“Geografia dell’Europa”

Ab oriente Europa incipit a montibus Riphaeis, a flumine Tanai et Maeotica palude. In parte septentrionali latus Oceanus eam lambit, ingens aequor aquae salsae amaraeque; ab occidente usque ad Galliam Belgicam descendit et ad flumen Rhenum. In Oceano multa et mira animalia vivunt. Europa patet usque ad Danuvium, in parte meridionali situm. Danuvius flumen ad orientem vergit et in Pontum Euxinum influit. Ab orientali parte Europae Alania est, terra Alanorum; in medio regiones Dacia et Gothia, terrae Dacorum et Gothorum; deinde Germaniam invenimus, ubi primam partem Suebi tenent.

L’Europa inizia da Oriente dai monti Rifei, dal fiume Tanai e dalla palude Meotica. Nella parte settentrionale un lato dell’Oceano la lambisce, un ingente distesa di acqua salata e amara; discende da Occidente fino alla Gallia Belgica e al fiume Reno. Nell’Oceano vivono molti e meravigliosi animali. L’Europa si apre fino al Danubio, sito nella parte meridionale. Il fiume Danubio volge ad Oriente e confluisce nel Ponto Eleusino. Ad est dell’Europa vi è l’Alania, terra degli Alani, in mezzo le regione Dacia e Gozia, terre dei Daci e dei Gotici, poi troviamo la Germania, dove i Suebi tengono una prima parte.

“Alessandro si reca al tempio di Ammone”

Alexander, postquam a Gaza copias moverat, in regionem Aegypti, quam nunc Castra Alexandri vocant, pervenit. Deinde cum expedita delectorum manu Nilo amne vectus est. Nec sustinuerunt Alexandri adventum Perase, defectione quoque perterriti. Iamque haud procul Memphi erat; in urbis praesidio Mazaces, praetor Darei, relictus, aurum omne Alexandro omnemque regiam supellectilem tradidit. A Memphi Nilo flumine vectus, Alexander ad ultimas terras Aegypti penetrat et adire Iovis Hammonis oraculum statuit. Iter vix tolerabile erat: terra caeloque aquarum penuria est, steriles harenae iacent et intolerabilis aestus existit. Secundo amne Alexander descendit ad Mareotin paludem. Nulla arbor, nullum culti soli occurrebat vestigium.

Alessandro, dopo che aveva mosso le sue milizie giunse nella regione dell’Egitto che ora chiamano “campo di Alessandro” poi con uno scelto manipolo di armati alla leggera navigò sul fiume Nilo. I persiani non sostennero l’arrivo di Alessandro, atteriti anche dalle defezione. (Alessandro) era ormai non lontano da Menfi; nella città (era) a presidio Mazace, pretore di Dario, rimasto, consegnò ad Alessandro tutto l’oro e tutto l’arredamento regio. Dopo aver navigato da Menfi sul fiume Nilo, Alessandro penetra nelle ultime terre dell’Egitto e ordinò di visitare l’oracolo di Ammone. Il cammino era appena tollerabile: in terra e in cielo vi era mancanza d’acqua, languivano gli sterili deserti e c’era un calore intollerabile. Alessandro discese dal secondo fiume verso la palude di Mareota. Non appariva nessun albero, nessuna traccia di suolo coltivato.

“Beneficiare malgrado gli ingrati”

Is perdit beneficia, qui cito se perdidisse credit. At qui instat, et onerat priora sequentibus, etiam ex duro et immemori pectore gratiam extundit. Non audebit adversus multa oculos attollere; quocumque se convertit, memoriam suam fugiens, ibi te videat: beneficiis tuis illum cinge. Quorum quae vis, quaeue proprietas sit, dicam, si prius illa, quae ad rem non pertinent, transilire mihi permiseris, quare tres Gratiae, et quare sorores sint, et quare manibus implexis, quare ridentes, iuvenes, et virgines, solutaque ac pellucida veste. Alii quidem videri volunt unam esse, quae det beneficium: alteram, quae accipiat: tertiam, quae reddat. Alii tria beneficiorum genera, promerentium, reddentium, simul et accipientium reddentiumque. Sed utrumlibet ex istis iudicaverim, quid ista nos iuvat scientia? Quid ille consertis manibus in se redeuntium chorus? Ob hoc, quia ordo beneficii per manus transeuntis nihilominus ad dantem revertitur, et totius speciem perdit, si usquam interruptus est: pulcherrimus, si cohaesit, et vices servat. Ideo ridentes: est aliqua tamen maioris dignatio, sicut promerentium. Vultus hilares sunt, quales solent esse qui dant, vel accipiunt beneficia. Iuvenes: quia non debet beneficiorum memoria senescere. Virgines: quia incorrupta sunt, et sincera, et omnibus sancta, in quibus nihil esse alligati debet, nec adscripti; solutis itaque tunicis utuntur: pellucidis autem, quia beneficia conspici volunt.

Questo non riceverà i benifici che si aspetta, colui che crede di averli persi troppo presto. Ma colui che insiste, e accumula benefici nuovi ai primi, riuscirà a ricevere gratitudine anche dal petto più duro e immemore. L’ingrato non oserà sollevare gli occhi contro molti, ovunque scappi, fuggendo dalla sua memoria, lì possa vederti: cerchialo con i tuoi benefici. Dirò quale sia la forza o la proprietà di questi (i benefici), se tu prima mi avrai permesso di trattare di quelle cose che non riguardano ciò di cui stiamo parlando, perchè le Grazie siano tre, e perchè siano sorelle, e perchè se ne stiano con le mani intrecciate, perchè siano sorridenti, giovani, e vergini, e la veste sia slegata e trasparente. Alcuni vogliono che sembri che la prima sia quella che da il beneficio, la seconda, quella che lo riceve, la terza quella che lo restituisce. Altri (vogliono che sembri) che ci (siano) tre generi di benefici, quelli di coloro che se lo sono meritati (lett: dei meritevoli), quelli di coloro che ricambiano (dei “ricambiatori”), quelli di quelli che contemporaneamente li ricevono e ricambiano (insieme dei riceventi e dei ricambiatori). Dunque giudica quale di questi sia vero: a che cosa ci giova questa conoscenza? Che senso ha quel coro che danza tenendosi per mano? Per questo, perchè la natura del beneficio passando di mano in mano non ritorna a colui che l’ha dato in minor valore, e perde la natura di intero, se mai viene interrotto: rimane bellissimo, se continua e garantisce la scambievolezza. In esso vi è tuttavia una posizione di primo piano come di coloro che fanno il beneficio. I volti sono felici, come sono soliti essere coloro che danno, o ricevono benefici. Giovani perchè non deve invecchiare il ricordo dei benefici, vergini perchè i benefici sono incorrotti e puri e sacri per tutti; e in questi non è bene che vi sia nulla che crei vincoli ne che li stringa: tuttavia usano tuniche sciolte, trasparenti, perchè i benefici vogliono essere visti.

De Beneficiis, III, 20

Errat, si quis existimat servitutem in totum hominem descendere: pars melior eius excepta est. Corpora obnoxia sunt, et adscripta dominis: mens quidem sui iuris; quae adeo libera et vaga est, ut ne ab hoc quidem carcere cui inclusa est teneri queat, quo minus impetu suo utatur, et ingentia agat, et in infinitum comes coelestibus exeat. Corpus itaque est, quod domino fortuna tradicit.
Hoc emit, hoc vendit: interior illa pars mancipio dari non potest. Ab hac quidquid venit, liberum est; non enim aut nos omnia iubere possumus, aut in omnia servi parere coguntur: contra rempublicam imperata non facient; nulli sceleri manus commodabunt.

Se qualcuno pensa che la schiavitù riguardi l’uomo nella sua totalità, sbaglia: la sua parte migliore ne è esclusa. I corpi sono soggetti e assegnati ai padroni, ma indipendente è la mente, che è libera e vagante a tal punto che nemmeno dal carcere, nel quale è rinchiusa, possa essere trattenuta dall’usare il suo ardore e dal compiere cose immense e dal librarsi all’infinito come compagna dei celesti. Dunque è il corpo, quello che la sorte assegna ad un padrone.
Questo compra, questo vende: quella parte più profonda non può essere venduta. Tutto ciò che da questa proviene, è libero; nè infatti noi possiamo ordinare ogni cosa, nè gli schiavi sono costretti ad obbedire in tutto e per tutto; non eseguiranno ordini contro lo stato, non si presteranno ad alcun crimine.

De Beneficiis, I, 7

Si beneficia in rebus, non ipsa benefaciendi voluntate consisterent, eo maiora essent, quo maiora sunt, quae accipimus. Id autem falsum est; nonnunquam magis nos obligat, qui dedit parua magnifice; qui regum aequauit opes animo; qui exiguum tribuit, sed libenter: qui paupertatis suae oblilus est, dum meam respicit; qui non voluntatem tantum iuvandi habuit, sed cupiditatem; qui accipere se putavit beneficium, quum daret; qui dedit tanquam recepturus, recepit tanquam non dedisset; qui occasionem, qua prodesset, et occupavit et quaesivit. Contra ingrata sunt, ut dixi, licet re ac specie magna videantur, quae danti aut extorquentur, aut excidunt, multoque gravius uenit, quod facili, quam quod plena manu datur: exiguum est quod in me contutit, sed amplius non potuit. At hic quod dedit, magnum est: sed dubitavit, sed distulit, sed quum daret, gemuit, sed superbe dedit, sed circumtulit, et placere ei, cui praestabat, noluit; ambitioni dedit, non mihi.

Se i benefici consistessero nelle cose donate e non nella volontà stessa di fare il bene, sarebbero tanto maggiori quanto maggiori sono i doni che riceviamo. Questo, invece, è falso: non di rado ci sentiamo maggiormente in debito con chi ci ha donato poco, ma con generosità, con chi eguagliava le ricchezze dei re con la disposizione d’animo, con chi ci ha reso un servizio minimo, ma di buon animo, con chi ha dimenticato la sua povertà guardando la mia, con chi ha avuto non soltanto la volontà, ma quasi la brama di aiutarmi, con chi ha ritenuto di ricevere egli stesso un beneficio facendolo a me, con chi ha ricevuto il contraccambio come se non avesse mai donato, con chi ha cercato e ha colto l’occasione per essermi utile. Invece, non sono graditi, come ho detto, benché sembrino di valore e molto belli, quei doni che vengono quasi carpiti o che cadono di mano al donatore, poiché risulta molto più gradito un dono che giunge spontaneamente di uno a piene mani. E’ poco ciò che costui mi ha dato, ma non avrebbe potuto darmi di più; invece, è molto ciò che mi ha dato quell’altro, ma ha esitato, ha rinviato, si è lamentato nel dare, ha dato con arroganza, ha fatto sapere a tutti di quel dono e ha voluto riuscire gradito, ma non a colui al quale l’offriva; ha donato per la sua ambizione, non per me.

De Beneficiis, I, 6

Quid est ergo beneficium? Benevola actio tribuens gaudium, capiensque tribuendo, in id quod facit prona, et sponte sua parata. Raque non quid fiat, aut quid detur, refert, sed qua mente: quia beneficium non in eo quod fit aut datur, consistit, sed in ipso dantis aut facientis animo. Magnum autem esse inter ista discrimen, vel ex hoc intelligas licet, quod beneficium utique bonum est: id autem quod fit, aut datur, nec bonum, nec malum est. Animus est, qui parua extollit, sordida illustrat, magna et in pretio habita dehonestat: ipsa, quae appetuntur, neutram naturam habent, nec boni, nec mali; refert, quo ille rector impellat, a quo forma datur rebus. Non est ergo beneficium ipsum, quod numeratur, aut traditur; sicut nec in victimis quidem, licet opimae sint, auroque praefulgeant, deorum est honos; sed pia ac recta voluntate venerantium. Itaque boni etiam farre ac fitilla religiosi sunt; mali rursus non effugiunt impietatem, quamuis aras sanguine multo cruentaverint.

Che cos’è, dunque, il beneficio? Un’azione benevola che procura gioia e gioisce nel procurarla, accompagnata da una inclinazione e da una disposizione d’animo a compierla. Perciò, non importa ciò che si fa o si dà, ma con quale intenzione, per. ché il beneficio consiste non in ciò che si fa o si dà, ma proprio nella disposizione d’animo di chi dà odi chi fa. Che ci sia una gran differenza tra queste cose, si può capire anche dal fatto che il beneficio è in ogni caso un bene, mentre ciò che si fa o si dà non è né un bene né un male. E la disposizione d’animo che rende grandi le piccole cose, nobilita le cose meschine, rende misere le cose considerate importanti e pregiate; persino le cose che noi desideriamo hanno una natura indifferente, né di bene né di male: ciò che conta è dove le orienta colui che le governa e che dà loro forma. L’essenza del beneficio non consiste in ciò che si possiede o che passa da una mano all’altra, così come l’onore reso agli dèi non consiste affatto nelle vittime, ma nella volontà onesta e religiosa di chi li venera. Pertanto, ai buoni basta un po’ di farro e del vasellame di terracotta per mostrare la loro devozione; i malvagi, invece, non sfuggono all’empietà, per quanti altari bagnino di sangue.

“Nell’arena”

Venationes in magnis amphitheatris Romanorum animos excitabant. In arenam cum ferocibus feris gladiatores descendebant, pugionibus,venabulis et hastis armati. Saeva animalia instigabant et unguium ac faucium incursiones summa cum peritia et calliditate vitabant; semper crudelem mortem oppetebant. Postremo gladiatores verbera letalia impingebant et ferae ad virorum pedes procumbebant, magno populi clamore et admiratione. Aliquando praetores inermes damnatos capite ad bestias mittebant in arenam: ita ferocia animalia hominum corporibus cibum capessebant.

I giochi nei grandi anfiteatri eccitavano gli animi dei Romani. I gladiatori scendevano nell’arena con animali feroci armati di pugnali, spiedi da caccia e lance. Istigavano gli animali e coraggiosamenti evitavano gli assalti delle unghie e delle fauci, sempre andavano incontro ad una morte crudele. Infine i gladiatori li percuotevano con bastoni mortali e le belve cadevano ai piedi degli uomini, con grande clamore ed ammirazione del popolo. Qualche volta i pretori mandavano nell’arena, contro le bestie, uomini inermi condannati a morte: così i feroci animali si cibavano con i corpi degli uomini.

De Beneficiis, III, 18

Quanquam quaeritur a quibusdam, sicut ab Hecatone, an beneficium dare seruus domino posuit? Sunt enim qui ita distinguunt, quaedam beneficia esse, quaedam officia, quaedam ministeria; beneficium esse, quod alienus det: alienus est, qui potuit sine reprehensione cessare; officium esse filii, uxoris, et earum personarum, quas necessitudo suscitat, et ferre opem iubet; ministerium esse serui, quem conditio sua eo loco posuit, ut nihil eorum qui praestat, imputet superiori. Praeterea seruos qui negat dare aliquando domino beneficium, ignarus est iuris humani; refert enim cuius animi sit, qui praestat, non cuius status. Nulli praeclusa uirtus est: omnibus patet, omnes admittit, omnes inuitat, ingenuos, libertinos, seruos, reges, et exsules; non eligit domum, nec censum: nudo homine contenta est. Quid enim erat tuti aduersus repentina; quid animus magnum promitteret sibi, si certam uirtutem fortuna mutaret? Si non dat beneficium seruus domino, nec regi quisquam suo, nec duci suo miles. Quid enim interest, quali quis teneatur imperio, si summo tenetur? Nam si seruo, quo minus in nomen meriti perueniat, necessitas obest, et patiendi ultima timor, idem istud obstabit, et ei qui regem habet, et ei qui ducem; quoniam, sub dispari titulo, paria in illos licent. Atqui dant regibus suis, dant imperatoribus beneficia: ergo et dominis. Potest seruus iustus esse, potest fortis, potest magnanimus: ergo et beneficium dare potest. Nam et hoc uirtutis est; adeoque dominis serui beneficia possunt dare, ut ipsos saepe beneficii sui fecerint.

Tuttavia viene chiesto a qualcuno, come a Ecatone, se un servo possa fare beneficio al padrone. Ci sono coloro che distinguono così, che cosa siano i benefici, che cosa i doveri, che cosa i servizi; il beneficio è, ciò che un altro dà: l’estraneo è chi avrebbe potuto astenersi senza rimprovero; il dovere è proprio del figlio, della moglie e di quelle persone che la parentela spinge e ordina che compino il dovere; il servizio è proprio del servo, che la sua condizione lo pose in quella posizione tale per cui non può attribuirsi come un merito, nei confronti di chi gli è superiore, nessuna di queste cose che fa come un di più. E’ ignaro dei diritti umani colui che dice che il servo non dà mai benefici al padrone; importa infatti di quale animo sia chi fa il servizio non di che livello sociale. La virtù non è preclusa a nessuno; sopporta tutti, ammette tutti, invita tutti, sia liberi sia liberti sia servi sia re sia esuli; non preferisce casa ne censo: è contenta del nudo uomo. Che cosa ci sarebbe di sicuro contro gli avvenimenti improvvisi, che cosa prometterebbe a se stesso l’animo di grande, se la fortuna mutasse la certa virtù? Se il servo non desse beneficio al padrone, neppure qualcuno potrebbe darlo al proprio re, ne il soldato al suo comandante; cosa infatti interessa chi tiene quale potere, se tutto è tenuto da un sommo potere? Infatti se la costrizione e l’estremo timore di sopportare le dure punizioni, si oppone a che il servo possa diventare un benefattore, allo stesso modo questo impedirà anche a colui che ha un re e a colui che ha un condottiero, anche se sotto un nome diverso, anche a questi sono permesse le stesse cose. Eppure danno benefici ai loro re, ne danno ai loro comandanti: quindi anche ai padroni. Il servo può essere giusto, può essere coraggioso, può essere di grande animo: quindi può dare beneficio. Infatti anche ciò fa parte della virtù. Quindi a tal punto i servi possono dare benefici ai padroni che spesso sono fatti grandi dai loro benefici.

“Una questione complessa nella fase della confutazione”

Haec sunt omnia ingeni vel mediocris, exercitationis autem maximae; artem quidem et praecepta dumtaxat hactenus requirunt, ut certis dicendi luminibus ornentur. Itemque illa, quae sunt alterius generis, quae tota ab oratore pariuntur, excogitationem non habent difficilem, explicationem magis inlustrem perpolitamque desiderant; itaque cum haec duo nobis quaerenda sint in causis, primum quid, deinde quo modo dicamus, alterum, quod totum arte tinctum videtur, tametsi artem requirit, tamen prudentiae est paene mediocris quid dicendum sit videre; alterum est, in quo oratoris vis illa divina virtusque cernitur, ea, quae dicenda sunt, ornate, copiose varieque dicere. Qua re illam partem superiorem, quoniam semel ita vobis placuit, non recusabo quo minus perpoliam atque conficiam – quantum consequar, vos iudicabitis – quibus ex locis ad eas tris res, quae ad fidem faciendam solae valent, ducatur oratio, ut et concilientur animi et doceantur et moveantur. Ea vero quem ad modum inlustrentur, praesto est, qui omnis docere possit, qui hoc primus in nostros mores induxit, qui maxime auxit, qui solus effecit.

Nessuno di essi richiede un cervello eccezionale, ma tutti però richiedono un continuo esercizio; richiedono anche la conoscenza, delle norme della retorica, ma solo per essere rivestiti con gli ornamenti dello stile. Così pure le prove del secondo genere, che sono tutte create dall’oratore, non presentano difficoltà d’invenzione, ma piuttosto di esposizione, un’esposizione, dico, che sia chiara e forbita; poiché due dunque sono gli scopi che ci dobbiamo prefiggere nelle cause, uno riguardante che cosa e l’altro in che modo parliamo, per il primo, che sembra dipendere tutto dai precetti della retorica, utile, certo, lo studio, ma basta avere una intelligenza comune, per sapere che cosa bisogna dire; il secondo è quello in cui spiccano la forza incomparabile e l’ingegno dell’oratore consiste nel parlare con stile ornato, copioso e vario. Poiché a voi così piace, io non mi rifiuterò di ifiustrare e trattare a fondo quel primo punto in quanto ai risultati, giudicherete voi – cioè per quali vie il discorso possa produrre quei tre effetti, che soli sono capaci di produrre la persuasione, cioè il cattivarsi la simpatia degli ascoltatori, l’istruirli e il commuoverli. In quanto poi all’arte di abbellirle stilisticamente, c’è qui con noi un uomo che può farci da maestro, colui che introdusse per primo tra questo metodo, colui che lo portò alla massima perfezione, il solo che lo seppe realizzare.

“Serenità d’animo di Alessandro in punto di morte”

Quarto die Alexander indubitatam mortem sentiens agnoscere se fatum domus maiorum suorum ait, nam plerosque Aeacidarum intra XXX annum defunctos. Tumultuantes deinde milites insidiisque perire regem suspicantes ipse sedavit eosque omnes, cum prolatus in editissimum urbis locum esset, ad conspectum suum admisit osculandamque dexteram suam flentibus porrexit. Cum lacrimarent omnes, ipse non sine lacrimis tantum, verum sine ullo tristioris mentis argumento fuit, ut quosdam inpatientius dolentes consolatus sit, quibusdam mandata ad parentes eorum dederit: adeo sicuti in hostem, ita et in mortem invictus animus fuit. Dimissis militibus circumstantes amicos percontatur, videanturne similem sibi reperturi regem. Tacentibus cunctis tum ipse, ut hoc nesciat, ita illud scire vaticinarique se ac paene oculis videre dixit, quantum sit in hoc certamine sanguinis fusura Macedonia, quantis caedibus, quo cruore mortuo sibi parentatura. Ad postremum corpus suum in Hammonis templum condi iubet. Cum deficere eum amici viderent, quaerunt, quem imperii faciat heredem. Respondit dignissimum.

Al quarto giorno Alessandro, avvertendo come certa la morte, disse di riconoscere il destino della casa dei suoi antenati, infatti la gran parte degli Ecidi erano morti entro il trentesimo anno. Poi egli stesso calmò i soldati che si agitavano e sospettavano che il re morisse per un complotto e, dopo essersi portato nel luogo più elevato della città, li ammise tutti al suo cospetto e porse a loro che piangevano la sua destra per baciarla. Mentre tutti piangevano, egli rimase non solo senza lacrime, ma addirittura senza alcun atteggiamento di un animo troppo triste, così che in modo quasi impassibile consolò alcuni, ad altri diede incarichi per i loro genitori: a tal punto fu indomito l’animo così contro il nemico come anche in morte. Congedati i soldati chiese agli amici che lo circondavano se pensavano che avrebbero trovato un re simile a lui. Giacché tutti tacevano allora egli stesso, pur non sapendolo, disse di conoscere e prevedere e vedere quasi con gli occhi quanto sarebbe stata distrutta la Macedonia in questa battaglia di sangue, con che grandi stragi, con quale sangue lo avrebbero celebrato morto. All’estremo ordina che il suo corpo sia composto nel tempio di Ammone. Vedendo gli amici che egli veniva meno gli domandano chi costituisca erede dell’impero. Risponde: quello più degno.

“Aspro combattimento fra i Macedoni e i Barbari”

Quarto die Alexander pervenit ad oppidum, quod in regno erat Sambi. Nuper Sambus se dediderat, sed oppidani, qui permagni libertatem suam faciebant, clauserant portas. Eorum paucitate contempta, Alexander quingentos suorum moenia subire iussit, iisque imperavit ut, sensim recedentes, elicerent extra murum hostem. Sciebat enim hostem Macedones insecuturum esse, si eos fugere crederet. Milites igitur, sicut iussi erant, lacessito hoste, subito terga verterunt. Eos barbari effuse sequentes, in alios, inter quos ipse Alexander erat, incidunt. Renovatum ergo proelium est: ex tribus milibus hostium sescenti caesi sunt, mille capti, reliqui intra moenia confugerunt. Sed Macedonum victoria laeta non fuit: barbari enim veneno tinxerant gladios.

Al quarto giorno Alessandro giunge alla città, che era nel regno di Sambo. Da poco Sambo era fuggito, ma i cittadini, che tenevano in grandissima considerazione la propria libertà, avevano chiuso le porte. Disdegnando l’esiguo numero di quelli, Alessandro comandò a cinquecento dei suoi di andare sotto le mura, e comandò loro che, allontanandosi a poco a poco, attraessero il nemico fuori dalle mura. Sapeva infatti che il nemico avrebbe inseguito i Macedoni, se pensava che fuggissero. I soldati, dunque, così come erano stati comandati, provocato il nemico, subito voltarono le spalle (fuggirono). I barbari, segueno quelli alla rinfusa, si imbattono negli altri, tra i quali vi era lo stesso Alessandro. Dunque viene ricominciato il combattimento: furono uccisi 3600 nemici, mille (fatti) prigionieri, gli altri fuggirono dentro le mura. Ma la vittoria dei Macedoni non fu felice: i barbari infatti avevano intinto le spade nel veleno.

De Architectura, II, 2

Ergo cum propter ignis inventionem conventus initio apud homines et concilium et convictus esset natus, et in unum locum plures convenirent habentes ab natura praemium praeter reliqua animalia, ut non proni sed erecti ambularent mundique et astrorum magnificentiam aspicerent, item manibus et articulis quam vellent rem faciliter tractarent, coeperunt in eo coetu alii de fronde facere tecta, alii speluncas fodere sub montibus, nonnulli hirundinum nidos et aedificationes earum imitantes de luto et virgulis facere loca, quae subirent. Tunc observantes aliena tecta et adicientes suis cogitationibus res novas, efficiebant in dies meliora genera casarum. Cum essent autem homines imitabili docilique natura, cotidie inventionibus gloriantes alius alii ostendebant aedificiorum effectus, et ita exercentes ingenia certationibus in dies melioribus iudiciis efficiebantur. Primumque furcis erectis et virgulis interpositis luto parietes texerunt. Alii luteas glaebas arefacientes struebant parietes, materia eos iugumentantes, vitandoque imbres et aestus tegebant harundinibus et fronde. Posteaquam per hibernas tempestates tecta non potuerunt imbres sustinere, fastigia facientes, luto inducto proclinatis tectis, stillicidia deducebant.

Dunque, in seguito alla scoperta del fuoco, tra gli uomini ebbe inizio il rapporto e la convivenza e si incontravano in un solo luogo parecchi di questi esseri che avevano dalla natura, rispetto agli altri animali, il privilegio di camminare non proni ma eretti e di notare la bellezza del mondo e degli astri, e, allo stesso modo, di maneggiare con le articolazioni e le mani qualunque cosa volessero, in quegli incontri cominciarono alcuni a farsi dei ripari con fronde, altri ad aprirsi grotte sotto i monti, alcuni a farsi dei rifugi di fango e di ramoscelli, sotto i quali ripararsi, imitando i nidi e le edificazioni delle rondini. Allora, osservando i ripari altrui e aggiungendo innovazioni con le loro inventive, miglioravano giorno per giorno i tipi di abitazione. Ma, gli uomini essendo per natura imitatori e ammaestrabili, ogni giorno gloriandosi delle (loro) invenzioni si mostravano l’un l’altro i risultati delle (loro) costruzioni e così, esercitando l’ingegno con le emulazioni, miglioravano di giorno in giorno nella capacità di ragionare. E dapprima coprirono le pareti con pali verticali e con ramoscelli interposti nel fango. Altri costruivano le pareti facendo essiccare zolle di fango e tenendole insieme con legno e per evitare piogge e caldo le coprivano di canne e di fogliame. Ma poiché durante il maltempo invernale (quei) tetti non poterono resistere alle piogge, li costruivano in pendenza e ricoprendo di fango i tetti spioventi, facevano scendere le acque piovane.

Carme 72 (“Dicevi un tempo”)

Dicebas quondam solum te nosse Catullum, Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem. Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam, sed pater ut gnatos diligit et generos. Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror, multo mi tamen es vilior et levior. Qui potis est? inquis, quod amantem inuria talis Cogit amare magis, sed bene velle minus.

Una volta dicevi che facevi l’amore solo con Catullo, Lesbia, e che al posto mio non volevi abbracciare (neppure) Giove. Ti amai, allora, non tanto come il volgo (ama) un’amante, ma come un padre ama i figli e i generi. Adesso so chi sei: perciò, anche se brucio di una fiamma più violenta, sei per me molto più vile e spregevole. “Com’è possibile?”, dici. Perché un’offesa del genere costringe un amante ad amare di più, ma a voler bene di meno.

“La contesa per le armi di Achille”

Hectore supulto, cum Achilles circa moenia Troianorum vagaretur ac diceret se solum Troiam expugnasse,Apollo iratus, Alexandrum Parin se simulans, talum, quem mortalem habuisse dicitur, sagitta percussit et occidit. Achille occiso ac supulturae tradito, Aiax Telamonius, quod frater patruelis eis fuit, postulavit a Danais ut ama sibi Achillis darent; quae ira Minervae ei abiurgata sunt ab Agamemnone et Menelao, et Ulixi data. Aiax, iniuria accota, per insaniam pecora sua et se ipsum vulneratum occidit eo gladio quem ab Hetore muneri accepit dum cum eo in acie contendit.

Dopo la sepoltura di Ettore, Achille si aggirava attorno alle mura di Troia dicendo che a lui solo si doveva la rovina della città; allora Apollo, adirato, assunte le sembianze di Paride, lo colpì al tallone, che si dice fosse la sua sola parte mortale, e lo uccise. Dopo la morte e i funerali di Achille, Aiace Telamonio chiese ai Danai di avere le armi di Achille, dal momento che era suo cugino. Ma, a causa dell’ira di Minerva, esse gli furono rifiutate da Agamennone e Menelao, che le diedero a Ulisse. Aiace, furibondo, in un accesso di follia uccise le sue greggi e si colpì a morte con la stessa spada che aveva ricevuto in dono da Ettore dopo che essi si erano affrontati a duello.

“La morte di Dario”

Darius iam moriturus erat. Tum vero satellites eius, qui regis salutem etiam periculis vitae tueri debebant, dilapsi sunt, rati se impetum tot hostium castra adorientium sustinere non posse; hostes enim iam adventare arbitrabantur. Ingens ergo in tabernaculo solitudo erat, cicumstantibus regem paucis spadonibus quia quo discederent non habebant. At ille, remotis arbitris, diu aliud atque aliud consilium animo volutabat. Iamque solitudinem, quam paulo ante pro solacio petiverat, perosus, Bubacen spadonem vocari iussit. Quem intuens, dixit: “Ite, consulite vobis, fide regi vestro, ut oportebat, exhibita. Ego hic legem fati mei expecto”. Post hanc vocem spado, miratus quid rex dixisset, primo moratus est; deinde gemitu non solum tabernaculum sed etiam castra complevit. Irrumpunt deinde alii laceratisque vestibus, lugubri et barbaro ululatu regem deplorare incipiunt.

Dario stava ormai per morire allora le sue guardie del corpo che dovevano in verità ancora vigilare sulla salvezza del re anche a rischio della vita si dileguarono, credendo di non poter sostenere l’impeto di tanti nemici che assalivano l’accampamento, i nemici infatti già cominciavano ad avvicinarsi. Quindi nella tenda vi era una grande desolazione, con pochi eunuchi che stavano intorno al re, poichè non avevano dove fuggire. Ma questi, allontanati i presenti, meditava a lungo nel suo animo ora l’una ora l’altra decisione. Quindi avendo in odio la solitudine che poco prima aveva invocato come sollievo, ordinò che fosse chiamato l’eunuco Bubace. Fissandolo disse: “Andate (e) pensate a voi stessi, dopo aver dimostrato fino all’ultimo la fedeltà al vostro re”. Io attendo qui la legge del mio destino”. Dopo queste parole, meravigliato di che cosa il re aveva detto, prima si trattenne, poi (l’eunuco) fece risuonare il suo lamento non solo attraverso la tenda ma per tutto il campo. Accorsero poi gli altri che strappatisi gli abiti iniziarono a piangere il re con un lamento lugubre e barbarico.

Factorum Et Dictorum Memorabilium, III 7 ext 1 (“De aestimatione sui”)

Ne Euripides quidem Athenis arrogans visus est, cum postulante vi populo ut ex tragoedia quandam sententiam tolleret progressus in scaenam dixit se, ut eum doceret, non ut ab eo disceret, fabulas conponere solere. laudanda profecto fiducia est, quae aestimationem sui certo pondere examinat, tantum sibi adrogans, quantum a contemptu et insolentia distare satis est. itaque etiam quod Alcestidi tragico poetae respondit probabile. apud quem cum quereretur quod eo triduo non ultra tres versus maximo inpenso labore deducere potuisset, atque is se centum perfacile scripsisse gloriaretur, ‘sed hoc’ inquit ‘interest, quod tui in triduum tantum modo, mei vero in omne tempus sufficient’: alterius enim fecundi cursus scripta intra primas memoriae metas conruerunt, alterius cunctante stilo elucubratum opus per omne aevi tempus plenis gloriae velis feretur.

Neanche Euripide diede impressione di arroganza agli Ateniesi, quando – allorchè il pubblico gli chiese di espungere un passaggio da una tragedia – avanzando sul palco, affermò ch’egli era solito comporre opere teatrali per insegnare al popolo e non per essere da esso edotto. Certamente è degna di lode una fiducia, che valuta la propria bravura con metro esatto e che tanto è pretenziosa di sè, quanto basta a non scadere nel disprezzo e nell’insolenza. Pertanto degno d’approvazione anche ciò che (Euripide) ribattè al poeta tragico Alcestide. Poichè (Euripide) si lamentava con lui per non esser riuscito a cavar fuori più di tre versi in un lasso di tempo di tre giorni, pur sforzandosi molto, mentre quello si vantava di averne composto un centinaio senza alcun sforzo, (Euripide) controbattè: “Ecco la differenza: i tuoi versi dureranno solo tre giorni, i miei saranno eterni”. E infatti, le opere dell’uno (Alcestide) – (autore) prolifico – sono naufragati subito nel dimenticatoio, mentre l’opera dell’altro (Euripide) – pensata con stile esitante – giungeranno a gonfie vele alla gloria attraverso il trascorrere infinito del tempo.

“Ti condanno perche mi secca la tua buona fama”

Aristides cum Themistocle multos annos de principatu contendit. In his viris est quanto apud Athenienses eo tempore eloquentia antestaret innocentiae. Nam, quamvis adeo excelleret Aristides absinentia ut Iustus apellatus sit, tam vehementi eloquentia accusatus est ut populus eum exsilio decem annorum multaverit. Cum autem in iudicio Aristides vidisset quendam ex suis civibus in tabula scribentem ut ex patria pelleretur, quaevisit ab eo quid Aristides facinoris commisisset cur in exilium esset eiciendus. Cui ille respondit se Aristides ignorare neque unquam vidisse, sed sibi displicere quod praeter ceteros Iustus appelaretur. Sic suffragis populi in exsilium pulsus est, sed sexto anno postquam expulsus erat, in patriam revocatus est et dux fuit in proelio apud Plateas, quo Mardonius Persarum praefectus occisus est.

Aristide contese il potere a Temistocle per molti anni. In questi uomini si trova di quanto prevalesse a quel tempo presso gli Ateniesi il saper parlare sull’onestà. Infatti, benchè Aristide eccellesse tanto in moderazione, da essere stato chiamato ‘il Giusto’, fu accusato con una così violenta eloquenza che il popolo lo condannò ad un esilio di dieci anni. Avendo poi Aristide visto, durante il processo, un tale dei suoi concittadini, che scriveva su un coccio che fosse cacciato dalla patria, gli chiese quale grave azione avesse commesso, per cui dovesse essere cacciato in esilio. E a lui quello rispose che non conosceva Aristide nè l’aveva mai visto, ma non gli garbava il fatto che fosse chiamato ‘il Giusto’ davanti agli altri. Così fu cacciato in esilio con i voti del popolo, ma il sesto anno (sei anni dopo) dopo che era stato cacciato, fu richiamato in patria e fu comandante nella battaglia di Platea, nella quale Mardonio, comandante dei Persiani, fu ucciso.

“Valerio Corvino”

Bello contra Gallos, cum Romani quieti in castris tempus tererent, Gallus quidam, magnitudine et armis insignis, ex acie processit et, cum silentium omnibus imposuisset, unum e Romanis provocavit ut secum ferro decerneret. Erat tum in castris tribunus militum M. Valerius, qui certamen non recu savit et armatus in medium processit ut contra Gallum pugnaret. Sed dum adulescens Romanus cum Gallo manus conserit, corvus consedit in galea eius. Quod augurium putavit de caelo deos misisse, et oravit ut numina sibi propitia in pugna adessent. Ales, cum certatem initium habuit, levans se alis, os oculosque Galli rostro et unguibus invasit, qua re Valerio haud difficile fuit hostem turbatum necare. Tum corvus avolavit et Romani, victoria grati, Valerio Corvino cognomen indiderunt.

Nella guerra contro i Galli, i Romani mentre trascorrevano tranquilli il tempo nell’accampamento, un Gallo, insigne di grandezza e armi, avanzò dalla schiera e, avendo imposto a tutti il silenzio, provocò uno dei Romani per gareggiare con lui con la spada. Allora era nell’accampamento il tribuno militare Valerio, che non rifiutò lo scontro e armato avanzò nel mezzo per combattere contro il Gallo. Ma mentre il giovane si azzuffava con il Gallo, un corvo si posò sul suo elmo. Considerò questo un presagio che gli dei avevano mandato dal cielo, e pregò che gli dei gli dessero segni propizi nella battaglia. L’uccello, quando ebbe inizio lo scontro, levandosi in ali, invase il volto e gli occhi del Gallo con il becco e le unghie, per tale ragione a Valerio non fu difficile uccidere il nemico turbato. Allora il corvo volò e i Romani, grati della vittoria, diedero a Valerio il cognome di Corvino.

“La descrizione dell’India”

India tota spectat orientem. Indiae fluvii ex caucaso profluunt et per camposfluunt: Indus gelidas et caeruleas aquas vehit; Ganges a meridiana terra decurrit; diardines per ultimas terras Indiae currit; non crocodilos modo, sed etiam delphinos ignotasque populis beluas alit. Fluviis tota India dividitur. Terra lini fecunda est: nam Indiae incolae lintea vestimenta habent. Aurum fluvii vehunt. Gemmas margaritasque pelagus oris infundit. Viri capita linteis vinciunt; lapilli ex auriculis pendent; bracchia quoque et lacertos auro colunt. Capillum pectunt saepe sed raro tondent. Rex magnificam vitam degit: in aurea lectica recubat, in regia vivit. Regia auratas columnas habet: argentae figurae regiam ornant.

Tutta l’India è rivolta ad oriente. I fiumi dell’India sgorgano dal Caucaso e scorrono attraverso i campi: l’India trasporta le acque gelide e scure; il Gange defluisce dalla terra meridionale; il Diardine scorre attraverso le ultime terre; alimenta non solo coccodrilli, ma anche delfini e bestie sconosciute ai popoli. Tutta l’India è divisa da fiumi. La terra è fertile di lino: infatti gli abitanti dell’India hanno le vesti di lino. I fiumi trasportano l’oro. Il mare cosparge gemme e perle sulle coste. Gli uomini stringono con fasce di lino la testa; pietre preziose pendono dalle orecchie; ornano d’oro anche gli avambracci e le braccia. Pettinano i capelli spesso ma li tagliano di rado. Il re trascorre una vita magnifica: sta sdraiato sulla lettiga dorata, vive nella reggia. La reggia ha le colonne dorate: figure argentate ornano la reggia.

De Coniuratione Catilinae, 37

Neque solum illis aliena menserat, qui conscii coniurationis fuerant, sed omnino cuncta plebes nouarum rerum studio Catilinae incepta probabat. Id adeo more suo videbatur facere. Nam semper in civitate, quibus opes nullae sunt, bonis invident, malos extollunt, vetera odere, noua exoptant, odio suarum rerum mutari omnia student, turba atque seditionibus sine cura aluntur, quoniam egestas facile habetur sine damno. Sed urbana plebes, ea vero praeceps erat de multis causis. Primum omnium qui ubique probro atque petulantia maxime praestabant, item alii per dedecora patrimoniis amissis, postremo omnes quos flagitium aut facinus domo expulerat, ii Romam sicut in sentinam confluxerant. Deinde multi memores Sullanae victoriae, quod ex gregariis militibus alios senatores videbant, alios ita divites, ut regio victu atque cultu aetatem agerent, sibi quisque, si in armis foret, ex victoria talia sperabat. praeterea iuventus, quae in agris manuum mercede inopiam toleraverat, priuatis atque publicis largitionibus excita urbanum otium ingrato labori praetulerat. Eos atque alios omnis malum publicum alebat. Quo minus mirandum est homines egentis, malis moribus, maxima spe rei publicae iuxta ac sibi consuluisse. praeterea, quorum victoria Sullae parentes proscripti, bona erepta, ius libertatis imminutum erat, haud sane alio animo belli eventum expectabant. Ad hoc quicumque aliarum atque senatus partium erant, conturbari rem publicam quam minus valere ipsi malebant. Id adeo malum multos post annos in civitatem reverterat.

E non solo quelli che erano complici della congiura avevano la mente stravolta, ma tutta intera la plebe, per cupidigia di nuove cose, approvava le imprese di Catilina. Evidentemente sembrava fare ciò secondo la sua consuetudine. Infatti,sempre nello Stato, coloro che non hanno ricchezze invidiano sempre i cittadini dabbene, lodano i malvagi, esecrano il vecchio, bramano il nuovo, per odio delle loro cose si adoperano che tutte le cose siano cambiate, vivono senza cura di torbidi e di sommosse dal momento che la miseria è considerata facile da ogni danno. Ma la plebe romana aveva davvero molte ragioni di gettarsi nel tumulto. Prima di tutto, coloro tra questi dovunque emergevano per turpitudine e sfrenatezza, poi gli altri per cose vergognose avevano dissipato il patrimonio, infine tutti coloro che un’ignominia o un delitto aveva scacciato dalla patria, tutti costoro erano confluiti a Roma come in una sentina. Poi, molti, memori della vittoria di Silla, poiché vedevano da gregari soldati altri senatori, altri così ricchi da trascorrere il tempo in un lusso regale, ognuno, se prendeva le armi, sperava dalla vittoria tali cose. Inoltre la gioventù che nei campi con il lavoro manuale sopportava la miseria, stimolata dalle largizioni pubbliche e private, aveva preferito l’ozio urbano a un lavoro ingrato. Essi e tutti gli altri vivevano del pubblico danno. Non c’è dunque da meravigliarsi se uomini bisognosi, di cattivi abitudini,di sconfinata ambizione, facevano buon mercato dello Stato come di se stessi. Inoltre, coloro dei quali la vittoria di Silla aveva proscritto i parenti, strappato i beni, diminuito il diritto alla libertà, non attendevano certo con altro animo il successo della guerra. Poi, chiunque fosse di un partito diverso da quello del Senato, preferiva che fosse sconvolto lo Stato piuttosto che diminuita la propria influenza. È così che dopo molti anni il male aveva di nuovo invaso la città.

Breviarium V, 6 (“Fasi della guerra contro Mitridate”)

Interea etiam Athenae, civitas Achaiae, ab Aristone Atheniensi Mithridati tradita est. Miserat eum iam ad Achaiam Mithridates Archelaum, ducem suum, cum centum et viginti milibus equitum ac peditum, per quem etiam reliqua Graecia occupata est. Sulla Archelaum apud Piraeum, non longe ab Athenis, obsedit, ipsas Athenas cepit. Postea commisso proelio contra Archelaum ita eum vicit, ut ex CXX milibus vix decem Archelao superessent, ex Sullae exercitu XIII tantum homines interficerentur. Hac pugna Mithridates cognita septuaginta milia lectissima ex Asia Archelao misit, contra quem iterum Sulla commisit. Primo proelio quindecim milia hostium interfecta sunt et filius Archelai Diogenes; secundo omnes Mithridatis copiae extinctae sunt, Archelaus ipse triduo nudus in paludibus latuit. Hac re audita Mithridates iussit cum Sulla de pace agi.

Frattanto anche Atena, città dell’Acaia, fu consegnata a Mitridate da Aristo Ateniese. Mitridate infatti aveva già mandato in Acaia Archelao, suo capitano, con centoventimila cavalli e fanti, e da questo fu occupata anche la Grecia rimanente. Silla assediò Archelao presso il Pireo, non lungi da Atene, prese la stessa Atene. Poi data battaglia contro Archelao lo vinse in modo che di centoventimila uomini ne rimasero ad Archelao appena diecimila, essendo uccisi dell’esercito di Silla solo tredici uomini. Mitridate conosciuta questa battaglia, dall’Asia mandò settantamila uomini sceltissimi ad Archelao, che Silla attaccò di nuovo. Nella prima battaglia furono uccisi quindicimila nemici e il figlio di Archelao Diogene; nella seconda tutte le truppe di Mitridate furono distrutte, Archelao stesso rimase nascosto tre giorni nudo nelle paludi. Udito ciò Mitridate ordinò che si trattasse con Silla di pace.

“Le due isole di Sicilia e Sardegna”

Italia, Romae provinciarum regina, magra et clara peninsula est. Sicilia et Sardinia Italiae insulae sunt. Sicilia insula, pulchrarum patria, magra est. Siciliae incolae agricolae, nautae et poetae sunt; Claudia, nautae filia, et Iulia, agricolae filia, amicae sunt, et discipulae sedulae. In Sardinia insula agricolae et nautae sunt, non poetae; puellae paucae sunt, ancillae multae. Sicilia et Sardiniae incolis piratae multarum lacrimarum causa sunt de insularum divitiis.

L’ Italia, regina delle province di Roma, è una grande e famosa penisola. La Sicilia e la Sardegna sono isole dell’Italia. La Sicilia, patria (terra) di belle fanciulle, è un’ isola grande. Gli abitanti della Sicilia sono contadini, marinai e poeti. Claudia, figlia del marinaio, e Giulia, figlia del contadino, sono amiche e alunne diligenti. Nell’isola della Sardegna ci sono agricoltori e marinai, (ma) non poeti: le ragazze sono poche, le ancelle molte. I pirati sono motivo di molte lacrime per gli abitanti di Sicilia e Sardegna per quanto riguarda le ricchezze delle isole.

“Una mosca sciocca e impertinente”

Cum in temone musca sederet, mulam increpabat: “Quam tarda es! Cur citius non procedis? Vide ne dolone tibi collum compungam”. Respondit illa: “Verbis tuis non moveor; sed istum timeo qui in sella sedet, quod iugum meum lento flagello temperat et ora continet frenis spumantibus. Quapropter insolens et stulta esse desine: nam et quando stringandum et quando currendum sit scio”. Qui sine virtute vanas minas exercet, merito hac fabula derideri potest.

Una mosca sedendo su una pertica, infastidiva una mula: “Come sei lenta! Perchè non vai più veloce? Stai attenta che ti pungo il collo con il pungiglione”. Rispose quella: “Non sono mossa dalle tue parole, ma temo questo che siede in sella, perchè tempera con un lento flagello il mio giogo e trattiene la bocca con i freni schiumati. Per tale ragione smetti di essere insolente e stupida: infatti so quando devo correre e quando devo andare piano”. Chi esercita senza virtù vane minacce, giustamente può essere deriso con questa storia.

Breviarium, VII, 3 (“La battaglia di Filippi”)

Interea Brutus et Cassius, interfectores Caesaris, ingens bellum moverunt. Erant enim per Macedoniam et Orientem multi exercitus, quos occupaverant. Profecti sunt igitur contra eos Caesar Octavianus Augustus et M. Antonius; remanserat enim ad defendendam Italiam Lepidus. Apud Philippos, Macedoniae urbem, contra eos pugnaverunt. Primo proelio victi sunt Antonius et Caesar, periit tamen dux nobilitatis Cassius, secundo Brutus periit et infinitam nobilitatem, quae cum illis bellum gesserat, victam interfecerunt. Ac sic inter eos divisa est res publica, ut Augustus Hispanias, Gallias et Italiam teneret, Antonius Asiam, Pontum, Orientem. Sed in Italia L. Antonius consul bellum civile commovit, frater eius, qui cum Caesare contra Brutum et Cassium dimicaverat. Is apud Perusium, Tusciae civitatem, victus et captus est, neque occisus.

Intanto Bruto e Cassio, uccisori di Cesare, provocarono un’ingente guerra. Poiché molti eserciti, che presero, si trovavano nella Macedonia e in Oriente. Allora partirono contro di loro Cesare Ottaviano Augusto e M. Antonio; quindi Lepido era rimasto a difendere l’Italia. Combatterono contro di loro presso Filippi, città della Macedonia. Nel primo scontro furono vinti Antonio e Cesare, tuttavia perì il condottiere della nobiltà Cassio, nel secondo morì Bruto e massacrarono la numerosissima nobiltà vinta, che con loro aveva fatto la guerra. E così lo Stato fu diviso tra loro affinchè Augusto occupasse la Spagna, le Gallia e l’Italia, Antonio l’Asia, il Ponto, l’Oriente. Ma in Italia, il console L. Antonio, fratello di quello che aveva combattuto assieme a Cesare contro Bruto e Cassio, suscitò la guerra civile. Egli, vinto, fu catturato, non ucciso, presso Perugia, città dell’Etruria.

“Un Viaggio da Atene a Roma”

Navis, et vectorum et mercium plena, Piraeum, Athenarum portum, relinquit: nautae oculus adiciunt in mirum templum deae Athenae, – graeca lingua Parthenon dicitur – quod splendet in arce urbis, quae Acropolis nominatur. Celeriter navis ventis secundis in altum ducitur. Sol occidit et nox in caelo sidera fert quae nautis viam ostendunt, iam navis laeva Cytheram insulam Veneris deae sacram, relinquit, dextra taenarum promuntorium, qua ad inferos via est. Cum nautae in mare ionium intrat Graeciae litora salutant et ad Italiam navigant. Navigatio usque ad Siciliam tranquilla est, sed fretum siculum, inter Scyllam et Carybdim, horrida monstra, ventorum vi agitatur. Denique gubernatoris peritia nautarumque diligentia navis integra in mare tirrhenum transit. Vectores, longo itinere fessi, cum latii litora vident, “Italiam, Italiam!” una voce clamant. Tandem navis ex alto in Ostiae portum intrat. Nautae de navi exeunt et Neptuno aquarum regi, atque Iovi, deorum patri, sacrificium faciunt.

La nave, piena di merci e vettovaglie, lascia il Pireo, porto di Atene: i marinai volgono lo sguardo al mirabile tempio di Atena – che nella lingua greca è chiamato Partenone – che splende nella rocca della città che è chiamata Acropoli. Velocemente la nave con venti favorevoli è condotta in alto. Il sole tramonta e la notte porta gli astri in cielo che mostrano la via ai marinai, già la nave leggera lascia l’isola di Citerea sacra alla dea Venere, alla destra il promontorio di Tenaro, che è la via agli inferi. Quanto i marinai entrano nel mar Ionio salutano i lidi della Grecia e navigano verso l’Italia. La navigazione fino alla Sicilia è tranquilla ma lo stretto degli scogli, tra Scilla e Cariddi, orribili mostri, è agitato dalla forza dei venti. Infine per l’esperienza dei timonieri e la perizia dei marinai la nave passa integra nel mar Tirreno. I vettori, stanchi per il lungo viaggio, quando vedono i lidi del Lazio gridano a gran voce: “Italia, Italia!”. Allora la nave entra dall’alto nel porto di Ostia. I marinai scendono dalla nave e fanno un sacrificio a Nettuno re delle acque dei mari, e a Giove padre degli dei e degli uomini.

“Notizie su uomini strani e mostruosi”

Omnes libri graeci miraculorum fabularumque pleni sunt, ibique res huiuscemodi inauditas et incredulas legere possumus. in remotissima regione sunt homines maximae velocitatis, habentes vestigia pedum retro porrecta, non prorsum spectantia. in ultima terra homines vivunt qui in puerita canescunt et oculis plus cernunt per noctem quam interdiu. In terra Africa homines sunt quorum vox facultatem mirabulissimam habet: nam si impensius laudant pulchriores arbores, segetes laetiores, infantes amoeniores, equos magi egregios, pecudes opimas, hec omnia, nulla alia causa, repente occidunt. Pygmaei, gentes minima statura, qpud extremam Indiam vivunt: qui eorum longissimi sunt, non longiores sunt quam pedes duo et quadrans.

Tutti i libri greci sono pieni di favole e fatti straordinari, e vi possiamo leggere cose inaudite e incredibili di questo genere. In una lontanissima terra ci sono uomini dalla corsa velocissima, che hanno i piedi allungati verso dietro e non rivolti in avanti. In una terra remota ci vivono uomini che hanno i capelli bianchi quando sono infanti e con occhi che vedono più di notte che durante il giorno. Nella terra d’Africa ci sono uomini la cui voce ha una stupefacente capacità: infatti se per caso lodano i begli alberi, le messi abbondanti, i bei ragazzi, i superbi cavalli, i fertili greggi, tutto ciò, senza nessun’altra causa, muore improvvisamente. I pigmei, gente di statura piccolissima, vivono nella lontanissima India: i più alti di loro non superano due piedi e un quarto.

“L’ubriachezza del re Cambise”

Cambysen regem nimis deditum vino Praexaspes, unus ex carissimis, monebat ut parcius biberet, turpem esse dicens ebrietatem in rege, quem omnium oculi auresque sequerentur. Ad haec ille: “ut scias” inquit “quemadmodum numquam excidam mihi, adprobabo iam et oculos, post vinum, et manus in officio esse”. Bibit deinde liberalius quam alias capacioribus scyphis et, iam gravis ac vinolentus, obiurgatoris sui filium procedere ultra limen iubet allevataque super caput sinistra manu stare. Tunc intendit arcum et ipsum cor adulescentis (id enim petere se dixerat) figit rescissoque pectore haerens in ipso corde spiculum ostendit ac respiciens patrem interrogavit satisne certam haberet manum.

Pressaspe, uno dei suoi più cari amici, ammoniva il re Cambise, troppo incline al vino, a bere di meno, dicendo che è disonorevole l’ubriachezza in un re, che gli occhi e le orecchie di tutti seguivano. Quello rispose a queste cose: “Affinché tu sappia come non ho perso il mio autocontrollo, ti proverò che, dopo aver bevuto vino, gli occhi e le mani funzionano ancora a dovere”. Bevve poi più abbondantemente del solito, in coppe più grandi e, ormai appesantito e ubriaco fradicio, ordinò al figlio del suo censore di avanzare oltre la soglia e di stare fermo, con la mano sinistra alzata sopra il capo. Allora tese l’arco e trafisse proprio il cuore del ragazzo (aveva detto di mirare a quello) e aperto il petto, mostrando la freccia diritta nel cuore e volgendosi al padre gli chiese se aveva una mano abbastanza ferma.

“Fine di Pompeo e dei pompeiani”

Pugnatum est ingenti contentione victusque ad postremum Pompeius et castra eius direpta sunt. Ipse fugatus Alexandriam petiit, ut a rege Aegypti acciperet auxilia. Hic fortunam magis quam amicitiam secutus occidit Pompeium, caput eius et anulum Caesari misti. Mox Caesar Alexandriam venit. Ipsi quoque Ptolomaeus parare voluit insidias. Hac causa bellum regi illatum est. Victus in Nilo periit inventumque est corpus eius cum lorica aurea. Caesar Alexandria potitus regnum Cleopatrea dedit. Rediens inde Caesar Pharnacen, Mithridatis Magni filium, multas populi Romani provincias occupatem, vicit acie, postea ad mortem coegit. Inde Romam regrussus se consulem facit cum M. Aemilio Lepido. Inde in Africam profectus est, ubi infinita nobilitas cum Iuba, Mauretaniae rege, bellum
reparaverat. Duces autem Romani erat P. Cornelius Scipio (hic etiam socer Pompeii Magni fuerat), M. Petreius, M. Porcius Cato, L. Cornelius Faustus. Contra hos commisso proelio, victor fuit Caesar. Cato, Scipio, Petreius, Uiba ipsi se occiderunt. Faustus. Pompeii gener, a Caesare interfectus est.

Si combattè con grande violenza, e alla fine Pompeo fu vinto e i suoi accampamenti messo a sacco. Egli stesso posto in fuga si diress ad Alessandria per ricevere aiuti dal re dell’Egitto, al quale dal senato era stato dato come tutore per la sua età giovanile. Quello, inseguendo più la fortuna che l’amicizia, uccise Pompeo e inviò a Cesare il capo e l’anello di lui. Al cui cospetto si dice che anche Cesare avesse versato lacrime, vedendo il capo di un così grande uomo e un di suo genero. Quindi tornato a Roma si nominò console con M. Emilio Lepido. Quindi partì per l’Africa, dove un gran numero di nobili con Giuba, re della Mauritania, aveva rinnovato la guerra. Capitani Romani poi erano P. Cornelio Scipione (questi pure era stato suocero di Pompeo Magno), M. Petreio, M. Porcio Catone, L. Cornelio Fausto. Attaccata battaglia contro di loro, fu vincitore Cesare. Catone, Scipione, Petreio, Giuba si uccisero da per loro. Fausto, genero di Pompeo, fu ucciso da Cesare.

Breviarium, IV, 2 (“T. Quinzio Flaminio”)

T. Quinctius Flamininus adversum Philippum regem missus rem prospere gessit. Pax ei data est his condicionibus: ne Graeciae civitatibus, quas Romani contra eum defenderant, bellum inferret; ut captivos et transfugas redderet; quinquaginta solas naves haberet; reliquas Romanis redderet; per annos decem quaterna milia pondo argenti daret et obsidem daret filium suum Demetrium. T. Quinctius Flamininus etiam Lacedaemoniis intulit bellum. Ducem eorum Nabidem vicit et quibus voluit condicionibus in fidem accepit. Ingenti gloria triumphavit; duxit ante currum nobilissimos obsides, Demetrium Philippi filium et Armenen Nabidis filium.

T. Quinzio Flaminino, inviato contro il re Filippo, condusse con buon esito la guerra. A lui (Filippo) fu data la pace a queste condizioni: non facesse guerra alle città della Grecia che i Romani avevano difeso contro di lui; restituisse prigionieri e disertori, avesse soltanto cinquanta navi; consegnasse tutte le restanti ai romani; desse per dieci anni quattro mila libbre d’argento l’anno e consegnasse come ostaggio suo figlio Demetrio. T. Quinzio Flaminino fece guerra anche agli Spartani. Vinse il loro condottiero Nabide e li accolse sotto la sua protezione alle condizioni che egli volle. Trionfò con grande gloria, condusse davanti al (suo) carro nobilissimi ostaggi, Demetrio figlio di Filippo e Armene figlio di Nabide.

“La battaglia delle Termopili”

Postquam Darius pater e vita excessit, Xerses magnas copias conscripsit classemque paravit, quoniam valde cupiebat in suam potestatem Graeciam redigere. Quare aestivo tempore Hellespontum traiecit, per Thracum Macedonumque fines cum suis militibus iter fecit et ad angustias Thermopylarum pervenit. Rerum scriptores tradunt Graecos periculum providisse et, quia potius libertatem quam vitam existimabant, contra hostem communem omnes simultates inter se posuisse. Ita cum ad Thermopylas xerses pervenit, Graecorum praesidium ibi invenit sed sine mora adfirmavit se Graecorum parvum manipulum facile visturum esse. Autem Xersis milites non sua vi ferroque sed dolo vicerunt. Nam a proditore devium per montes iter Persis apertum est: ita e Thessalia in Phocidem, in Boeotiam et inde in Atticam penetraverunt. Narrant barbaros in incolas vim fecisse, ferro ignique oppida vastavisse dum Athenienses, iuxta oraculum responsum, in naves conscendunt et salutem fuga petunt.

Dopo che Dario morì, Serse arruolò grandi truppe e preparò una flotta, poichè desiderava fortemente portare in suo potere la Grecia. Per tale motivo in estate si spinse all’Ellesponto, fece un viaggio con i suoi soldati attraverso i confini della Tracia e della Macedonia e giunse allo stretto delle Termopili. Gli storici dicono che i Greci avessero predetto il pericolo e, poichè consideravano di più la libertà che la vita, si sarebbero posti tra loro tutti insieme contro il nemico comune. Così quando Serse giunse alle Termopili, quì trovò il presidio dei Greci ma senza esitazione affermò che lui avrebbe devastato facilmente il piccolo manipolo di Greci. Tuttavia i soldati di Serse non vinsero per la loro forza o armi ma con l’inganno. Infatti la via è aperta da un traditore ai Persiani per i monti: così dalla Tessaglia in Focide, in Beozia e poi penetrarono in Attica. Narrano che i barbari abbiano fatto forza contro gli abitanti, abbiano devastato con ferro e fuoco le città mentre gli Ateniesi, oltre il responso dell’oracolo, si imbarcarono e cercarono la salvezza con la fuga.