legioni; poi, dal trinceramento semidistrutto, dalla fossa non profonda, si arguiva che là si erano attestati i resti ormai ridotti allo stremo. In mezzo alla pianura biancheggiavano le ossa, sparse o ammucchiate, a seconda della fuga o della resistenza opposta. Accanto, frammenti di armi e carcasse di cavalli e teschi confitti sui tronchi degli alberi. Nei boschi vicini, aree barbariche, sulle quali avevano sacrificato i tribuni e i centurioni di grado più elevato. I superstiti di quella disfatta, sfuggiti alla battaglia o alla prigionia, raccontavano che qui erano caduti i legati e là strappate via le aquile, e dove Varo avesse subìto la prima ferita e dove il poveretto, di sua mano, avesse trovato la morte; da quale rialzo avesse parlato Arminio, quanti patiboli e quali fosse avessero preparato per i prigionieri e come, nella sua superbia, Arminio avesse schernito le insegne e le aquile.

De Officiis, I, 104

Duplex omnino est iocandi genus, unum illiberale, petulans, flagitiosum, obscenum, alterum elegans, urbanum, ingeniosum, facetum, quo genere non modo Plautus noster et Atticorum antiqua comoedia, sed etiam philosophorum Socraticorum libri referti sunt, multaque multorum facete dicta, ut ea, quae a sene Catone collecta sunt, quae vocantur apophthegmata. Facilis igitur est distinctio ingenui et illiberalis ioci. alter est, si tempore fit, ut si remisso animo, [severissimo] homine dignus, alter ne libero quidem, si rerum turpitudo adhibetur et verborum obscenitas. Ludendi etiam est quidam modus retinendus, ut ne nimis omnia profundamus elatique voluptate in aliquam turpitudinem delabamur. Suppeditant autem et campus noster et studia venandi honesta exempla ludendi.

Ci sono, insomma, due specie di scherzi: l’uno volgare, aggressivo, scandaloso, turpe; l’altro elegante, garbato, ingegnoso, fine. Di questa seconda specie son pieni non solo il nostro Plauto e l’antica commedia degli Attici ma anche i libri dei filosofi socratici; e di questa specie sono molte facezie di molti, come, per esempio, quelle che furono raccolte dal vecchio Catone e che vanno sotto il titolo di apophthegmata. E’ facile, dunque, distinguere lo scherzo nobile dal volgare. L’uno è degno anche dell’uomo più austero, se è fatto a tempo debito, come, per esempio, quando lo spirito si allenta; l’altro non è neppure degno di un uomo libero, se all’indecenza dei pensieri si aggiunge l’oscenità delle parole.

De Officiis, I, 103

Ex quibus illud intellegitur, ut ad officii formam revertamur, appetitus omnes contrahendos sedandosque esse excitandamque animadversionem et diligentiam, ut ne quid temere ac fortuito, inconsiderate neglegenterque agamus. neque enim ita generati a natura sumus, ut ad ludum et iocum facti esse videamur, ad severitatem potius et ad quaedam studia graviora atque maiora. ludo autem et ioco uti illo quidem licet, sed sicut somno et quietibus ceteris tum, cum gravibus seriisque rebus satis fecerimus. ipsumque genus iocandi non profusum nec immodestum, sed ingenuum et facetum esse debet. ut enim pueris non omnem ludendi licentiam damus, sed eam, quae ab honestatis actionibus non sit aliena, sic in ipso ioco aliquod probi ingenii lumen eluceat.

Da ciò si conclude, che bisogna frenare e calmare tutti gli istinti, spronando la nostra vigile attenzione così che non si faccia nulla alla cieca e a caso, nulla senza riflessione e con negligenza. In verità, noi non siamo stati generati dalla natura in modo da sembrar fatti per il gioco e per lo scherzo, ma piuttosto per un dignitoso contegno e per occupazioni più serie e più importanti. E’ lecito senza dubbio lasciarsi andare talvolta al gioco e allo scherzo, ma come è il caso del sonno e degli altri riposi, cioè quando avremo adempiuti i nostri gravi e importanti doveri. E il genere stesso dello scherzo deve essere, non eccessivo o smodato, ma onesto e gentile. Come non concediamo ai fanciulli ogni libertà nei giochi, ma solo quella che non è contraria alle azioni che l’onestà richiede, così anche nello scherzo risplenda un barlume d’animo gentile.

Fabulae, 168 – Danaus (“Il mito delle Danaidi”)

Danaus Beli filius ex pluribus coniugibus quinquaginta filias habuit, totidem filios frater Aegyptus, qui Danaum fratrem et filias eius interficere voluit ut regnum paternum solus obtineret; filiis uxores a fratre poposcit; Danaus re cognita Minerva adiutrice ex Africa Argos profugit; tunc primum dicitur Minerva navem fecisse biproram in qua Danaus profugeret. At Aegyptus ut resciit Danaum profugisse, mittit filios ad persequendum fratrem, et eis praecepit ut aut Danaum interficerent aut ad se non reverterentur. Qui postquam Argos venerunt, oppugnare patruum coeperunt. Danaus ut vidit se eis obsistere non posse, pollicetur eis filias suas uxores ut pugna absisterent. Impetratas sorores patrueles acceperunt uxores, quae patris iussu viros suos interfecerunt. Sola Hypermestra Lynceum servavit. Ob id ceterae dicuntur apud inferos in dolium pertusum aquam ingerere. Hypermestrae et Lynceo fanum factum est.

Danao, figlio di Belo, ebbe da molte mogli cinquanta figlie, e altrettanti figli ebbe suo fratello Egitto, che deliberò di uccidere Danao e le figlie per possedere da solo il regno paterno. Allora chiede al fratello le figlie come spose per i suoi; saputa la cosa, Danao fugge dall’Africa ad Argo grazie al soccorso di Minerva: fu allora infatti che per la prima volta – si dice – Minerva costruì una nave con due prue, sulla quale Danao potesse andarsene. Ma Egitto viene a sapere della fuga di Danao e invia i figli a inseguire il fratello, ordinando loro di uccidere Danao o non tornare mai più. Sbarcati ad Argo, iniziano a combattere lo zio; quando Danao vede che ogni resistenza è inutile, promette le nozze delle figlie in cambio della sospensione della guerra; così i cugini paterni possono sposare le tanto desiderate sorelle. Ma queste, per ordine del padre, uccidono i mariti, con l’eccezione della sola Ipermestra che risparmiò Linceo. Per questa colpa si dice che le altre debbano tra gli Inferi attingere acqua con un orcio forato. In onore di Ipermestra e Linceo fu costruito un santuario.

De agricoltura, II, 10 (“Pastori in montagna”)

In fundis non modo pueri sed etiam puellae pecudes pascunt. In saltibus contra videre licet iuventutem, et eam plerumque armatam. Hi pastores ita legendi sunt ut sint firmi ac veloces, mobiles, expeditis membris, qui pecus non solum sequi possint, sed etiam a bestiis ac praedonibus defendere, atque montium arduitatem ferre possint, onera extollere in iumenta, excurrere, iaculari. […] Non omnis natio apta est ad rem pecuariam: Galli aptissimi sunt. […] Omnes pastores esse oportet sub uno magistro pecoris et hunc maiorem natu et peritiorem quam alios esse, quod iis, qui aetate et scientia praestant, li bentius reliqui parent. Magistrum providere oportet omnia instrumenta quae pecori et pastoribus necessaria sunt, maxime ad victum hominum et ad medicinam pecudum. Quae ad hominum pecorisque valetudinem pertinent magister scripta habere debet, ut sine medico curari possint: ergo sine litteris idoneus non est. Pastoribus mulieres adiungere, quae eis cibaria expediant eosque adsiduiores faciant utile esse multi domini putant; sed eas mulieres oportet esse f?rmas, quae in opere non cedant viris.

Nei fondi, non solo i fanciulli, ma anche le fanciulle fanno pascolare le greggi. Sui monti selvosi, invece, è possibile scorgere giovani, per altro per lo più armati. La cernita dei pastori dev’essere fatta in base a criteri di robustezza, velocità, dinamismo, agilità, affinchè essi non solo siano in grado di star dietro al gregge, ma anche di difender(lo) da fiere selvatiche e predatori, e di sopportare l’asperità dell’ambiente montano, nonchè di caricare i giumenti, correre, lanciare il giavellotto. Non tutti i popoli sono adatti alla pastorizia: di certo lo sono i Galli. E’ opportuno che tutti i pastori siano alle dipendenze di un pastore capo, che quest’ultimo sia più grande d’età e più esperto rispetto agli altri, dato che a coloro che hanno più anni ed esperienza, gli altri obbediscono più volentieri. E’ compito del pastore capo provvedere a tutto l’equipaggiamento necessario al gregge ed ai pastori, con particolare attenzione al cibo per gli uomini e la medicazione per gli animali. Il pastore capo deve tenere per iscritto le disposizioni mediche attinenti agli uomini e al gregge, affinchè essi possano esser curati senza medico: ne consegue che un analfabeta non è idoneo. Molti proprietari di fondo ritengono che sia utile associare ai pastori delle donne, che preparino loro da mangiare e li rendano più assidui. Conviene, comunque, che queste donne siano robuste, tali che non siano da meno agli uomini nel lavoro.

Liber Memorialis, VI – De orbe terrarum (Del mondo terrestre)

Orbis terrarum qui sub caelo est quattuor regionibus incolitur. Una pars eius est in qua nos habitamus; altera huic contraria, quam qui incolunt vocantur anticthones; quarum inferiores duae ex contrario harum sitae, quas qui incolunt vocantur antipodes. Orbis terrarum quem nos colimus in tres partes dividitur, totidemque nomina: Asia, quae est inter Tanain et Nilum; Libya, quae est inter Nilum et Gaditanum sinum; Europa, quae est inter fretum et Tanain. In Asia clarissimae gentes: Indi, Seres, Persae, Medi, Parthi, Arabes, Bithyni, Phryges, Cappadoces, Cilices, Syri, Lydi. In Europa clarissimae gentes: Scythae, Sarmatae, Germani, Daci, Moesi, Thraci, Macedones, Dalmatae, Pannoni, Illyrici, Graeci, Itali, Galli, Spani. In Libya gentes clarissimae: Aethiopes, Mauri, Numidae, Poeni, Gaetuli, Garamantes, Nasamones, Aegyptii. Clarissimi montes in orbe terrarum: Caucasus in Scythia, Emodus in India, Libanus in Syria, Olympus in Macedonia, Hymettus in Attica, Taygetus Lacedaemonia, Cithaeron et Helicon in Boetia, Parnasos [et] Acroceraunia in Epiro, Maenalus in Arcadia, Apenninus in Italia, Eryx in Sicilia, Alpes inter Galliam , Pyrenaeus inter Galliam et Spaniam, Athlans in Africa, Calpe in freto Oceani. Clarissima flumina in orbe terrarum: Indus Ganges Hydaspes in India, Araxes in Armenia, Thermodon et Phasis in Colchide, Tanais in Scythia, Strymon et Hebrus in Thracia, Sperchios in Thessalia, Hermus et Pactolus auriferi Maeander et Caystrus in Lydia, Cydnus in Cilicia, Orontes in Syria, Simois et Xanthus in Phrygia, Eurotas Lacedaemone, Alpheus in Elide, Ladon in Arcadia, Achelous et Inachus in Epiro, Savus et Danubius qui idem Ister cognominatur in Moesia, Eridanus et Tiberinus in Italia, Timavus in Illyrico, Rhodanus in Gallia, Hiberus et Baetis in Spania, Bagrada in Numidia, Triton in Gaetulia, Nilus in Aegypto, Tigris et Eufrates in Parthia, Rhenus in Germania. Clarissimae insulae: in mari nostro duodecim: Sicilia, Sardinia, Crete, Cypros, Euboea, Lesbos, Rhodos, duae Baleares, Ebusus, Corsica, Gades; in Oceano: ad orientem Taprobane, ad occidentem Brittannia, ad septentrionem Thyle, ad meridiem Insulae Fortunatae; praeter has in Aegaeo mari Cyclades undecim: Delos, Gyaros, Myconos, Andros, Paros, Olearos, Tenos, Cythnos, Melos, Naxos, Donusa; praeter has Sporades innumerabiles, ceterum celeberrimae Aegina, Salamina, Coos, Chios, Lemnos, Samothracia; in Ionio: Echinades, Strophades, Ithace, Cephalenia, Zacynthos; in Adriatico Crateae circiter mille; in Siculo Aeoliae octo; in Gallico Stoechades tres; in Syrtibus Cercina et Menix et Girba.

Il mondo che è sotto il cielo è abitato in 4 regioni. Una sua parte è quella in cui abitiamo noi; l’altra, opposta a questa, e coloro che la abitano si chiamano antictoni; e inferiori a queste due poste dalla parte opposta di queste, e quelli che le abitano si chiamano antipodi. Il mondo che noi abitiamo si divide in tre parti, e (ha) altrettanti nomi: Asia, che è tra il Tanai e il Nilo; la Libia, che è tra il Nilo e il golfo gaditano; l’Europa è fra lo stretto e il Tanai. In Asia i popoli più famosi (sono): Indi, Seri, Persiani, Medi, Parti, Arabi, Bitini, Frigi, Cappadoci, Cilici, Siri e Lidi. In Europa i popoli più famoisi (sono): Sciti, Sarmati, Germani, Daci, Mesi, Traci, Macedoni, Dalmati, Pannoni, Illiri, Spagnoli, Greci, Italici, Galli. In Libia i popoli più famoisi (sono): Etiopi, Mauri, Numidi, Punici, Getuli, Garamanti, Nasamoni, Egizi. I monti più famosi del mondo sono: il Caucaso in Scizia, l’Emodo in India, il Libano in Siria, l’Olimpo in Macedonia, l’Imetto in Attica, il Taigeto nella zona di Sparta, il Citerone e l’Elicona in Beozia, il Parnaso in Focide, l’Acroceraunia in Epiro, il Menalo in Arcadia, l’Apennino in Italia, l’Erice in Sicilia, le Alpi tra la Gallia e l’Italia, i Pirenei tra la Gallia e la Spagna, l’Atlante in Africa, il Calpe sullo stretto dell’Oceano. I fiumi più famosi del mondo: l’Indo, il Gange e l’Idaspe in India, l’Arasse in Armenia, il Termodonte e il Fasi in Colchide, il Tanai in Scizia, lo Strimone e l’Ebro in Tracia, lo Sperchio in Tessaglia, l’Ermo e il Pattolo che producono oro, il Meandro e il Caistro in Lidia, il Cidno in Cilicia, l’Oronte in Siria, il Simoenta e lo Xanto in Frigia, l’Eurota a Sparta, l’Alfeo in Elide, il Ladone in Arcadia, l’Achelao e l’Inaco in Epiro, la Sava e il Danubio che è soprannominato anche Ister in Mesia, l’Eridano e il Tevere in Italia, il Timavo in Illiria, il Rodano in Gallia, l’Ebro e il Beti in Spagna, il Bagrada in Numidia, il Tritone in Getulia, il Nilo in Egitto, il Tigri e l’Eufrate in Partia, il Reno in Germania. Le isole più famose: nel Mare Nostrum (Mediterraneo) dodici: Sicilia, Sardegna, Creta, Cipro, Eubea, Lesbo, Rodi, due Baleari, Ebuso, Corsica, Cadice; nell’Oceano: ad oriente Tabropane, a occidente la Britannia, a settentrione Tule, a meridione le Isole Fortunate; oltre a questo nel mar Egeo (ci sono) undici Cicladi: Delo, Giaro, Micono, Andro, Paro, Olearo, Teno, Cito, Melo, Nasso, Donusa; oltre a queste (ci sono) innumerevoli Sporadi, e tra le altre le più famose (sono) Egine, Salamina, Coo, Chio, Lemno, Samotracia; nel (mar) Ionio: le Echinadi, le Strofadi, Itaca, Cefalonia, Zacinto; nell’Adriatico circa mille Cratee; nel (mar) di Sicilia otto Eolie; nel (mar) Gallico tre Stecadi; nel (mar) dei Sirti Cercina e Menice e Girba.

“La gloria dei figli si riflette sui padri”

Si quis in tantum processit, ut aut eloquentia per gentes notesceret aut iustitia aut bellicis rebus et patri quoque ingentem circumfunderet famam tenebrasque natalium suorum clara luce discuteret, non inaestimabile in parentes suos beneficium contulit? An quisquam Aristonem et Gryllum nisi propter Xenophontem ac Platonem nosset? Ceteros enumerare longum est, qui durant ob nullam aliam causam, quam quod illos liberorum eximia virtus tradidit posteris. Utrum maius beneficium dedi M. Agrippae pater an patri dedit Agrippa navali corona insignis, unicum adeptus inter dona militaria decus, qui tot in urbe maxima opera excitavit, quae et priorem magnificentiam vincerent et nulla postea vincerentur? Utrum Octavius maius beneficium dedit filio an patri divus Augustus? Quantam cepisset voluptatem, si illum post debellata arma civilia vidisset securae paci praesidentiem, non adgnoscens bonum suum nec satis credens, quotiens ad se respexisset, potuisse illum virum in domo sua nasci! Quid nunc ceteros prosequar, quos iam cosumpsisset oblivio, nisi illos filiorum gloria e tenebris eruisset et adhuc in luce retineret?

Se poi qualcuno ha fatto tanti progressi da diventare famoso presso tutti i popoli o per la sua eloquenza o per la sua giustizia o per le sue imprese militari, e ha arrecato grande fama anche al padre, dissipando con la luce della sua fama l’oscurità dei suoi natali, non ha fatto ai suoi genitori un beneficio incomparabile? O forse qualcuno avrebbe conosciuto Aristone e Grillo se non fosse stato per i loro figli Senofonte e Platone? Sarebbe troppo lungo enumerare tutti gli altri dei quali sopravvive il ricordo esclusivamente perchè le qualità eccezionali dei figli lo hanno tramandato ai posteri. E maggiore il beneficio fatto a M. Agrippa dal padre oppure quello che ha fatto al padre Agrippa, famoso per aver ottenuto la corona navale, la più alta fra le onorificenze militari, e per aver fatto erigere a Roma grandissimi edifici che superavano la magnificenza di quelli precedenti e che non furono mai superati nelle epoche successive? Maggiore il beneficio che Ottavio ha fatto a suo figlio o quello che ha fatto a suo padre il divo Augusto? Quale piacere avrebbe provato quel padre, se avesse visto il figlio che, dopo aver sedato le guerre civili, vegliava sulla pace ormai assicurata: non avrebbe riconosciuto che quel bene era dovuto a lui e a stento avrebbe creduto, ogni volta che avesse pensato a se stesso, che un uomo simile era potuto nascere in casa sua! E perchè dovrei proseguire l’enumerazione di coloro che sarebbero già stati travolti dall’oblio, se la gloria dei loro figli non li avesse strappati alle tenebre e non li mantenesse tuttora nella luce?

“Vendetta della regina Tamiri”

Cyrus subacta Asia et universo Oriente in potestatem redacto Scythis bellum infert. Erat eo tempore regina Scytharum Tamyris, quae non muliebriter adventu hostium territa, cum prohibere eos transitu Araxis fluminis posset, transire permisit, et sibi faciliorem pugnam intra regni sui terminos rata et hostibus obiectu fluminis fugam difficiliorem. Itaque Cyrus traiectis copiis, cum aliquantisper in Scythiam processisset, castra metatus est. Dein postero die simulato metu, quasi refugiens castra deseruisset, ita vini adfatim et ea, quae epulis erant necessaria, reliquit. Quod cum nuntiatum reginae esset, adulescentulum filium ad insequendum eum cum tertia parte copiarum mittit. Cum ventum ad castra Cyri esset, ignarus rei militaris adulescens, veluti ad epulas, non ad proelium venisset, omissis hostibus insuetos barbaros vino se onerare patitur, priusque Scythae ebrietate quam bello vincuntur. Nam cognitis his Cyrus reversus per noctem saucios opprimit omnesque Scythas cum reginae filio interfecit. Amisso tanto exercitu et, quod gravius dolendum, unico filio Tamyris orbitatis dolorem non in lacrimas effudit, sed in ultionis solacia intendit hostesque recenti victoria exsultantes pari insidiarum fraude circumvenit; quippe simulata diffidentia propter vulnus acceptum refugiens Cyrum ad angustias usque perduxit. Ibi conpositis in montibus insidiis ducenta milia Persarum cum ipso rege trucidavit. In qua victoria etiam illud memorabile fuit, quod ne nuntius quidem tantae cladis superfuit. Caput Cyri amputatum in utrem humano sanguine repletum coici regina iubet cum hac exprobratione crudelitatis: “Satia te” inquit “sanguine, quem sitisti cuiusque insatiabilis semper fuisti”.

Ciro, sottomessa l’Asia e ridotto in suo potere tutto l’Oriente, muove guerra agli Sciti. In quel tempo era regina degli Sciti Tamiri che non si lasciò spaventare a guisa di donna dall’arrivo dei nemici e pur potendo impedire loro il passaggio del fiume Arasse, permise che (lo) attraversassero, pensando che la battaglia (sarebbe stata) più facile per lei entro i confini del suo regno e che la fuga per i nemici più difficile per l’ostacolo del fiume. E così Ciro, trasportate le truppe al di là (del fiume), dopo essere avanzato un po’ nella Scizia, pose l’accampamento. Poi, il giorno dopo, simulata la paura, come se avesse abbandonato l’accampamento fuggendo, lasciò così gran quantità di vino e quelle cose che erano necessarie al banchetto. Essendo stato annunciato ciò alla regina, (ella) mandò il figlio giovinetto ad inseguirlo con la terza parte dell’esercito. Ma dopo che si giunse all’accampamento di Ciro, il giovinetto, inesperto di arte militare, come se fosse venuto ad un banchetto, non ad un combattimento, trascurati i nemici, permise ai barbari, che non erano abituati al vino, di riempirsi di vino e gli Sciti furono vinti più con l’ubriachezza che con la guerra. Infatti, saputo ciò, Ciro, ritornato durante la notte, (li) aggredisce ubriachi (com’erano) e uccise tutti gli Sciti con il figlio della regina. Perduto un esercito tanto grande e, cosa di cui si doveva addolorare più profondamente, l’unico figlio, Tamiri non sfogò nelle lacrime il dolore della perdita, ma si volse al conforto della vendetta e con un pari inganno di insidie sorprese i nemici esultanti per la recente vittoria; infatti, simulata la sfiducia per la sconfitta ricevuta, ritirandosi condusse Ciro fino ad un passo stretto. Qui preparato un agguato sui monti, trucidò duecentomila Persiani con lo stesso re. In questa vittoria è rimasto memorabile anche questo fatto, che non sopravvisse a tanta strage neppure un messaggero. La regina ordinò che la testa di Ciro fosse tagliata e gettata in un otre colmo di sangue umano, con questo rimprovero per la sua crudeltà: “Sàziati del sangue di cui fosti assetato e di cui fosti sempre insaziabile”.

“Il filosofo Aristippo”

Aristippus, qui inter Cyrenaicos philosophos excellentissimus habetur, naufragio eiectus ad Rhodiensium litus, cum geometrica schemata animadvertisset in arena descripta, exclamaisse dicitur ad comites suos: “Bene, speremus, amici! Hominum enim hi vestigia video”. Statimque in oppidum Rhodum contendit et ad gymnasium devenit, ibique de philosophia disputans a civibus muneribus est donatus ut non tantum se ornaret, sed etiam eis qui cum eo una fuerunt, et vestium et cetera, quae opus essent ad victum, praestare posset. Cum autem eius comites in patriam reverti statuissent interrogarentque eum quidnam vellet domum propinquis renuntiari , tunc sic respondisse dicitur: “Eiusmodi possesiones er viatica liberis oportet parari, quae etiam in naufragio possint enatare”. Namque ea vera praesiia vitae dicuntur, quibus neque fortunae tempestas iniquia neque publicarum rerum mutationes neque belli vastationes aut piratarum et praedonum incursiones possint nocere.

Aristippo, che tra i filosofi Cirenaici è ritenuto il più intelligente, gettato in seguito a un naufragio sulla spiaggia del Rodii, dopo aver osservato disegni geometrici tracciati sulla sabbia, si dice che abbia esclamato ai suoi compagni: “Speriamo bene, amici! Infatti io qui vedo tracce di uomini”. Subito si diresse vero la città del Rodii e giunse al ginnasio e qui discutendo di filosofia ricevette doni dai cittadini affinché non soltanto arricchisse sé stesso, ma potesse anche offrire sia vestiti che altre cose, che erano necessarie al vitto, a coloro i quali si trovarono insieme con lui. Avendo però i suoi compagni stabilito di tornare in patria e chiedendogli che cosa dunque volesse che a casa venisse annunciato ai suoi familiari, si dice che allora, egli abbia risposto così: “Per i figli è necessario che si preparino beni e provviste di tal genere, che anche se in un naufragio possano salvarsi”. Infatti si dice che le vere difese della vita (siano) quelle alle quali non possono nuocere né l’ingiusto mutare della fortuna né i cambiamenti dei regimi politici né le devastazioni di guerra e le incursioni di pirati e predoni.

“Risolutezza di Scipione dopo la battaglia di Canne”

Post cladem Cannensem, in qua milia Romanorum militum perierant, pauci superfuerant, senatus, omnibus consentientibus, ad P. Cornelium Scipionem, admodum iuvenem, maximum imperium commisit, ut rei publicae saluti provideret. Olim ei, qui senatus consilio intererat, nuntiatum est aliquot nobiles iuvenes, de rei punlicae salute desperantes, statuisse, deserta italia, in asiam apud barbarum regem se transferre. Tum Scipio, consilio dimisso, statim ad illum, qui conspirationis auctor erat, advenit et, cum ibi concilium iuvenum, de quibus supra dictum ast, invenisset, stricto super illorum capita gladio: “Ut ego – inquit – rem publicam romanam in adversis rebus non deseram, sic non sinam ream ab alio cive Romano deseri. Iurate igitur vos numquam patriam vestram deserturos (esse)!”. Iuraverunt illi et semper patriae Scipionique fideles fuerunt.

Dopo la battaglia di Canne, in cui erano morti migliaia di soldati romani e pochi erano sopravvissuti, il senato, con il consenso di tutti, affidò il supremo potere a Publio Cornelio Scipione, assai giovane, perchè provvedesse alla salvezza dello stato. Una volta a lui che partecipava ad una riunione del senato fu annunciato che alcuni giovani nobili, disperando della salvezza dello stato, avevano deciso, abbandonata l’Italia, di trasferirsi in Asia presso il re barbaro. Allora Scipione, sciolta l’assemblea, subito andò da quello che era il fautore della cospirazione e, avendo trovato il gruppo di giovani, di cui si è detto sopra, impugnata la spada sopra le loro teste disse: “Come io non abbandonerò lo Stato romano nelle avversità, così non permetterò che esso sia abbandonato da un altro cittadino romano. Giurate dunque che voi mai abbandonerete la vostra patria!”. Quelli giurarono e furono sempre fedeli alla patria e a Scipione.

“Fasi alterne della prima guerra punica”

Primo bello Punico Romani, Carthagiensibus apud Mylas victis, exercitum a Sicilia in Africam traduxerunt ut hostibus commeatum intercluderent atque eorum fines vastarent. Romanorum consules Marcus Manlius et Atilius Regulus cum exercitu usque ad Carthaginem processerunt multa oppida omnesque agros hostium ferro ignique vastantes. Postea M. Manlius consul, in Italiam a senatu revocatus, Romam rediit magnum captivorum numerum secum ducens. A. Regulus autem in Africa mansit ut bellum pergeret; nam tres Carthaginiensium duces vicit eorumque copias fudit. Tum Carthaginienses legatos ad Regulum miserunt ut de pace agerent. Cum Regulus condiciones graviores tulisset – imperaverat enim ut hostes arma deponerent, classem submergerent ac grave tributum penderent – Carthaginienses legatos Lacedaemonem miserunt auxilium contra Romanos petituros. A Lacedaemoniis Carthaginem missus et Xantippus dux cum copiis delectis. Is, cum proelium cum Romanis commisisset, eos vicit fugavitque. A. Regulus consul captus est ac in vincula coniectus (est).

Durante la prima guerra punica i Romani, vinti i Cartaginesi presso Milazzo, condussero l’esercito dalla Sicilia in Africa per bloccare i rifornimenti ai nemici e devastare il loro territorio.
I consoli dei Romani M. Manlio e Attilio Regolo avanzarono con l’esercito fino a Cartagine mettendo a ferro e fuoco molte città e tutti i campi dei nemici. Poi il console M. Manlio richiamato in Italia dal senato tornò a Roma portando con sè un gran numero di prigionieri. Attilio Regolo invece rimase in Africa per proseguire la guerra, infatti vinse tre comandanti dei Cartaginesi e sbaragliò le loro truppe. Allora i Cartaginesi mandarono gli ambasciatori da Regolo affinchè trattassero le condizioni di pace. Avendo Regolo proposto condizioni troppo dure – infatti ordinò che i nemici deponessero le armi, affondassero la flotta e pagassero un pesante tributo, i Cartaginesi mandarono degli ambasciatori a Sparta per chiedere aiuto contro i Romani. Dagli Spartani fu mandato a Cartagine il comandante Santippo con delle truppe scelte. Egli, avendo attaccato battaglia con i Romani li vinse e li mise in fuga, il console Attilio Regolo fu catturato e imprigionato.

“Augusto e Mecenate”

Maecenas eques Romanus fuit Augusti amicus cuius animum ardentem ac mobilem saepe ad bonum opportune et callide flexit. Interdum principem etiam a malis consiliis devocavit. Olim Augustus cum in tribunali ut iudex sederet multos homines capitis damnavit. Maecenas re cognita ad tribunal accurrit et ad imperatorem appropinquare temptavit sed frustra cum permagnus populi concursus esset. Itaque imperavit ut tabella sibi ferretur ubi haec verba calamo exaravit:”Surge tandem carnifex!” tabellam obsignavit et effecit ut Augusto traderetur. Augustus cum tabellam legit statim ius dicere cessavit ac neminem capitis amplius damnavit.

Mecenate, cavaliere romano, fu amico di Augusto, il cui, animo ardente e nobile spesso lo volse opportunamente e astutamente verso il bene. Talvolta richiamò l’imperatore anche dai cattivi consigli. Una volta Augusto mentre sedeva in tribunale come giudice, condannò a morte molti uomini. Mecenate, conosciuta la cosa, corse verso il tribunale e tentò di avvicinarsi verso l’imperatore ma inutilmente, poichè fu attaccato dal popolo. E così ordinò che gli si prendesse una lettera dove scrisse con lo stilo queste parole: “Vieni fuori una buona volta carnefice!”, sigillò la lettera e fece si che fosse consegnata ad Augusto. Augusto, quando lesse la lettera, subito cessò di amministrare la giustizia e non condannò a morte più nessuno.

“Il dio Giano”

Ianus a Romanis scriptoribus antiquus Italiae deus putatur. Ianus enim – utt sciptores tradunt – primus Romanis sacros ritus dedit. Is omnium operarum initiis praesidebat, quapropter primus anni mensis Ianuarius appellatus est et deo sacer fuit. Sculptores pictoresque romani Ianum bifrontem fingebant, id est cum duplici vultu, quod uno vulto praeterita facta respiciebant, altero futura
animadvertebat. Praeterea Ianus cum baculo in dextra manu clavemque in sinistra fingebatur, quia sub eius tutela erant urbium domorumque ianuae, qua homines in urbes domosque inibant et quae a deo nomen trahebant. Romae Iani templum apud montem Capitolium erat: templi ianuae belli tempore aperiebantur, pacis tempore, autem, claudebantur. A Iano nomen trahit etiamo Ianiculus mons, qui trans pontem Sublicium apud Tiberim surgit.

Giano è ritenuto dagli scrittori Romani un antico dio dell’Italia. Giano infatti, come tramandano gli scrittori, per primo diede ai Romani i riti sacri. Costui presiedeva alle fasi iniziali di tutte le opere, per la qual cosa il primo mese dell’anno fu chiamato Gennaio e fu consacrato al dio. Gli scultori e i pittori romani raffiguravano Giano bifronte, cioè con un duplice volto, poichè con un volto erano guardate le cose accadute e con l’altro quelle future. Talvolta Giano era raffigurato con il bastone nella mano destra e con la chiave nella sinistra, poichè erano sotto la sua protezione le porte delle città e delle case, attraverso le quali gli uomini entravano in città e nelle case e che prendevano nome dal dio. A Roma vi era presso il colle Capitolino il tempio di Giano: in tempo di guerra le porte del tempio erano aperte, invece in tempo di pace erano chiuse. Da Giano prende anche il nome il monte Gianicolo, che si innalza oltre il ponte Sublicio sul Tevere.

“Il ratto delle Sabine”

Iam Romani multas finitimas gentes crebiis proeliis vicerant, eorumque potentia iam valida erat, sed de penuria mulierum iuventus sollicit erat. Frusta Romulus legatos circa vicinas gentes miserat et conubia petierant; nusquam finitmi benigne audiverant legatos, sed saepe eos spreverant et acerbe dimiserant. Aegre Romani has iniurias tolerabant, et iam animo bellum cogitabant, cum Romulus magna cum calliditate magnificos ludos Neptuno paravit et finitimos ad spectacula invitavit. Multi convenerunt, cupidi visendi et novam urbem et inusitatos ludo; Sabini quoque cum liberis uxoribusque venerunt. Comiter Romni advenas per vias urbis circumducunt, nova aedificia monstrant, liberaliter convivia instruunt.

I Romani avevano vinto con feroci battaglie molte genti confinanti e la loro potenza era già forte, ma la gioventù era inquieta per mancanza di donne. Invano Romolo aveva mandato ambasciatori tra le genti vicine, ma spesso li allontanavano e aspramente li cacciavano. I Romani mal tolleravano queste offese, e già pensavano in animo alla guerra, quando Romolo con astuzia preparò giochi magnifici per Nettuno e invitò i vicini allo spettacolo. Molti giunsero, desiderosi di vedere sia la nuova città sia gli spettacoli inusuali; i Sabini vennero anche con figli e mogli. Amichevolmente i Romani conducono gli arrivati per le vie della città, mostrano i nuovi edifici, preparano pranzi con generosità.

Hannibal, 6

Hinc invictus patriam defensum revocatus bellum gessit adversus P. Scipionem, filium eius, quem ipse primo apud Rhodanum, iterum apud Padum, tertio apud Trebiam fugarat. 2 Cum hoc exhaustis iam patriae facultatibus cupivit impraesentiarum bellum componere, quo valentior postea congrederetur. In colloquium convenit; condiciones non convenerunt. 3 Post id factum paucis diebus apud Zamam cum eodem conflixit: pulsus – incredibile dictu – biduo et duabus noctibus Hadrumetum pervenit, quod abest ab Zama circiter milia passuum trecenta. 4 In hac fuga Numidae, qui simul cum eo ex acie excesserant, insidiati sunt ei; quos non solum effugit, sed etiam ipsos oppressit. Hadrumeti reliquos e fuga collegit; novis dilectibus paucis diebus multos contraxit.

Da qui senza essere mai stato vinto richiamato per difendere la patria combattè contro Publio Scipione, figlio di quel Scipione che egli stesso aveva messo in fuga la prima volta sul Rodano, la seconda volta sul Po, la terza volta sulla Trebbia. Esaurite ormai le risorse della patria, Annibale sul momento desiderò porre fine alla guerra con lui, per combattere in seguito con maggiore successo. Si incontrò con lui per un colloquio, ma non si misero d’accordo. Pochi giorni dopo questo fatto si scontrò con lui presso Zama; sconfitto – incredibile a dirsi – giunse in due giorni e due notti ad Adrumeto, che dista da Zama circa trecento miglia. In questa fuga i Numidi, che insieme a lui si erano ritirati dal campo di battaglia, gli tesero un’imboscata e non solo riuscì a sfuggire loro, ma addirittura li sterminò. Ad Adrumeto radunò i fuggiaschi; mise insieme molti soldati in pochi giorni con nuove leve.

“La Sicilia”

Siciliam ferunt angustis quondam faucibus Italiae adhaesisse direptamque velut a corpore maiore, impetu superi maris, quod tot undarum onere illuc vehitur. Est autem ipsa tenuis ac fragilis et cavernis quibusdam fistulisque ita penetrabilis ut ventorum tota ferme flatibus pateat; nec non et ignibus generandis nutriendisque soli ipsius naturalis materia, quippe intrinsecus stratum sulphure et bitumine traditur, quae res facit, ut, spiritu cum igne in terra interiore luctante frequenter e compluribus locis nunc flammas, nunc vaporem, nunc fumum eructet. Inde denique Aetnae montis per tot saecula durat incendium, et ubi acrior per sperimenta cavernarum ventus incubuit, harenarum moles egeruntur. Proximum Italiae promuntorium Regium dicitur, ideo quia Graece hoc nomine pronuntiatur. Nec mirum, si fabulosa est loci huius antiquitas, in quem res tot coiere mirae.

Si dice che la Sicilia una volta fosse attaccata all’Italia attraverso un angusto istmo e che fosse stata portata via da questa come da un corpo maggiore dall’impeto del mare che là è trascinato con tutta la forza delle onde. La stessa terra poi è sottile e fragile e attraverso certi canali e cavità è così accessibile da essere esposta quasi completamente al soffio dei venti; inoltre la natura dello stesso suolo sembra adatta a generare e ad alimentare fuochi. Infatti si dice che all’interno ci sia uno strato di zolfo e di bitume; questa cosa fa sì che, lottando il vento col fuoco sottoterra, spesso e in molti luoghi emetta ora fiamme, ora vapore, ora fumo. Perciò l’attività vulcanica del monte Etna esiste da tanti secoli. E, appena il vento più penetrante soffia attraverso gli spiragli delle caverne, grandi blocchi di sabbia vengono gettati fuori. Non c’è da meravigliarsi se è favolosa la fama di questo stretto sul quale si concentrano tante meraviglie.

“La famiglia de Cicerone”

Tulliorum familia, quae et Ciceronis postea cognomentum recepit, ex minicipio Arpinati originem traxit; principium vero generis in Tullium, Volscorum regem, santis constanti opinione hominum referebatur. Haec familia, quamquam a regibus orta est, tamen, quoniam res mortalium fluxae ac labiles sunt, procedente tempore, claritate nominis exstincta, famam omnino amisit et Romae equestrem locum, qui medius inter patricios et plebem habebatur, consecuta est. Qui primus ex ea familia Cicero cognominatus est in estrema nasi parte eminens quidam in figuram ciceris habuit, a quo ei cognomen inditum est, ac per eum in posteros transfusum est. Ex hac itaque famiglia Cicero orator natus est patre Tullio, matre Olbia, quae et ipsa honestis parentibus orta erat. Tradunt nutrici eius phantasma, per somnum visum, dixisse magnam rei publicae salutem ab illa nutriri. Hoc oraculum, ab inizio spretum, ipse mox verum fuisse ostendit.

La famiglia dei Tulli, da cui dopo prese il cognome di Cicerone, trasse origine dal municipio di Arpinate, l’inizio in verità della stirpe era attribuita secondo l’opinione degli uomini a Tullio, re dei Volsci. Questa famiglia, sebbene sorta dai re, tuttavia, poichè le cose dei mortali sono volubili e labili, con l’andar del tempo, estinta la celebrità del nome, perse completamente la fama e ottenne a Roma il luogo equestre, che era intermediario tra i patrizi e la plebe. Il Cicerone che per primo ottenne il cognome da quella famiglia aveva nella parte estrema del naso una tale sporgenza dalla forma di un cece, per la quale a quello venne affidato il cognome e attraverso quello venne tramandato ai posteri. Da questa famiglia così l’oratore Cicerone nacque dal padre Tullio, madre Olbia, che lei stessa nacque da onesti genitori. Dicono che il fantasma della sua nutrice, attraverso un sogno, abbia detto che grande parte della salute delle stato era nutrito da quella. Questo oracolo, disprezzato sin dall’inizio, mostra che quello stesso subito dopo sia stato vero.

“Il figlio del re Creso riacquista la parola”

Filius Croesi regis, quamvis iam fari per aetatem posset, infans erat et, quamvis iam multum adolevisset, item nihil fari quibat. Mutus adeo et elinguis diu existimatus est. Cum in partem eius, bello magno victum et urbe, in qua erat, capta hostis gladio educto, regem esse ignorans, invaderet. Diduxit adulescens os, clamore nitens, eoque nisu atque impetu spiritum vitium nodumque linguae rupit planeque et articulate elocutus est, clamans in hostem, ne rex Croesus occideretur. Tum et hostis gladium reduxit et rex vita donatus est et adulescens loqui prorsum deinceps incepit.

Il figlio del re Creso, all’età in cui poteva parlare, non ne era capace, ed anche crescendo negli anni non riusciva ad articolar parola. Pertanto per molto tempo lo ritennero muto e senza l’uso della lingua. Un giorno in cui Creso era stato sconfitto in una grande battaglia e la città, in cui si trovava, occupata, il giovane principe vedendo un nemico che senza sapere che era il re, tratta la spada, si rivolgeva contro suo padre, aprì la bocca tentando di gridare; per lo sforzo fatto e la violenza del soffio, si ruppe l’impedimento e l’intoppo della lingua, e chiaramente e distintamente gridò al nemico che non uccidesse il re Creso. Nello stesso istante il nemico rifoderò la spada, il re fu salvo e il giovane da allora incominciò a parlare.

“Tarpea”

Sabini bellum adversum Romanos susceperant ut iniuriam raptarum virginum armis vindicarent. Cum hostes iam urbem oppugnarent, Romani in Capitolium confugerunt. Capitolii arcis curtos Spurius Tarpeius erat, cuius filiam, Tarpeiam nomine, Titus Tatius, Sabinorum rex, auro corrupit ut milites armatos in arcem acciperet. Ea enum forte de Capitolio descenderat, ut aquam sacrificiis necessariam e fonte remota hauriret. Tum Tatius, cum virginem conspicatus esset, eam clam secutus est et, ut viam ad Capitolium cognosceret arceque facilius potiretur, magnis pollicitationibus illexit: “Quidquid cupis, puella, tibi libentissime concedam , si me meosque milites in Capitolium perduxeris”. Tarpeia ut proditionis pretium petivit quod Sabini in manibus sinistris gerebant: arbitrabatur enim se pretiosis armillis atque anulis gemmatis ab eis donari. Itaque, falsa spe inducta, portam aperuit ut hostes in arcem ingrederentur. Sed confestim proditionis suae maximas poenas pependit: nam, Sabinorum scutis obruta, suffocatione vulneribusque mortua est. Hostes enim non solum monilia sed etiam scuta in manibus sinistris gerebant. Quicumque turpe facinus commisit, invisus hostibus ipsis est.

I Sabini avevano mosso guerra contro i Romani per vendicare con le armi l’offesa del ratto delle vergini. Avendo i nemici assediato la città, i Romani si rifugiarono nel Campidoglio. Spurio Tarpeo era custode della rocca del Campidoglio, la cui figlia, di nome Tarpea, Tito Tazio, re dei Sabini, aveva corrotto con l’oro affinchè accogliesse i soldati armati nella rocca. Quella allontanandosi dal Campidoglio, perchè portasse l’acqua necessaria dalla fonte (remota) ai sacrifici. Allora Tazio, avendo visto la vergine, la seguì di nascosto, per conoscere la via al Campidoglio e entrare facilmente nella rocca, la illuse con grandi preghiere: “Qualsiasi cosa desideri, o fanciulla, te la concederò volentieri, se condurrai me e i mei soldati nel Campidoglio”. Tarpea chiese come prezzo del tradimento ciò che i Sabini avevano nella mano sinistra: pensava infatti che quelli gli avrebbero donato braccialetti preziosi e anelli gemmati. E così indotta da falsa speranza aprì la porta per far entrare i nemici nella rocca. Ma subito pagò grandissime pene del suo tradimento: infatti coperta dagli scudi dei Sabini, morì di soffocamento e per le ferite. I nemici infatti non portavano solo gioielli ma anche scudi nelle mani sinistre. Chiunque commetta una turpe azione, è inviso agli stessi nemici.

“Il ratto delle Sabine” (2)

Iam res publica romana tam valida erat, ut finitimis populis numero civium par esset. Sed civitas feminis carebat. Itaque Romulus ad gentes vicina legatos misit, qui ab iis peterent ut Romanis filias uxores darent. Sed cum Romanorum legati nusquam benigne accepti essent, rex dolo mulieribus potitus est. Ludos enim sollemnes maximo apparatu fecit et in urbem proximas civitates invitavit. Cupiditate spectaculorum flagrantes, omnes homines cum uxoribus ac liberis Romam convenerunt; in quibus erant etiam Sabini. Cum universi ludos spectarent, repente regis iussu omnes Romani Sabinorum virgines, quas quisque arripuerat, domos suas vi traxerunt. Parentes filiabus suis orbati magno cum clamore profugerunt et a propinquis quxilium petiverunt, ut violati hospitii iniuriam ulciscerentur. Sic bellum magnum coortum est, sed Romani brevi tempore Sabinos eorumque socios devicerunt.

La repubblica romana era già tanto potente, essendo pari ai popoli limitrofi per numero di cittadini. Ma la città era carente di donne. Perciò Romolo mandò dalle genti confinanti ambasciatori, che chiedessero loro di dare le figlie in mogli ai Romani. Ma, dopo che gli ambasciatori dei Romani non furono per nulla bene accolti, il re con l’inganno s’impadronì delle donne. Egli infatti allestì con grande apparato spettacoli solenni e invitò a Roma le città vicine. Conquistati dal desiderio degli spettacoli, tutti gli uomini convennero a Roma con mogli e figli; tra loro c’erano anche i Sabini. Mentre tutti assistevano ai giochi, improvvisamente per ordine del re tutti i Romani trascinarono con forza verso le proprie case le vergini dei Sabini, che ognuno di loro aveva afferrato. I genitori, privati delle loro figlie, con gran clamore fuggirono e chiesero l’aiuto degli abitanti vicini, affinchè si vendicassero dell’offesa arrecata dall’oltraggiosa ospitalità. Così scoppiò una grande guerra, ma i Romani in breve tempo vinsero definitivamente i Sabini e i loro alleati.

“E’ bene leggere pochi libri, ma buoni”

Seneca hortabatur Lucilium suum ut libros, non multos sed utiles, apud se haberet. Eadem fuit Aristippi, philosophi eminentissimi, sententia. Olim enim apud eum homo vanus et stultus gloriabatur se plurimos libros lectitavisse. Quare se doctissimum esse arbitrabatur et doctrinam suam iactaner celebrebat. Eius iactantiam Aristippus aegre passus, eum percontatus est: “Meliusne arbitraris copisum deterioremque cibum sumere an modicum sed meliorem? Num validiores esse exstimas eos qui multos cibos edunt quam eos qui salubrioribus vescuntur? Ego quidem arbitror nimium cibum hominii semper nocere. Ita docti existimari debent non illi qui multos, sed qui optimos libros legunt. Non multa enim, sed bona, a viro sapienti expetuntur. Praeterea qui vere sapiens est, etiam modestus est neque arbitrantur se omnia scire”.

Seneca esortava il suo Lucilio affinché avesse con sé dei libri, non molti ma utili. Uguale fu il pensiero di Aristippo, eminentissimo filosofo. Una volta infatti presso di lui un uomo vano e stolto si glorificava per aver letto moltissimi libri. Per questo motivo credeva di essere molto sapiente ed esaltava spudoratamente la sua dottrina. Aristippo, tollerando a stento la sua arroganza, gli chiese: “E’ forse meglio assumere cibo abbondante e meno buono o modico ma migliore? Forse giudichi che siano migliori quelli che mangiano molto cibo rispetto a quelli che mangiano cibi più salutari? Io per conto mio reputo che troppo cibo danneggi sempre l’uomo. Così devono essere considerati sapienti non quelli che leggono molti libri, ma quelli che leggono i migliori. Infatti dall’uomo sapiente sono cercate non molte cose, ma buone. Inoltre chi è veramente saggio, è anche modesto e non crede di sapere tutto”.

Divus Iulius, 37

Confectis bellis quinquiens triumphavit, post devictum Scipionem quater eodem mense, sed interiectis diebus, et rursus semel post superatos Pompei liberos. Primum et excellentissimum triumphum egit Gallicum, sequentem Alexandrinum, deinde Ponticum, huic proximum Africanum, novissimum Hispaniensem, diverso quemque apparatu et instrumento. 2 Gallici triumphi die Velabrum praetervehens paene curru excessus est axe diffracto ascenditque Capitolium ad lumina, quadraginta elephantis dextra sinistraque lychnuchos gestantibus. Pontico triumpho inter pompae fercula trium verborum praetulit titulum VENI·VIDI·VICI non acta belli significantem sicut ceteris, sed celeriter confecti notam.

Concluse le guerre, riportò il trionfo cinque volte: quattro volte nello stesso mese, ma a qualche giorno di intervallo, dopo aver sconfitto Scipione, e una volta ancora, dopo aver superato i figli di Pompeo. Il primo, e il più bello, dei suoi trionfi fu quello Gallico, poi l’Alessandrino, quindi il Pontico, dopo l’Africano e infine lo Spagnolo, ciascuno differente per apparato e varietà di particolari. Nel giorno del trionfo sui Galli, attraversando il Velabro, per poco non fu sbalzato dal carro a causa della rottura di un assale; salì poi sul Campidoglio alla luce delle fiaccole che quaranta elefanti, a destra e a sinistra, recavano sui candelieri. Nel corso del trionfo Pontico, tra gli altri carri presenti nel corteo, fece portare davanti a sé un cartello con queste tre parole: “Venni, vidi, vinsi”, volendo indicare non tanto le imprese della guerra, come aveva fatto per le altre, quanto la rapidità con cui era stata conclusa.

De Bello Civili, III, 1

Dictatore habente comitia Caesare consules creantur Iulius Caesar et P. Servilius: is enim erat annus, quo per leges ei consulem fieri liceret. His rebus confectis, cum fides tota Italia esset angustior neque creditae pecuniae solverentur, constituit, ut arbitri darentur; per eos fierent aestimationes possessionum et rerum, quanti quaeque earum ante bellum fuisset, atque hac creditoribus traderentur. Hoc et ad timorem novarum tabularum tollendum minuendumve, qui fere bella et civiles dissensiones sequi consuevit, et ad debitorum tuendam existimationem esse aptissimum existimavit. Itemque praetoribus tribunisque plebis rogationes ad populum ferentibus nonnullos ambitus Pompeia lege damnatos illis temporibus, quibus in urbe praesidia legionum Pompeius habuerat, quae iudicia aliis audientibus iudicibus, aliis sententiam ferentibus singulis diebus erant perfecta, in integrum restituit, qui se illi initio civilis belli obtulerant, si sua opera in bello uti vellet, proinde aestimans, ac si usus esset, quoniam aui fecissent potestatem. Statuerat enim prius hos iudicio populi debere restitui, quam suo beneficio videri receptos, ne aut ingratus in referenda gratia aut arrogans in praeripiendo populi beneficio videretur.

Nei comizi che si tennero sotto la dittatura di Cesare, furono eletti consoli Giulio Cesare e Publio Servilio; era quello infatti l’anno in cui, a termini di legge, egli poteva accedere di nuovo al consolato. Fatto ciò, poiché in tutta l’Italia il credito era in una situazione piuttosto grave, e i debiti non venivano pagati, stabilì che venissero nominati degli arbitri, che procedessero alla stima dei beni mobili e immobili, in base al loro valore di prima della guerra, per soddisfare con questi i creditori. Ritenne che questo fosse il provvedimento più adatto ad eliminare o almeno a diminuire il timore della cancellazione dei debiti, normale conseguenza delle guerre e delle discordie civili, e a salvaguardare il credito dei debitori. Parimenti, su proposta presentata al popolo dai pretori e dai tribuni della plebe, riabilitò alcuni cittadini condannati per broglio elettorale in base alla legge Pompea, nel periodo in cui Roma era presidiata dalle legioni di Pompeo e le sentenze venivano emesse da giudici diversi da quelli che avevano seguito la causa, e il tutto veniva liquidato in una sola giornata. Questi cittadini si erano messi a sua disposizione fin dall’inizio della guerra civile, nel caso volesse servirsi di loro nel conflitto, ed egli si comportava come se se ne fosse servito, poiché gli avevano dato la loro disponibilità. Aveva infatti stabilito che costoro dovevano essere reintegrati nei loro diritti con una pubblica sentenza, piuttosto che sembrare riabilitati dal suo personale favore, questo per non sembrare ingrato nel restituire un favore o arrogante nell’attribuire a se stesso la facoltà di accordare un beneficio che spettava al popolo concedere.

“Glauco e Diomede”

Urbs Troia a graecis multos per annos obsessa est. Ab omnibus fere populis Asiae strenui duces cum ingentibus copiis troianis auxilio venerunt. Inter eos eminebat Glaucus, iuvenis Lycius acris aingenii ac singularis audiaciae, qui in bello saepe magna experimenta virtutis suae dedit. Is olim sub moenibus Troiae Diomedem, fortem virum graecum ad singulare certamen proocavit. Ante proelium Diomedes sic eum interrogavi: “Quod nomen inquit est tibi? Unde originem trabis?”. Respondit Glaucus: “Voluntati tuae satisfacere volo tibique genus meum libenter indicabo. Mihi pater est Hippolochus avus Bellerophon, vir audax fortisque: nam Chimaeram mosntrum triforme, necavit et amazones genus mulierum bellicosarum er crudelium occidit”. Tunc Diomedes magno gaudio captus est: “Mihi tecum inquit antiquum hospitium est! Nam cum Bellerophon in Graeciam venit, benigne acceptus est ab Oeneo avo meo. Bellerophon balteum purpureum hospiti dono dedit, Oeneus ei pateram auream donavit et amicitiam sempiternam iunxerunt”. Itaque Glaucus et dioemdes amicos non hostes se agnoverunt, proelium non commiserunt et arma inter se commutaverunt.

La città di Troia fu assediata dai Greci per molti anni. Da tutti i popoli vicini dell’Asia vennero in aiuto ai Troiani comandanti con ingenti truppe. Tra loro emergeva Glauco, giovane della Licia di acuto ingegno e di singolare audacia, che spesso aveva dato prova della sua virtù in guerra. Lui una volta provocò Diomede, forte uomo greco, a singolare duello sotto le mura di Troia. Prima della battaglia Diomede lo interrogò così: “Qual è – disse – il tuo nome? Da dove provieni?” Glauco rispose: “Voglio soddisfare la tua volontà e volentieri ti indicherò la mia stripe. Mio padre è Ippoloco, mio nonno Bellerofonte, uomo audace e forte: infatti uccise Chimera, mostro a tre teste, e uccise le amazzoni, stirpe di donne crudeli e bellicose”. Allora Diomede fu preso da grande gioia: “Tra me e te – disse – c’è un antico vincolo di ospitalità! Infatti quando Bellerofonte giunse in Grecia, fu accolto benignamente da Eneo, mio nonno. Bellerofonte diede in dono all’ospite una cintura purpurea, Eneo gli donò un recipiente d’oro e unirono l’amicizia eterna”. Così Glauco e Diomede si riconobbero come amici e non nemici, non commisero battaglia e si scambiarono le armi tra loro.

De Bello Gallico, VI, 23

Civitatibus maxima laus est quam latissime circum se vastatis finibus solitudines habere. hoc proprium virtutis existimant, expulsos agris finitimos cedere neque quemquam prope se audere consistere. Simul hoc se fore tutiores arbitrantur, repentinae incursionis timore sublato. Cum bellum civitas aut inlatum defendit aut infert, magistratus qui ei bello praesint et vitae necisque habeant potestatem deliguntur. In pace nullus est communis magistratus, sed principes regionum atque pagorum inter suos ius dicunt controversiasque minuunt. latrocinia nullam habent infamiam quae extra fines cuiusque civitatis fiunt, atque ea iuventutis exercendae ac desidiae minuendae causa fieri praedicant. Atque ubi quis ex principibus in concilio dixit se ducem fore, qui sequi velint, profiteantur, consurgunt ii qui et causam et hominem probant, suumque auxilium pollicentur atque a multitudine conlaudantur; qui ex his secuti non sunt, in desertorum ac proditorum numero ducuntur, omniumque his rerum postea fides derogatur. Hospitem violare fas non putant; qui quacumque de causa ad eos venerunt, ab iniuria prohibent sanctosque habent, hisque omnium domus patent victusque communicatur.

Per le nazioni è massima gloria è che essi abbiano attorno il più ampiamente possibile, devastati i territori, dei deserti. Questo stimano proprio del valore, che i confinanti espulsi si ritirino dai campi e che nessuno osi fermarsi vicino a loro. Con questo insieme pensano che saranno più sicuri, tolto il timore di un improvviso assalto. Quando la nazione o s’oppone ad una guerra dichiarata o la dichiara, vengono scelti magistrati che presiedano a quella guerra ed abbiano il potere di vita e di morte. In pace non c’è nessun magistrato comune, ma i capi delle regioni e dei villaggi amministrano la giustizia tra i loro e riducono le controversie. Le rapine non hanno nessuna infamia, quelle (però) che siano fatte fuori dei territori di ogni nazione, e proclamano che si facciano per esercitare la gioventù e diminuire la pigrizia. Ma quando uno tra i capi ha detto in assemblea che sarà comandante (d’una spedizione) e quelli che vogliono seguirlo lo dichiarino, si alzano quelli che approvano la causa e la persona e promettono il loro aiuto e sono approvati dalla folla; quelli tra loro che non l’anno seguito sono considerati nel novero dei disertori e traditori, ed in seguito a questi è tolta il credito di tutte le cose. Credono sacrilego violare l’ospite; quelli che per qualunque motivo sono arrivati da loro, li difendono da danno e li considerano sacri, per questi le case di tutti sono aperte e viene condiviso il vitto.