“La mucca, la capretta, la pecora e il leone”

Numquam est fidelis cum potenti societas. Vacca et capella et mitis ovis venationis socii fuerunt cum leone in saltibus. Quia cervum vasti corporis ceperant, leo, postquam partes fecit, dixit se primam tollere quoniam leo nominatur; secundam sibi ab iis tributum iri, quia fortis est; tum tertiam sibi obventuram esse, quia plus valet; denique malo adfectum iri socium qui quartam tetigerit. Sic totam praedam sola improbitas abstulit.

Mai è leale un’alleanza col potente. Questa favoletta attesta la mia affermazione. La vacca e la capretta e la pecora resistente all’oltraggio furono alleati col leone nelle foreste. Avendo questi preso un cervo di grossa corporatura, così, fatte le parti, parlò il leone: “Io prendo la prima a questo titolo, perchè mi chiamo leone; la seconda, poichè sono socio, l’attribuirete a me; poi, poichè sono più forte, mi seguirà la terza; sarà colto dal male se uno avrà toccato la quarta”. Così la sola slealtà prese tutta la preda.

Fabulae, 119 – Orestes

Orestes Agamemnonis et Clytaemnestrae filius postquam in puberem aetatem venit, studebat patris sui mortem exsequi; itaque consilium capit cum Pylade et Mycenas venit ad matrem Clytaemnestram, dicitque se Aeolium hospitem esse nuntiatque Orestem esse mortuum, quem Aegisthus populo necandum demandaverat. Nec multo post Pylades Strophii filius ad Clytaemnestram venit urnamque secum affert dicitque ossa Orestis condita esse; quos Aegisthus laetabundus hospitio recepit. Qui occasione capta Orestes cum Pylade noctu Clytaemnestram matrem et Aegisthum interficiunt. Quem Tyndareus cum accusaret, Oresti a Mycenensibus fuga data est propter patrem; quem postea furiae matris exagitarunt.

Quando Oreste, figlio di Agamennone e di Clitennestra, giunse alla giovinezza, non aveva altro in mente che vendicare la morte del padre; fece perciò un piano insieme a Pilade, si recò a Micene dalla madre Clitennestra, le disse che era uno straniero giunto dall’Eolia e le annunciò la morte di Oreste, che Egisto voleva far uccidere dal popolo. Non molto tempo dopo Pilade, figlio di Strofio, si presentò a Clitennestra portando con se un’urna e disse che questa conteneva le ossa di Oreste; al che Egisto, tutto contento, accolse amichevolmente entrambi. Cogliendo l’occasione, Oreste uccise nottetempo, con l’aiuto di Pilade, la madre Clitennestra ed Egisto. Quando Tindaro lo trascinò in giudizio, gli abitanti di Micene concessero a Oreste di andare in esilio, a causa di suo padre; in seguito fu perseguitato dalle Furie della madre.

“Virtù di Lucrezia, moglie di Collatino”

Cum ardea, Rutulorum urbs, a Tarquinio Superbo obsidione cingebatur et bellum diu producebatur, a tarquinii filiis tempus saepe conviviis terebatur. Dum apud eos olim forte cenat collatinus (postea idem cum Bruto consul eligetur), sermo de uxoribus incidit et omnes suam magnopere laudaverunt. Eis igitur Collatinus dixit: cur verbis frustra certamus? Conscendere equos possumus atque oculis videre uxores nostras, dum vitam domi agunt. Mox domos suas pervenerunt; quia regiae nurus in conviviis deprensae sunt Lucretiaque autem, Collatini uxor, cum ancillis ad lanam intenta Lucretiae ipsi praecipua laus muliebris virtutis tributa est.

Mentre Ardea, città dei Rutuli, era cinta da un assedio da parte di Tarquinio il Superbo e la guerra si stava svolgendo da molto, spesso il tempo era fatto trascorrere dai figli di Tarquinio con banchetti. Quando presso di loro giunse una volta per caso Collatino (lo stesso poi era stato eletto console insieme a Bruto), il discorso cadde sulle mogli e tutti lodavano vivamente la propria. Collatino, dunque, disse loro: “Perchè disputiamo inutilmente con le parole? Possiamo montare a cavallo e vedere personalmente le nostre mogli, mentre trascorrono la vita in casa”. In poco tempo giunsero alle loro abitazioni; mentre le (altre) giovani donne furono sorprese mentre (si intrattenevano) con banchetti, Lucrezia invece, moglie di Collatino, fu trovata mentre, insieme alle ancelle, era intenta alla tessitura. Alla stessa Lucrezia fu attribuita una particolare lode per la (sua) virtù femminile.

“Differenze tra i Germani e i Galli”

Germani multum ab hac consuetudine differunt. Nam neque druides habent qui rebus divinis praesint, neque sacrificiis student. Deorum numero eos solos ducunt, quos cernunt et quorum aperte opibus iuvantur, Solem et Vulcanum et Lunam; reliquos ne fama quidem acceperunt. Vita omnis in venationibus atque in studiis rei militaris consistit; a parvis labori ac duritiae student. Qui diutissime impuberes permanserunt, maximam inter suos ferunt laudem; hoc ali staturam, ali vires nervosque confirmari putant. Intra annum vero vicesimum feminae notitiam habuisse in turpissimis habent rebus. Cuius rei nulla est occultatio, quod et promiscue in fluminibus perluuntur et pellibus aut parvis renonum tegimentis utuntur, magna corporis parte nuda.

I Germani differiscono molto da questa consuetudine. Infatti, non hanno né druidi che presiedano alle cerimonie religiose, né si dedicano ai sacrifici. Considerano nel numero degli dèi solo quelli che vedono e dalla cui potenza sono chiaramente aiutati: il Sole, Vulcano, la Luna. Non conoscono gli altri neppure di fama. Tutta la (loro) vita consiste in cacce e addestramento al combattimento: fin da bambini si allenano alla fatica e alla vita dura. Coloro che sono rimasti casti più a lungo, godono della massima stima fra i loro: pensano che ciò aumenti la statura, accresca le forze e renda i nervi saldi. E stimano tra le cose più vergognose l’aver avuto rapporti con una donna prima del ventunesimo anno; ma di questa cosa non c’è nessun mistero, poiché si lavano promiscuamente nei fiumi, indossano pelli o piccole coperture di giubbe di pelliccia (e hanno) gran parte del corpo nuda.

“La seconda guerra punica: l’inizio del conflitto secondo il punto di vista dei Romani”

M. Rufo P. Cornelio consulibus bellum punicum secundum Romanis inlatum est per Hannibalem, Carthaginiensium ducem, qui Saguntum, Hispaniae civitatem Romanis foederatam, oppugnare temptavit. Nam eo anno Hannibal iuvenis cum ingentibus copiis ab Africa in Hispania pervenerat ut bellum contra Romanos renovaret. Huic Romani per legatos denuntiaverunt ut bello abstineret is legatos admittere noluit. Senatus etiam carthaginem legationem misit ut mandaretur Hannibali ne bellum contra socios populi Romani gereret. Sed dura responsa a Carthaginiensibus data sunt. Saguntini interea, longa obsidione, fame victi sunt, captique ab Hannibale ultimis poenis adficiuntur. Quam ob rem bellum a Romanis Carthaginiensibus indictum est.

Durante il consolato di M. Rufo e di P. Cornelio fu dichiarata la seconda guerra punica ai Romani da Annibale, duce dei Cartaginesi, che tentò di espugnare Sagunto città della Spagna alleata ai Romani. Infatti in quell’anno il giovane Annibale con grandi truppe era giunto dall’Africa in Spagna per rinnovare la guerra contro i Romani. A questo i Romani annunciarono attraverso gli ambasciatori di desistere dalla guerra. Ma quello non volle ricevere gli ambasciatori. Anche il senato mandò una legazione a Cartagine affinchè fosse comandato ad Annibale di non portare guerra contro gli alleati del popolo romano. Ma dure risposte furono date dai Cartaginesi. I Saguntini, con un lungo assedio, furono inoltre indeboliti dalla fame, e presi da Annibale furono colpiti da ultime sofferenze. Per la qual cosa fu dichiarata guerra ai Romani dai Cartaginesi.

Breviarium, VIII, 8

Ergo Hadriano successit T. Antoninus Fulvius Boionius, idem etiam Pius nominatus, genere claro, sed non admodum vetere, vir insignis et qui merito Numae Pompilio conferatur, ita ut Romulo Traianus aequetur. Vixit ingenti honestate privatus, maiore in imperio, nulli acerbus, cunctis benignus, in re militari moderata gloria, defendere magis provincias quam amplificare studens, viros aequissimos ad administrandam rem publicam quaerens, bonis honorem habens, inprobos sine aliqua acerbitate detestans, regibus amicis venerabilis non minus quam terribilis, adeo ut barbarorum plurimae nationes depositis armis ad eum controversias suas litesque deferrent sententiaeque parerent. Hic ante imperium ditissimus opes quidem omnes suas stipendiis militum et circa amicos liberalitatibus minuit, verum aerarium opulentum reliquit. Pius propter clementiam dictus est. Obiit apud Lorium, villam suam, miliario ab urbe duodecimo, vitae anno septuagesimo tertio, imperii vicesimo tertio, atque inter Divos relatus est et merito consecratus.

Dunque ad Adriano successe T. Antonino Fulvio Boionio detto anche Pio, di stirpe illustre ma non molto antica, uomo insigne e che giustamente si può paragonare a Numa Pompilio, così come Traiano può esser paragonato a Romolo. In privato visse con somma onestà, maggiore nell’impero, con nessuno acerbo, benigno con tutti, di fama modesta nelle cose militari, bramoso di difendere più che di ampliare le province, che cercava per l’amministrazione dello Stato gli uomini più onesti, onorava i buoni, detestava i tristi senza alcuna acerbità, venerabile non meno che temibile per i re amici talchè moltissime genti barbare deposte le armi deferivano a lui le loro controversie e liti e accettavano il suo giudizio. Egli, ricchissimo prima dell’impero diminuì pure tutta la sua fortuna con le paghe dei soldati e le liberalità verso gli amici, ma lasciò l’erario ben fornito. Fu detto Pio per la sua clemenza. Morì a Lorio, sua villa a dodici miglia da Roma, l’anno settanta tre di sua vita e fu ascritto fra gli Dei e meritatamente consacrato.

Rhetorica, I, 11

Principio generi animantium omni est a natura tributum ut se vitam corpusque tueatur declinet ea quae nocitura videantur omniaque quae sint ad vivendum necessaria anquirat et paret ut pastum ut latibula ut alia generis eiusdem. Commune item animantium omnium est coniunctionis appetitus procreandi causa et cura quaedam eorum quae procreata sint. Sed inter hominem et beluam hoc maxime interest quod haec tantum quantum sensu movetur ad id solum quod adest quodque praesens est se accommodat paulum admodum sentiens praeteritum aut futurum. Homo autem quod rationis est particeps per quam consequentia cernit causas rerum videt earumque praegressus et quasi antecessiones non ignorat similitudines comparat rebusque praesentibus adiungit atque adnectit futuras facile totius vitae cursum videt ad eamque degendam praeparat res necessarias.

Anzitutto, la natura ha dato ad ogni essere vivente l’istinto di conservare se stesso nella vita e nel corpo, schivando tutto ciò che può recargli danno e cercando ansiosamente tutto ciò che serve a sostentare la vita, come il cibo, il ricovero, e altre cose dello stesso genere. Comune altresì a tutti gli esseri viventi è il desiderio dell’accoppiamento al fine di procreare, e una straordinaria cura della loro prole. Ma tra l’uomo e la bestia c’è soprattutto questa gran differenza, che la bestia, solo in quanto è stimolata dal senso conforma le sue attitudini a ciò che le è presente nello spazio e nel tempo, poco o nulla ricordando del passato e presentando del futuro; mentre l’uomo, in quanto è partecipe della ragione (in virtù di questa egli scorge le conseguenze, vede le cause efficienti, non ignora le occasionali, e, oso dire, gli antecedenti, confronta tra loro i casi simili, e alle cose presenti collega strettamente le future), l’uomo, dico, vede facilmente tutto il corso della vita e prepara in tempo le cose necessarie a ben condurla.

De Finibus, IV, 25

Sed primum positum sit nosmet ipsos commendatos esse nobis primamque ex natura hanc habere appetitionem, ut conservemus nosmet ipsos Hoc convenit; sequitur illud, ut animadvertamus qui simus ipsi, ut nos, quales oportet esse, servemus Sumus igitur homines Ex animo constamus et corpore, quae sunt cuiusdam modi, nosque oportet, ut prima appetitio naturalis postulat, haec diligere constituereque ex his finem illum summi boni atque ultimi Quem, si prima vera sunt, ita constitui necesse est: earum rerum, quae sint secundum naturam, quam plurima et quam maxima adipisci.

Ma per prima cosa sia fissato il principio che noi siamo affidati a noi stessi e che abbiamo come prima inclinazione naturale la conservazione di noi stessi Su questo punto siamo daccordo; segue questaltro: noi percepiamo chi siamo, per conservarci quali si deve essere Siamo dunque uomini Risultiamo formati di anima e di corpo, che son fatti in un certo modo, e occorre che noi, come richiede la prima inclinazione naturale, li amiamo e sulla loro base stabiliamo quel famoso termine estremo del sommo ed ultimo bene Se le premesse sono vere, esso deve necessariamente essere stabilito nel seguente modo: ottenere il maggior numero possibile e le più grandi possibili di quefle cose che sono conformi a natura.

Carmina, II, 10 (“Aurea mediocritas”)

Rectius vives, Licini, neque altum
semper urgendo neque, dum procellas
cautus horrescis, nimium premendo
litus iniquum.
Auream quisquis mediocritatem
diligit, tutus caret obsoleti
sordibus tecti, caret invidenda
sobrius aula.
Saepius ventis agitatur ingens
pinus et celsae graviore casu
decidunt turres feriuntque summos
fulgura montis.
Sperat infestis, metuit secundis
alteram sortem bene praeparatum
pectus: informis hiemes reducit
Iuppiter, idem
submovet. Non, si male nunc, et olim
sic erit: quondam cithara tacentem
suscitat Musam neque semper arcum
tendit Apollo.
Rebus angustis animosus atque
fortis appare; sapienter idem
contrahes vento nimium secundo
turgida vela.

Vivrai meglio, o Licinio, non spingendoti
sempre in alto mare né rasentando troppo
la costa insidiosa mentre prudente temi
le tempeste.
Chiunque segue l’aureo principio del giusto mezzo,
sta lontano al sicuro dagli squallori
di una casa decadente, e sta lontano, sobrio,
da un palazzo che suscita invidia.
Più frequentemente i venti agitano il grande pino,
le alte torri crollano con maggior rovina
e i fulmini colpiscono le cime dei monti.
Un cuore opportunamente predisposto attende
situazioni minacciose, nelle situazioni felici ha paura
del destino avverso: Giove riporta gli inverni
che rendono brutte le cose,
ed egli stesso li allontana. Se ora le cose vanno male,
non saà così in futuro: Apollo sveglia con la cetra
la Musa silenziosa e non tende sempre l’arco.
Nei momenti difficili mostrati corraggioso
e forte; allo stesso tempo tu ammainerai
sapientemente la vela gonfiata da un vento
troppo vigoroso.

“Le virtù di focione”

Phocion Atheniensis etsi saepe exercitibus praefuit summosque magistratus cepit, tamen multo eius notior integritas vitae quam rei militaris labor. Itaque huius memoria est nulla, illius autem magna fama, ex quo cognomine Bonus est appellatus. Fuit enim perpetuo pauper, cum divitissimus esse posset propter frequentis delatos honores potestatesque summas, quae ei a populo dabantur. Hic cum a rege Philippo munera magnae pecuniae repudiaret legatique hortarentur accipere simulque admonerent, si ipse his facile careret, liberis tamen suis prospiceret, quibus difficile esset in summa paupertate tantam paternam tueri gloriam, his ille `Si mei similes erunt, idem hic’ inquit `agellus illos alet, qui me ad hanc dignitatem perduxit; sin dissimiles sunt futuri, nolo meis impensis illorum ali augerique luxuriam.’

Benché l’Ateniese Focione fosse stato spesso a capo di eserciti e abbia ricoperto le più alte cariche, tuttavia (è) molto più nota la sua l’integrità di vita che l’attività militare. Così di quest’ultima il ricordo è nullo, grande invece è la fama di quella, per cui fu soprannominato il Buono. Fu infatti vero per tutta la vita, sebbene potesse essere ricchissimo per le cariche spesso rivestite e per i più alti poteri che gli venivano affidati dal popolo. Costui, poiché rifiutò dal re Filippo doni di grande valore e esortandolo gli ambasciatori ad accettarli e insieme ricordandogli che, se lui poteva facilmente farne a meno, pensasse tuttavia ai suoi figli, ai quali sarebbe stato difficile conservare nella più grande povertà la tanto grande gloria paterna, rispose loro: “Se saranno simili a me, li nutrirà questo stesso campicello che ha portato me a questa carica; se dovranno essere diversi, non voglio che il loro lusso sia alimentato ed accresciuto a mie spese”.

Factorum Et Dictorum Memorabilium, II, 2, 4

Maxima autem diligentia maiores hunc morem retinuerunt, ne quis se inter consulem et proximum lictorem, quamvis officii causa una progrederetur, interponeret. Filio dumtaxat et ei puero ante patrem consulem ambulandi ius erat. Qui mos adeo pertinaciter retentus est, ut Q. Fabius Maximus quinquies consul, vir et iam pridem summae auctoritatis et tunc ultimae senectutis, a filio consule invitatus ut inter se et lictorem procederet, ne hostium Samnitium turba, ad quorum conloquium descendebant, elideretur, facere id noluerit. Idem a senatu legatus ad filium consulem Suessam Pometiam missus, postquam animadvertit eum ad officium suum extra moenia oppidi processisse, indignatus quod ex XI lictoribus nemo se equo descendere iussisset, plenus irae sedere perseveravit. Quod cum filius sensisset, proximo lictori ut sibi appareret imperavit. Cuius voci continuo Fabius obsecutus ‘Non ego’ inquit, ‘Fili, summum imperium tuum contempsi, sed experiri volui an scires consulem agere: nec ignoro quid patriae venerationi debeatur, verum publica instituta privata pietate potiora iudico’.

Gli antenati, inoltre, osservarono, con la massima scrupolosità, questa norma abitudinaria: nessuno si intromettesse tra il console e il littore più vicino, anche qualora si procedesse insieme a motivo di (pubblica) funzione. Soltanto al figlio – adolescente – era concesso il diritto di camminare davanti al (proprio) padre console. Tale norma venne osservata con tanta pervicacia, che Quinto Fabio Massimo – 5 volte console, uomo eccezionale e già da un pezzo della massima dignità, nonché, a quel tempo, molto anziano – (benché fosse) invitato dal figlio console a procedere in mezzo a sé e al littore, per evitare di restare soffocato dalla turba dei nemici sanniti, verso i quali stavano procedendo per un abboccamento, si rifiutò. Lo stesso (Fabio Massimo) – inviato a Sessa Pomezia dal senato, in qualità di ambasciatore, al figlio console – dopo che si rese conto che costui si era portato, a compiere la sua mansione, al di fuori delle mura della città – indignato perché nessuno degli 11 littori gli aveva ingiunto di smontare da cavallo – se ne rimase seduto incollerito. Quando il figlio capì, ordinò al littore più vicino di mettersi ai propri ordini. Facendo seguito alle parole di quello, Fabio esclamò: “Figliolo, io non ho trascurato il tuo autorevole comando, bensì ho voluto rendermi conto se tu sappia comportarti da console: non ignoro quale rispetto debba tributarsi ad un padre, tuttavia ritengo che le pubbliche istituzioni abbiano maggior valore degli affetti privati”.

Factorum Et Dictorum Memorabilium, II, 6, 11-12-13-14

11 – […]Celtiberi etiam nefas esse ducebant proelio superesse, cum is occidisset, pro cuius salute spiritum devoverant. laudanda utrorumque populorum animi praesentia, quod et patriae incolumitatem fortiter tueri et fidem amicitiae constanter praestandam arbitrabantur.
12 – Thraciae vero illa natio merito sibi sapientiae laudem vindicaverit, quae natales hominum flebiliter, exequias cum hilaritate celebrans sine ullis doctorum praeceptis verum condicionis nostrae habitum pervidit. Removeatur itaque naturalis omnium animalium dulcedo vitae, quae multa et facere et pati turpiter cogit, si ortu eius aliquanto felicior ac beatior finis reperietur.
13 – Quocirca recte Lycii, cum his luctus incidit, muliebrem vestem induunt, ut deformitate cultus commoti maturius stultum proicere maerorem velint.
14 – Verum quid ego fortissimos hoc in genere prudentiae viros laudem? Respiciantur Indorum feminae, quae, cum more patrio conplures eidem nuptae esse soleant, mortuo marito in certamen iudiciumque veniunt, quam ex his maxime dilexerit.[…]

11 – I Celtiberi ritenevano addirittura empio sopravvivere ad una battaglia, quando fosse caduto colui, alla cui sola incolumità avevano dedicato solennemente la propria vita Degli uni e degli altri è degno di lode il sangue freddo, perché credevano che fosse necessario proteggere coraggiosamente la patria e mantenere fede senza esitazione alla loro parola di amici.
12 – E sì che a ragione può rivendicare il titolo di saggio quel popolo della Tracia, che, piangendo le nascite e celebrando giulivamente i funerali, ha saputo, senza precetto alcuno dei filosofi, intendere la vera essenza della condizione mortale. Aborriamo, dunque, da ogni istinto di piacere animalesco che ci costringe a fare e a subire molte vergogne, una volta scoperto che morire è cosa alquanto più felice e beata del nascere.
13 – Non hanno, dunque, torto i Lici ad indossare, quando sono colpiti da un lutto, abiti femminili: perché così sono indotti dalla stranezza del loro vestire a por termine al più presto ad una sciocca afflizione.
14 – Ma a che lodare gli uomini più forti in questo genere di saggezza? Osserviamo, ad esempio, le mogli degli Indiani, le quali, lì vige la poligamia, alla morte del marito fanno a gara, con regolare processo, per sapere quale tra loro il defunto abbia amata di più.

“Tre generi di lettere”

Epistularum genera multa esse non ignoras sed unum illud certissimum, cuius causa inventa res ipsa est, ut certiores faceremus absentes, si quid esset, quod eos scire aut nostra aut ipsorum interesset. Huius generis litteras a me profecto non exspectas: tuarum enim rerum domesticos habes et scriptores et nuntios; in meis autem rebus nihil est sane novi. Reliqua sunt epistularum genera duo, quae me magno opere delectant; unum familiare et iocosum, alterum severum et grave. Utro me minus deceat uti, non intelligo. Iocerne tecum per litteras? Civem mehercule non puto esse, qui temporibus his ridere possit. An gravius aliquid scribam? Quid est quod possit graviter a Cicerone scribi ad Curionem nisi de re publica?

(Tu) non ignori che i tipi di lettere sono molti, ma l’unico scopo certissimo per cui è stato inventato il genere stesso, è quello di informare chi è lontano, se c’è qualcosa che interessa o a noi o a loro che essi sappiano. Di certo non aspetti da me lettere di questo tipo: hai infatti corrispondenti e informatori privati delle tue faccende; e d’altra parte, nelle mie faccende non c’è proprio niente di nuovo. Vi sono altri due generi di lettere che mi piacciono molto: uno confidenziale e scherzoso, l’altro serio e grave. Quale dei due mi convenga meno usare, non capisco. Dovrei scherzare con te tramite le lettere? Non credo, per Ercole, che ci sia un cittadino che possa scherzare in questi momenti. Oppure dovrei scriver(ti) qualcosa di più serio? Che cosa c’è che possa essere scritto seriamente da Cicerone a Curione se non a proposito dello Stato?

Ad Familiares, II, 4

Epistularum genera multa esse non ignoras sed unum illud certissimum, cuius causa inventa res ipsa est, ut certiores faceremus absentis si quid esset quod eos scire aut nostra aut ipsorum interesset. Huius generis litteras a me profecto non exspectas. Tuarum enim rerum domesticos habes et scriptores et nuntios, in meis autem rebus nihil est sane novi. Reliqua sunt epistularum genera duo, quae me magno opere delectant, unum familiare et iocosum, alterum severum et grave. Utro me minus deceat uti non intellego. Iocerne tecum per litteras? Civem mehercule non puto esse, qui temporibus his ridere possit. An gravius aliquid scribam? Quid est quod possit graviter a Cicerone scribi ad Curionem nisi de re publica? Atqui in hoc genere haec mea causa est ut [neque ea quae sentio audeam] neque ea quae non sentio velim scribere.

Sai bene che ci sono molti generi epistolari, ma il genere per eccellenza è quello per il quale è stato inventato il genere stesso, per informare chi è lontano, se è accaduto qualcosa che importi a noi o a loro che essi seppiano. Senza dubbio non aspetti da parte mia lettere di questo genere. Delle tue faccende private infatti hai corrispondenti e messaggeri di casa tua, riguardo poi le mie faccende non c’è nessuna novità. Sono rimasti due generi epistolari, che mi piacciono molto, uno familiare e gioviale, l’altro serio e grave. Non capisco quale dei due mi si addica meno usare. Dovrei scherzare con te per lettera? Certamente non penso di essere un cittadino che possa ridere in questi tempi. O forse scrivere qualcosa di serio? Che cosa c’è che possa essere seriamente scritto da Cicerone a Curione se non sullo stato? Eppure in questo tipo di lettera la mia situazione è tale che né oso (scrivere) ciò che penso, né voglio scrivere ciò che non penso.

“Elogio di Scipione Emiliano”

P. Scipio Africanus Aemilianus, qui Carthaginem deleverat, post tot acceptas circa Mumantiam clades creatus iterum consul missusque in Hispaniam, intra annum ac tres menses, quam eo venerat, circumdatam operibus Numantiam excisamque aequavit solo. Nec quisquam hominum ullius gentis ante eum clariore urbium excidio nomen suum perpetuae memoriae commendavit. Nam, excisa Carthagine ac Numantia, ab alterius metu, ab alterius contumeliis nos vindicavit. Hic, eum interrogante tribuno Carbone quid de Ti. Gracchi caede sentiret, respondit, si is vere rem publicam occupare voluisset, iure caesum esse. Et cum omnis contio acclamavisset: “Totiens – inquit – hostium armatorum clamore non territus, quo modo possum vestro clamore moveri, quorum noverca est Italia?”.

P. Scipione Emiliano, quello che aveva distrutto Cartagine, dopo tanti rovesci erano stati subiti per la guerra di Numanzia, fu creato console per la seconda volta e inviato in Spagna, un un anno e tre mesi, da che era arrivato là, circondata Numanzia con le macchine ed espugnatala, la rase al suolo. Non ve n’è uno solo, in quella famiglia, prima di lui, che gloriò il proprio nome a perpetua memoria con una più splendida distruzione di città: infatti, rase al suolo Cartagine e Numanzia, ci liberò dal timore dell’una e dalle offese dell’altra. Costui, quando il tribuno Carbone lo interrogava su cosa pensasse dell’uccisione di Tiberio Gracco, rispose che se veramente voleva dominare la res publica, era morto giustamente. Poi, un giorno che tutta l’assemblea lo fischiava: “Tante volte” – disse – “Che non mi sono spaventato alle urla di nemici in armi, come potrei ora essere sconvolto dal vostro grido, voi cha avete l’Italia per matrigna?”.

“Il passero e la lepre”

Fabella de passero et lepore nos monet ne miseros stulte irridamus. Olim passer leporem, ab aquila captum, verbis contumeliosis obiurgabat: “Ubi est illa tua pernicitas? Ubi sunt celerrimi pedes tui? Nunc questus tui vani sunt”. Sed dum haec dicit, accipiter repente eum arripit atque in nidum suum aufert. Tum lepus semianimis dixisse fertur: “Laetus pereo, quia tu, qui nuper securus irridebas mala mea, nunc eadem querela fatum tuum deploras”.

La favola sul passero e sulla lepre ci ammonisce a non deridere stupidamente i miseri. Una volta un passero riempiva di parole offensive una lepre, presa da un’aquila: “Dove è quella tua agilità? Dove sono i tuoi piedi veloci? Ora le tue lamentele sono vane”. Ma mentre dice queste cose, un nibbio all’improvviso lo rapisce e lo porta al suo nido. Allora la lepre semianime si dice che abbia detto: “Muoio lieto perchè tu, che prima sicuro deridevi i miei mali, ora deplori con lo stesso lamento la tua sorte”.

“Un’imprudenza costa la vita a Pelopida”

Pelopidas, Thebanorum dux, cum Thessaliam in potestatem Thebanorum cuperet redigere, ad Alexandrum tyrannum Pherarum, Thessaliae urbis lagatus ivit, ut eius favorem peteret. Sed, quamvis legationis iure satis tectum se arbitraretur, quod apud omnes gentes sancutm esse consuevisset, a tyranno Alexandro Phereo comprehensus est in vincula coniectus. Epaminondas recuperavit, bello persequens Alexandrum. Post id factum numquam animo placari potuit in eum, a quo violatus erat. Itaque persuasit Thebanis, ut subsidio Thessaliae proficiscerentur tyrannosque eius expellerent. Cuius belli cum ei summa esset data eoque cum exercitu profectus esset, non dubitavit, simul ac conspexit hostem, confligere. In quo proelio ut Alexandrum ut animadvertit, incensus ira, equum in eum concitavit, proculque digressus a suis, coniectu telorum confossus concidit. Atque hoc secunda victoria accidit: nam iam inclinatae erant tyrannorum copiae. Quo facto omnes Thessaliae civitates interfectum Pelopidam coronis aureis et statuis aeneis liberosque eius multo agro donaverunt.

Pelopida, comandante dei Tebani, desideroso di ridurre sotto il potere dei Tebani la Tessaglia, mandò un ambasciatore da Alessandro, tiranno di Fereo, città della Tessaglia, per chiedere il suo appoggio. Ma sebbene si reputasse abbastanza protetto dalla legittimità di ambasciatore, che presso tutti i popoli era considerato sacro, fu arrestato e gettato in prigione dal tiranno di Fereo, Alessandro. Epaminonda lo liberò facendo guerra ad Alessandro. Dopo questo crimine giammai potè riappacificarsi con il sentimento dal quale era stato contaminato. Pertanto convinse i Tebani affinchè andassero in aiuto della Tessaglia e scacciassero i suoi tiranni. Della cui guerra, essendo egli comandandante ed essendo con i suoi doni un vantaggio per l’esercito, non esitò, contemporaneamente esaminò e sconfisse il nemico. E in questa battaglia, appena notò Alessandro accecato dalla rabbia, spronò il cavallo verso di lui e, deviato lontano dai suoi, morì trapassato dal getto delle frecce. E questo accadde con la vittoria favorita: infatti le truppe dei tiranni erano già vacillanti. Per questo fatto tutti i cittadini della Tessaglia, privato Pelopida della corona d’oro e della statua di bronzo, donarono ai suoi figli molta terra.

“Presenza degli dei nella vita romana”

Itaque et in nostro populo et in ceteris deorum cultus religionumque sanctitates exsistunt in dies maiores atque meliores, idque evenit non temere nec casu, sed quod et praesentes saepe di vim suam declarant, ut et apud Regillum bello Latinorum, cum A. Postumius dictator cum Octavio Mamilio Tusculano proelio dimicaret, in nostra acie Castor et Pollux ex equis pugnare visi sunt, et recentiore memoria iidem Tyndaridae Persem victum nuntiaverunt. P. enim Vatinius, avus huius adulescentis, cum e praefectura Reatina Romam venienti noctu duo iuvenes cum equis albis dixissent regem Persem illo die captum, senatui nuntiavit; et primo quasi temere de re publica locutus in carcerem coniectus est, post a Paulo litteris allatis cum idem dies constitisset, et agro a senatu et vacatione donatus est. Atque etiam cum ad fluvium Sagram Crotoniatas Locri maximo proelio devicissent, eo ipso die auditam esse eam pugnam ludis Olympiae memoriae proditum est. Saepe Faunorum voces exauditae, saepe visae formae deorum quemvis non aut hebetem aut impium deos praesentes esse confiteri coegerunt.

Così nel nostro popolo come negli altri il culto degli dei e l’osservanza della religione acquistano di giorno in giorno importanza e valore sempre maggiori; e questo non avviene senza motivo e per caso, ma per il fatto che gli dei in persona spesso mostrano la loro potenza; ad esempio nella guerra contro i Latini, al lago Regillo, durante la battaglia tra il dittatore Aulo Postumio e Ottavio Mamillio Tusculano, Castore e Polluce furono visti combattere a cavallo nelle nostre file, e più recentemente gli stessi figli di Tindaro annunziarono la sconfitta di Perseo. Publio Vatinio infatti, nonno del nostro giovane contemporaneo, mentre di notte ritornava a Roma da Rieti, di cui era prefetto, fu informato da due giovani su un cavallo bianco del fatto che il re Perseo era stato catturato in quello stesso giorno. Quando Vatinio riferì il fatto al senato, in un primo tempo fu gettato in carcere con l’accusa di aver parlato con sconsideratezza su affari di importanza pubblica. In seguito arrivò una lettera di Paolo e, siccome la data coincideva, il senato gli elargì un terreno e l’esenzione dal servizio militare. E ancora si tramanda che quando i Locresi vinsero i Crotoniati nella grandissima battaglia presso il fiume Sagra, nello stesso giorno ai giochi olimpici si ebbe notizia di quella battaglia. Spesso sono state udite le voci dei fauni, spesso l’apparizione degli dei ha costretto qualunque persona che non sia del tutto sciocca o empia ad ammettere la presenza degli dei.

“Leonida”

Non possunt ignorari Graecorum clara opera in bello adversus persas acto.Iustum est praecipue Leonidam, fortem virum, Lacedaemoniorum regem memori oratione celebrare. Xerses enim, Perdarum dux, cum ingentibus copiis per asperas angustias in Graeciam penetrare optaverat. Sed Leonidas una cum paucis militibus viam artam et difficilem strenue tenebat. Diu pugnatum est et hostes saepe propulsi sunt, donec infamis proditoris auxilio occulta semita a Persis reperta est. Iam Graeci circumventi erant et omnes atroci proelio vitam amiserunt. Apud Thermopylas – ita appellatur regio, ubi proelium commissum erat – monumentum postea pisitum est: tam clari facinoris nobili fama grataque memoria Graeci sunt commoti.

Non si possono ignorare le famose imprese dei Greci nella guerra fatta contro i Persiani. E’ giusto soprattutto celebrare con un discorso riconoscente Leonida, uomo forte, re degli Spartani. Serse, infatti, condottiero dei Persiani, cercava di penetrare in Grecia con ingenti milizie attraverso difficili strettoie. Ma Leonida, insieme con pochi soldati, teneva valorosamente una via stretta e difficile. Si combatté a lungo e i nemici furono respinti spesso, finché con l’aiuto di un infame traditore non fu trovato dai Persiani un passaggio nascosto. I Greci erano stati ormai circondati e e persero tutti la vita in un terribile combattimento. Presso le Termopili, così si chiama quella regione dove era stato fatto il combattimento, poi fu posto un monumento: i Greci furono spinti dalla nobile fama e dalla gradita memoria di un’impresa tanto famosa.

“L’agricoltura presso i Romani”

Donec mores honesti fuerunt, antiqui Romani res rusticas amaverunt et coluerunt. Nobiles quoque cives inter agros vitam laeti agebant; humum arare vel agros serere turpe non putabatur. Senatus saepe viros ex agris vocavit ut rem publicam regerent exercitibusque imperarent. Quondam hostes ad Romam pervenerant; itaque consules Cincinnatum, virum frugi ac rei militaris peritum, ab aratro arcessiverunt ut dictator esset. Cincinnatus patriam liberavit et mox domum properavit ut iterum inter laeta pascua flaventesque segetes viveret placidus. Sed postea Romanis vita agrestis displicuit; agrorum cultum servis mandabant et Romae, in opulenta urbe, vitam molliter egerunt. Morum mutatio Romanis multorum malorum causa fuit.

Finché i costumi furono onesti, gli antichi romani amarono e coltivarono la vita agreste. Anche i nobili cittadini conducevano una vita felici tra i campi; non era considerato deplorevole arare il terreno o seminare i campi. Spesso il senato chiamava gli uomini dai campi affinché gestissero lo stato e conducessero l’esercito. Qualora i nemici giungevano a Roma; e così i consoli come Cincinnato, uomo saggio ed esperto dell’arte militare, lasciavano l’aratro per diventare dittatore. Cincinnato liberò la patria e ripristinò il costume della casa affinché vivesse di nuovo tranquillo tra i lieti pascoli e le bionde segete. Ma dopo la vita agreste dispiacque ai Romani; mandavano i servi a coltivare i campi e condussero una vita agiata, a Roma, nella ricca città. Il cambiamento di costumi fu la causa di molti mali dei Romani.

“Un furto sacrilego di Verre nel santuario di Cecere”

Sacrarium Cereris est apud Catinenses; in eo sacrario intimo signum fuit Cereris perantiquum, quod a viris non solum ingnorabatur cuiusmodi esset, sed putabatur ne esse quidem. Aditus enim in id sacrarium non est viris: sacra per mulieres et virgines confici solent. Verres iusserat hoc signum clam a quibusdam servis tolli ex illo religiosissimo atque antiquissimo loco. Potridie Cereri sacerdotes rem ad magistratus detulerant. Tum Verre, permotus illius negotii atrocitate, veritus ne sua culpa patefieret, effecit ut aliquis reperiretur, qui tanti sceleris argui posset. Ad eum delatum est nomen servi cuiusdam; ficti testes contra illum dati sunt. Senatus rem iudicavit. Cereris sacerdotes interrogatae sunt: illae responderunt servos Verri in eo loco visos esse. Itum est in consilium: servus ille innocens omnibus sententiis absolutes est.

Presso i Catanesi vi è il santuario di Cerere, in tale santuario vi fu una statua assai antica di Cerere, che dagli uomini era ignorata non solo di che genere fosse ma si considerava anche che non vi fosse nulla. Non vi è per gli uomini ingresso in tale santuario: le cose sacre erano solite essere compiute per mezzo di donne e vergini. Verre aveva ordinato che questa statua fosse tolto da alcuni servi di nascosto da quel religiosissimo e antichissimo luogo. Il giorno dopo i sacerdoti di Cerere avevano riportato la cosa ai magistrati. Allora Verre, mosso dall’atrocità di tale affare, per far sì che la sua colpa non fosse svelata, fece in modo che fosse trovato qualcuno che potesse essere incolpato di tale delitto. Fu riportato a questo il nome di un servo, sicuri testimoni vennero portati contro quello. Il senato lo giudicò colpevole. Le sacerdotesse di Cerere vennero interrogate: quelle risposero che i servi di Verre erano stati visti in quel luogo: si andò quindi in consiglio: quel servo innocente venne assolto da tutte le accuse.

“Prodigi nell’anno di morte di Tiberio Gracco”

Antequam Tiberius Gracchus occisus est, plebis tribunus tristia neglexit omina; cum in suis aedibus et in Capitolio sacrificabat, dira portendebantur et dum e domicilio suo discedit, sinistrum ad limen pedem offendit et decuissit pollicem, et corvi fragmentum tegulae ante pedes eius proiecerunt ex stillicidio. In lacu Romano lacte rivi manaverunt. Lunae terra ingenti spatio in profundum descendit et mox de caverna lacum reddidit. Ardeae terra pluit. Minturnis lupus vigilem laniavit et inter tumultum effugit. Romae bubo et alia avis ignota visa est. In aede Iunonis Reginae, cum clausae erant per biduum valvae, infantis vox audita. Scuta novo sanguine maculata sunt. Puella quadrupes exstitit. In Agro Ferentino androgynus genitus est et in flumen deiectus. Virgines tres novenae cecinerunt et urbem lustraverunt.

Prima che Tiberio Gracco fosse ucciso, come tribuno della plebe trascurò tutte le cose funeste; quando faceva sacrifici nella sua abitazione e sul Campidoglio, si preannunciavano cose terribili e mentre si allontanava da casa sua, colpì il piede sinistro sulla soglia e sbatté l’alluce, e dei corvi gettarono dal tetto un frammento di tegola davanti ai piedi di quello dopo una pioggerella. In un lago romano i corsi d’acqua grondarono di latte. A Luni la terra scese con grande distanza in profondità e ben presto fece un lago dalla cavità. Ad Ardea piovve terra. A Minturno un lupo sbranò una guardia e in mezzo alla confusione scappò. A Roma furono visti un gufo e un uccello sconosciuti. Nel tempio di Giunone Regina, quando le porte rimanevano chiuse per due giorni, si sentì la voce di un neonato. Gli scudi si macchiarono di sangue recente. Nacque una bambina con quattro piedi. Nell’Agro Ferentino fu generato un androgino e fu gettato in un fiume. Tre gruppi di nove vergini cantarono e purificarono la città.

“La morte di un cane preannuncia una vittoria”

Valerius Maximus in factorum et dictorum memorabilium libris multa memorabilia narravit, itaque factum singulare et maxime memorabile L.Paulo consuli evenit. Ubi ei bellum cum rege Perse erat et domum e curia revenerat filioam suam nomine Tertiam admodum parvulam invenit et eam tristem animadverit eam sic interrogavit “Cur in tuo ore maestitia est?” ei filia respondit “Persa periit”. Puella autem catellum nomine persam in deliciis habuerat et nunc ille decesserat. Arripuit igitur omen Paulus exque fortuito verbo certam spem clari triumphi animo praesumpsit.

Valerio Massimo nei libri degli eventi e dei detti narrò molte cose memorabili; perciò al console Lucio Paolo accadde un fatto singolare e massimamente memorabile. Quando faceva la guerra contro re Perseo, era tornato a casa dalla curia, trovò la sua figlioletta di nome Terzia, molto piccola, e la vide triste; così la interrogò: “Perché c’è tristezza sul tuo volto?”. La figlia gli rispose: “Perseo è morto”. Invero la fanciulla aveva avuto nelle grazie un cagnolino di nome Perseo ed ora quello era deceduto. Paolo apprese dunque il presagio e da quella parola fatale presuppose nella mente la concreta speranza di un trionfo insigne.

“Cattura di Giugurta”

Cum locus delectus et tempus constitutum esset ad colloquium, rex Bocchus Sullam modo, modo Iugurthae legatum appellabat, benigne habebat, idem eis promittebat. Illi pariter laeti ac spei bonae pleni erant. Sed nocte proxima ante diem colloquio decretum, Maurus amicos adhibuit ac statim removit secum ipse multa volvens, vultu et oculis et animo varius. Postremo Sullam arcessi iubet et ex illius sententia Numidae insidias tendit. Deinde, ubi dies advenit et ei nuntiatum est Iugurtham haud procul esse, cum paucis amicis et quatore nostro quasi honoris causa obvius procedit in tumulum, ita ut omnes illos conspiciant. Ad eundem tumulum Numida cum nonnulis necessariis suis, inermis, accedit ac statim, signo dato, eum simul invadunt milites. Ceteri obtruncantur, Iugurtha vinctus Sullae traditur et ab eo ad Marium deducitur.

Scelto il luogo e essendo stato deciso il tempo per il colloquio, il re Bocco chiamava sia Silla che il luogotenente di Giugurta, li trattava benevolmente e allo stesso modo ad essi faceva promesse. Quelli erano ugualmente lieti e pieni di buona speranza. Ma nella notte successiva prima del giorno deciso per il colloquio, Mauro convocò gli amici e subito dopo li allontanò da sè, meditando a lungo fra sé, pensando molte cose e cambiato nell’espressione del volto e degli occhi dell’animo. Alla fine, tuttavia, ordina che sia chiamato Silla e secondo il suo consiglio tende un agguato a Numida. Infine, quando viene il giorno e gli fu annunziato che Giugurta non era lontano, con pochi amici e col nostro questore gli va incontro su un’altura come per rendergli onore in modo che tutti quelli vedano. Su quell’altura Numida, con un gran numero di suoi amici, senz’armi si reca, e d’improvviso, dato il segnale, i soldati lo assalgono da tutte le parti contemporaneamente. Tutti gli altri sono trucidati; Giugurta, sconfitto, viene consegnato a Silla e da lui è condotto a Mario.

“Camillo e il maestro di scuola”

Dum M. Furius Camillus oppidum Falerios obsidet, ludi magister multos generosos pueros extra oppidum secum eduxit, velut ambulandi gratia. Inde ineptis verbis iter produxit, et paulatim inter vigilias ac denique in castra Romanorum discipulos duxit atque Camillo tradidit. Magnum praemium ob id a Romanis sperabat, nam tacite secum dicebat: “Si filios magistratuum Faliscorum Romanis tradam, tum ii indutias statim petent et Romanas copias intra moenia oppidi accipient”. Sed Camillus perfidiam ac dolum eius improbavit et: “Arma, inquit, non adversum inermos, sed adversum armatos Romani sumunt”; deinde perfidum magistrum nudatum pueris tradidit, virgasque eis dedit. Pueri eum verberabant, dum in oppidum ducunt. Statim Falisci, quorum oppidum Romani expugnare non potuerant, beneficio magis quam armis victi, portas Romanis aperuerunt.

Mentre M. Furio Camillo assediava la città di Faleri, un maestro elementare condusse con sé dei nobili bambini fuori dalla città, come per fare una passeggiata. Poi presentò il cammino con inopportune parole, e a poco a poco condusse gli alunni tra le sentinelle e infine nell’accampamento dei Romani e li consegnò a Camillo. Per questo sperava in un grande premio dai Romani, infatti diceva tra sé e sé in silenzio: “Se avrei consegnato ai Romani i figli dei magistrati Falisci, allora loro chiederanno subito una tregua e faranno entrare le truppe Romane dentro le mura della città”. Ma Camillo disapprovò la sua perfidia e il suo inganno e disse: “I Romani prendono le armi non contro i disarmati, ma contro gli armati”; quindi consegnò il perfido maestro denudato ai bambini, e diede loro dei bastoni. I ragazzi lo percossero, mentre lo conducevano in città. Subito i Falisci, la cui città i Romani non avevano potuto espugnare, vinti con il beneficio più che con le armi, aprirono le porte ai Romani.

“L’impresa di Teseo”

Cum Theseus, ut Minotaurum occideret, Cretam venisset, ibi mirabilem Graecum artificem, virum magni ingenii et omnibus artibus excellentem, invenit: hominis nomen Daedalus erat. Praeclarus artifex, regis Minois iussu, labyrinthum construxerat, immensum aedificium innumerabilibus conclavibus atque artis longisque faucibus praeditum. In labyrintho Minos Minotaurum secluserat, monstrum corpus humanum et caput taurinum habens. Ariadna, Minois filia, cum amore Thesei arderet, ut Theseus sine difficultate e labyrintho effugeret, viro dedit caput lanei fili, alterum caput manibus suis tenens. Itaque Theseus, cum Minotaurum gladio trucidavisset, filum iterum volvendo, exitum invenit et labyrinthum salvus reliquit.

Teseo, per uccidere il Minotauro, essendo venuto a Creta, qui trovò il mirabile artista dei Greci, uomo di grande senno e eccellente in tutte le arti: il nome dell’uomo era Dedalo. Artista illustre, per ordine di Minosse costruì un labirinto fornito con numerose stanze e con lunghe strettoie. Nel labirinto Minosse aveva chiuso il Minotauro, mostro di corpo umano e testa taurina. Arianna, figlia di Minosse, ardendo d’amore per Teseo, affinchè Teseo fuggisse senza alcuna difficoltà dal labirinto, diede all’uomo un gomitolo di lana, tenendo con le sue mani l’altro gomitolo, sciogliendo il filo via via, trovò la via di uscita e lasciò salvo il labirinto.

“L’oratore Demostene”

In Demosthene, Graecorum oratorum principe, tandum discendi studium fuit, ut tandem superaret impedimenta naturae diligentia atque industria. Ita balbus erat, ut rethoricae artis, quam discere cupiebat, primam littera non posset dicere; tamen perfecit exercitatione ut nullus orator eo melior putaretum. Deinde perduxit ad gratum auribus sonum vocem suam, quae propter exilitatem acerba erat. Laterum firmitate destitutus, obtinuit a labore eas vires quas corporis habitatus negaverat. Coniectis in os calcoli, summa voce multos versus pronuntiabat inambulans et ardua loca celeri gradu scandens. Sic diu adversus naturam pertinaciter pugnavit, ut victor discesserit et malignitatem eius superaverit.

In Demostene, principe degli oratori greci, ci fu tanto desiderio di apprendere, per superare infine le cose avverse della natura con diligenza e operosità. Era balbuziente così non potendo pronunciare la prima lettera desiderava apprendere l’arte della retorica; tuttavia portò a termine con l’esercizio tanto che nessun oratore era considerato migliore di lui. Poi migliorò il suono della sua voce per le orecchie, voce che per la tenuità era stridula. Sospeso per la robustezza dei fianchi, ottenne dal lavoro quelle forze che prima non aveva. Raccolti i sassi nella bocca, pronunciava con voce imponente molti versi passeggiando e scendendo con velocità i gradini di luoghi angusti. Così a lungo combattè tenacemente contro la natura per uscirne vincitore e superare la sua malignità.

Breviarium, VI, 17 (“Le guerre galliche”)

Anno urbis conditae sexcentesimo nonagesimo tertio C. Iulius Caesar, qui postea imperavit, cum L. Bibulo consul est factus. Decreta est ei Gallia et Illyricum cum legionibus decem. Is primus vicit Helvetios, qui nunc Sequani appellantur, deinde vincendo per bella gravissima usque ad Oceanum Britannicum processit. Domuit autem annis novem fere omnem Galliam, quae inter Alpes, flumen Rhodanum, Rhenum et Oceanum est et circuitu patet ad bis et tricies centena milia passuum. Britannis mox bellum intulit, quibus ante eum ne nomen quidem Romanorum cognitum erat, eosque victos obsidibus acceptis stipendiarios fecit. Galliae autem tributi nomine annuum imperavit stipendium quadringenties, Germanosque trans Rhenum adgressus inmanissimis proeliis vicit. Inter tot successus ter male pugnavit, apud Arvernos semel praesens et absens in Germania bis. Nam legati eius duo, Titurius et Aurunculeius, per insidias caesi sunt.

Nel 693 dopo la fondazione di Roma Caio Giulio Cesare, che in seguito comandò, fu eletto console con Lucio Bibulo. Gli si assegnarono la Gallia e l’Illiria, con dieci legioni. Egli per primo vinse gli Elvezi, che ora sono chiamati Sequani, in seguito vincendo attraverso violentissime battaglie giunse all’Oceano Britannico. Poi in nove anni sottomise quasi tutta la Gallia, che è compresa fra le Alpi, il fiume Rodano, il Reno e l’Oceano ed ha un perimetro di seimila miglia. Subito mosse guerra ai Britanni, ai quali prima di lui non era nemmeno noto il nome dei Romani, ed avendo accettato ostaggi da loro, trasformò i vinti in mercenari. Poi impose alla Gallia un riscatto annuo di 400 sesterzi a testa come tributo e, dopo aver attaccato i Germani oltre il Reno, vinse scontri durissimi. Fra tanti successi combattè male tre volte, una volta presso gli Arverni essendo presente, due volte in Germania essendo assente. Infatti i suoi due luogotenenti, Titurio e Arunculeio, furono uccisi in un’imboscata.

Breviarium, VI, 19 (“Inizio della guerra civile”)

Hinc iam bellum civile successit exsecrandum et lacrimabile, quo praeter calamitates, quae in proeliis acciderunt, etiam populi Romani fortuna mutata est. Caesar enim rediens ex Gallia victor coepit poscere alterum consulatum atque ita ut sine dubietate aliqua ei deferretur. Contradictum est a Marcello consule, a Bibulo, a Pompeio, a Catone, iussusque dimissis exercitibus ad urbem redire. Propter quam iniuriam ab Arimino, ubi milites congregatos habebat, adversum patriam cum exercitu venit. Consules cum Pompeio senatusque omnis atque universa nobilitas ex urbe fugit et in Graeciam transiit. Apud Epirum, Macedoniam, Achaiam Pompeio duce senatus contra Caesarem bellum paravit.

Dopo iniziò una guerra civile maledetta e deplorevole, con la quale, oltre alle sventure che successero nei combattimenti, anche il destino del popolo romano mutò. Cesare infatti, ritornando dalla Gallia vincitore, iniziò a chiedere un’altro consolato. Fu contraddetto dal console Marcello, da Bibulo, da Pompeo, da Catone e gli fu ordinato di tornare in città dopo aver sciolto gli eserciti. Per questo affronto da Rimini, dove aveva radunato i soldati, mosse verso la sua patria con l’esercito. I consoli, con Pompeo, tutto il senato e tutta la nobiltà fuggì dalla città e si trasferì in Grecia. Presso l’Epiro, la Macedonia e l’Acaia il senato preparò la guerra contro Cesare, con Pompeo come comandante.

“I Romani impegnati su più fronti”

M. Claudius Marcellus consul apud Nolam, ditissimam civitatem Campaniae, contra Hannibalem maxime strenuum Carthaginiensium ducem, bene pugnavit. Hannibal, ut copias suas augeret, permultas civitates Romanorum in Apulia et in Calabria occupavit. Tum etiam Philippus, rex Macedonum, ad Hannibalem legatos misit qui promiserunt plurima auxilia contra Romanos. Legatos, quos Philippus miserat, capiunt Romani et rem cognoscunt. Tum in Macedoniam M. Valerium Laevinum, mittunt, in Sardiniam, quae Romanos deseruerat et societatem fidelissimam cum Carthaginiensibus fecerat, T. Manlium Torquatum proconsulem. Ita in plurimis locis simul pugnant Romani: in Italia contra Hannibalem, in Hispaniis contra Hasdrubalem, fratrem Hannibalis, in Macedonia contra Philippum, in Sardinia contra Sardos et Carthaginienses.

Il console Marco Claudio Marcello combatté con successo presso Nola, città assai ricca della Campania, contro Annibale, il comandante valorosissimo dei Cartaginesi. Annibale, per accrescere le sue truppe, occupò moltissime città dei Romani in Puglia e in Calabria. Allora anche Filippo, re dei Macedoni, mandò presso Annibale degli ambasciatori che promisero moltissime milizie ausiliarie contro i Romani. I Romani prendono gli ambasciatori che Filippo aveva mandato e vengono a conoscenza del fatto. Allora in Macedonia mandano Marco Valerio Levino, in Sardegna, che aveva abbandonato i Romani e aveva stretto una alleanza assai fedele con i Cartaginesi, Tiberio Manlio Torquato in qualità di proconsole. Così i Romani combattono nello stesso tempo in moltissimi luoghi: in Italia contro Annibale, in Spagna contro Asdrubale, fratello di Annibale, in Macedonia contro Filippo, in Sardegna contro i Sardi e i Cartaginesi.