Confessiones, II, 4

Furtum certe punit lex tua, domine, et lex scripta in cordibus hominum, quam ne ipsa quidem delet iniquitas: quis enim fur aequo animo furem patitur? Nec copiosus adactum inopia. Et ego furtum facere volui, et feci, nulla conpulsus egestate, nisi penuria et fastidio iustitiae et sagina iniquitatis. Nam id furatus sum, quod mihi abundabat et multa melius; nec ea re volebam frui, quam furto appetebam, sed ipso furto et peccato. Arbor erat pirus in vicinia nostrae vineae, pomis onusta, nec forma nec sapore inlecebrosis. Ad hanc excutiendam atque asportandam nequissimi adulescentuli perreximus nocte intempesta, quousque ludum de pestilentiae more in areis produxeramus, et abstulimus inde onera ingentia non ad nostras epulas, sed vel proicienda porcis, etiamsi aliquid inde comedimus, dum tamen fieret a nobis quod eo liberet, quo non liceret. Ecce cor meum, deus, ecce cor meum, quod miseratus es in imo abyssi. Dicat tibi nunc ecce cor meum, quid ibi quaerebat, ut essem gratis malus et malitiae meae causa nulla esset nisi malitia. Foeda erat, et amavi eam; amavi perire, amavi defectum meum, non illud, ad quod deficiebam, sed defectum meum ipsum amavi, turpis anima et dissiliens a firmamento tuo in exterminium, non dedecore aliquid, sed dedecus appetens.

Per certo la tua legge punisce il furto, o Signore, e la legge scritta nei cuori degli uomini, che neppure la stessa iniquità può cancellare: infatti quale ladro sopporta con animo giusto un furto? Neppure il ricco sopporta uno che è stato spinto dalla povertà. E io ho voluto fare il furto e l’ho fatto senza essere spinto da alcuna indigenza se non dalla mancanza e dal disprezzo del senso di giustizia e dalla grandezza della (mia) iniquità. Infatti io rubai proprio ciò che avevo in abbondanza e di qualità molto migliore, e non volevo quindi godere di quella cosa, che desideravo attraverso il furto, ma del frutto stesso e del peccato. C’era un albero di pere nelle vicinanze della nostra vigna carico di frutti non allettanti né per aspetto, ne per sapore. Noi, giovani scelleratissimi, ci dirigemmo per scuotere e depredare quest'(albero) nel cuore della notte; fino ad allora avevamo protratto i nostri giochi nei cortili, secondo le nostre malsane abitudini, e portammo via da là dei grandi carichi, non per i nostri banchetti, ma per gettarli ai porci, anche se ne mangiammo qualcuna, purché facessimo ciò che tanto piaceva quanto non era lecito. Ecco il mio cuore, Dio, eco il mio cuore, di cui hai avuto pietà nel profondo abisso. Ecco, che il mio cuore ti dica che cosa andavo a cercare lì, cosicché io ero cattivo nelle grazie e la causa delle mie cattiverie non era altro se non la cattiveria. (Questa) era brutta, ma io l’amai; amai morire, amai il mio peccate, non amai ciò per cui venivo meno, ma il mio stesso venir meno, turpe nell’anima e staccandomi dal tuo sostegno per cadere nella perdizione, aspirando non a qualche cosa per vergogna, ma alla vergogna stessa.

De Civitate Dei, XIV, 28

Fecerunt itaque ciuitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, caelestem uero amor Dei usque ad contemptum sui. Denique illa in se ipsa, haec in Domino gloriatur. Illa enim quaerit ab hominibus gloriam; huic autem Deus conscientiae testis maxima est gloria. Illa in gloria sua exaltat caput suum; haec dicit Deo suo: “Gloria mea et exaltans caput meum”. Illi in principibus eius uel in eis quas subiugat nationibus dominandi libido dominatur; in hac seruiunt inuicem in caritate et praepositi consulendo et subditi obtemperando. Illa in suis potentibug diligit uirtutem suam; haec dicit Deo suo: “Diligam te, Domine, uirtus mea”. Ideoque in illa sapientes eius secundum hominem uiuentes aut corporis aut animi sui bona aut utriusque sectati sunt, aut qui potuerunt cognoscere Deum, “non ut Deum honorauerunt aut gratias egerunt, sed euanuerunt in cogilationibus suis, et obscuratum est insipiens cor eorum; dicentes se esse sapientes”, id est dominante sibi.superbia in sua sapientia sese extollentes, “stulti facti sunt et inmutauerunt gloriam incorruptibilis Dei in similitudinem imaginis corruptibilis hominis et uolucrum et quadrupedum et serpentium”, ad huiusce modi enim simulacra adoranda uel duces populorum uel sectatores fuerunt, “et coluerunt atque seruierunt creaturae potius quam Creatori, qui est benedictovs in saecula”; in hac autem nulla est hominis sapientia nisi pietas, qua recte colitur uerus Deus, id expectans praemium in societate sanctorum non solum hominum, uerum etiam angelorum, “ut sit Deus omnia in omnibus”.

Pertanto due (diversi) amori hanno fatto due città, e cioè l’amor proprio fino al disprezzo di Dio quella terrena, mentre l’amore di Dio fino al proprio disprezzo quella celeste. Perciò la prima si gloria in se stessa, la seconda nel Signore. La prima infatti chiede la gloria agli uomini; al contrario per la seconda Dio è la massima gloria. La prima esalta nella sua gloria la sua testa; la seconda dice al suo Dio: “Tu sei la mia gloria anche perché levi in alto la mia testa”. Sulla prima domina la brama di dominio, nei suoi capi o in quei popoli che sottomette; nella seconda al contrario servono nella carità sia i capi consigliando che i sudditi obbedendo. La prima predilige la sua forza nei suoi potenti; la seconda dice al suo Dio: “Ti amerò, Dio, mia forza )”. E pertanto in quella i suoi sapienti che vivono secondo l’uomo perseguirono o i beni del corpo o dell’anima o di entrambi, o coloro che poterono conoscere Dio, “non (lo) onorarono o (gli) resero grazie come Dio; ma si persero nei loro pensieri; e il loro sciocco cuore fu oscurato; coloro che dicevano di essere sapienti”, cioè che si esaltavano nella loro saggezza poiché dominava su di loro la superbia, “divennero stolti e mutarono la gloria del Dio incorruttibile nella somiglianza di un’immagine corruttibile dell’uomo e degli uccelli e dei quadrupedi e dei serpenti”: infatti in tali forme di simulacri da adorare, furono capi di masse o loro partigiani: “e venerarono e servirono le creature piuttosto che il Creatore, che è benedetto nei secoli”. Ma nella seconda la sapienza dell’uomo non è nulla se non religione, con la quale giustamente si venera il vero Dio, aspettando questo premio nella società non solo degli uomini santi, ma anche degli angeli, “affinché Dio sia tutto in tutti”.

“I romani deportano l’intera popolazione dei Liguri Apuani”

Ut Ligustinum bellum tandem componerent, Romani statuerunt deducere Ligures Apuanos ex montibus in loca campestria procul a domo, ne spes reditus esset. Cum Senatus traducere Ligures in Samnium statuisset, missi sunt ad eos duo consules cum exercitu ut mandata senatus perficerent. Consules edixerunt ut ii de montibus descenderent cum liberis coniugibusque omniaque sua secum ferrent. Ligures, ne cogerentur relinquere Penates, sedem, domos, maiorumque sepulcra, arma obsidesque promiserunt. Sed, cum nihil impetravissent neque vires et opes, ut bellum peragerent, haberent, edicto paruerunt. Traducti sunt publico sumptu quadraginta milia virorum cum feminis puerisque.

Affinchè preparassero la guerra “Ligustinum”, i romani decisero di condurre i liguri apuani dai monti ai luoghi campestri lontani da casa, affinchè non avessero la speranza di tornare. Avendo deciso il senato di trasportare i liguri nel Sannio, furono mandati a quelli due consoli con l’esercito per riferire i mandati del senato. I consoli dissero di allontanarsi dai monti con i figli e i coniugi, e di portare con loro tutte le cose. I liguri promisero, affinchè non pensassero di lasciare i penati, la sede, le case, i sepolcri degli antenati, armi e prigionieri. Ma non avendo ottenuto niente e non avendo nè uomini nè opere, per diffondere la guerra, si conformarono all’editto. Furono trasportati a spese pubbliche quarantamila uomini con donne e bambini.

Divus Iulius, 31

Cum ergo sublatam tribunorum intercessionem ipsosque urbe cessisse nuntiatum esset, praemissis confestim clam cohortibus, ne qua suspicio moveretur, et spectaculo publico per dissimulationem interfuit et formam, qua ludum gladiatorium erat aedificaturus, consideravit et ex consuetudine convivio se frequenti dedit. Dein post solis occasum mulis e proximo pistrino ad vehiculum iunctis occultissimum iter modico comitatu ingressus est; et cum luminibus extinctis decessisset via, diu errabundus tandem ad lucem duce reperto per angustissimos tramites pedibus evasit. Consecutusque cohortis ad Rubiconem flumen, qui provinciae eius finis erat, paulum constitit, ac reputans quantum moliretur, conversus ad proximos: ‘etiam nunc,’ inquit, ‘regredi possumus; quod si ponticulum transierimus, omnia armis agenda erunt’.

Quando dunque gli fu riferito che non si era tenuto conto dell’opposizione dei tribuni e che questi avevano abbandonato Roma, subito fece andare avanti segretamente alcune coorti, per non destare sospetti. Poi, con lo scopo di trarre in inganno, si fece vedere ad uno spettacolo pubblico, esaminò i progetti di una scuola di gladiatori che aveva intenzione di costruire e, secondo le sue abitudini, pranzò in numerosa compagnia. Dopo il tramonto del sole, aggiogati ad un carro i muli di un vicino mulino, partì in gran segreto, con un’esile scorta. Quando le fiaccole si spensero, smarrì la strada e vagò a lungo, finché all’alba, trovata una guida, raggiunse a piedi la meta, attraverso sentieri strettissimi. Raggiunte le coorti presso il fiume Rubicone, che era il confine della nostra provincia, rimase fermo alcuni istanti, riflettendo su quanto facesse, e poi, rivoltosi ai soldati vicini, disse: “Possiamo tornare indietro anche subito; infatti se attraversiamo il ponticello ogni cosa dovrà essere portata a termine con le armi”.

De Bello Gallico, I, 20

Diviciacus multis cum lacrimis Caesarem complexus obsecrare coepit ne quid gravius in fratrem statueret: scire se illa esse vera, nec quemquam ex eo plus quam se doloris capere, propterea quod, cum ipse gratia plurimum domi atque in reliqua Gallia, ille minimum propter adulescentiam posset, per se crevisset; quibus opibus ac nervis non solum ad minuendam gratiam, sed paene ad perniciem suam uteretur. Sese tamen et amore fraterno et existimatione vulgi commoveri. Quod si quid ei a Caesare gravius accidisset, cum ipse eum locum amicitiae apud eum teneret, neminem existimaturum non sua voluntate factum; qua ex re futurum uti totius Galliae animi a se averterentur. Haec cum pluribus verbis flens a Caesare peteret, Caesar eius dextram prendit; consolatus rogat finem orandi faciat; tanti eius apud se gratiam esse ostendit uti et rei publicae iniuriam et suum dolorem eius voluntati ac precibus condonet. Dumnorigem ad se vocat, fratrem adhibet; quae in eo reprehendat ostendit; quae ipse intellegat, quae civitas queratur proponit; monet ut in reliquum tempus omnes suspiciones vitet; praeterita se Diviciaco fratri condonare dicit. Dumnorigi custodes ponit, ut quae agat, quibuscum loquatur scire possit.

Diviziaco abbracciò Cesare e scoppiò in lacrime: incominciò a implorarlo di non prendere provvedimenti troppo gravi nei confronti del fratello. Diceva di sapere che era vero, ma ne era addolorato più di chiunque altro, perché a rendere potente Dumnorige era stato proprio lui, Diviziaco, quando era molto influente in patria e nel resto della Gallia, mentre suo fratello non lo era affatto a causa della sua giovane età. Dumnorige, però, si era servito delle risorse e delle forze acquisite, finendo non solo per diminuire il favore di cui godeva suo fratello, ma quasi per rovinare se stesso. Tuttavia, Diviziaco diceva di essere mosso sia dall’affetto fraterno, sia dall’opinione della sua gente. Se Cesare condannava Dumnorige a una pena grave, nessuno avrebbe creduto all’estraneità di Diviziaco, che aveva una posizione di privilegio, come amico di Cesare, ragion per cui egli avrebbe perso l’appoggio di tutti i Galli. Piangendo, continuava a rivolgergli parole di supplica. Cesare, prendendogli la destra, lo consola, gli chiede di non aggiungere altro e gli dichiara che la sua influenza contava per lui tanto, che avrebbe sacrificato al suo desiderio e alle sue preghiere sia l’offesa arrecata alla repubblica, sia il proprio risentimento. Alla presenza del fratello convoca Dumnorige, gli espone gli addebiti da muovergli, le cose che aveva capito e quelle di cui il suo popolo si lamentava. Lo ammonisce a evitare in futuro tutti i sospetti e gli dice che gli perdonava il passato in virtù di suo fratello Diviziaco. Lo mette, però, sotto sorveglianza per poter sapere che cosa facesse e con chi parlasse.

“Turbamento dopo la morte di Alessandro”

Nox supervenit terroremque auxit. Milites in armis vigilabant. Babylonii alius e muris, alius culmine sui quisque tecti prospectabant, quasi certiora visuri. Nec quisquam lumina audebat accendere; et, quia oculorum cessabat usus, fremitus vocesque auribus captabant; ac plerumque, vano metu territi per obscuras semitas alius alii occursantes invicem suspecti ac solliciti ferebantur. Persae comis suo more detonsis in lugubri veste cum coniugibus ac liberis, non ut victorem et modo ut hostem, sed ut gentis suae iustissimum regem vero desiderio lugebant. Ac sueti sub rege vivere non alium, qui imperaret ipsis, digniorem fuisse confitebantur. Nec muris urbis luctus continebatur; sed proximam regionem ab ea, deinde magnam partem Asiae cis Euphraten tanti mali fama pervaserat.

Sopraggiunse la notte ed accrebbe il loro terrore. I soldati vegliavano in armi. I Babilonesi, chi dall’alto delle mura, chi dalla sommità del tetto della propria casa, stavano a guardare, come nell’attesa di qualcosa di più determinato. Nessuno osava accendere dei lumi; e poiché veniva meno l’uso degli occhi, cercavano di afferrare con le orecchie mormorii e voci; e più volte, presi da una infondata paura, si muovevano per oscure stradicciole, urtandosi l’un l’altro e vicendevolmente destando e provando timore. I Persiani, tagliatisi le chiome secondo il loro costume, in abito da lutto, assieme alle mogli ed ai figli piangevano Alessandro con un dolore sincero, non come un vincitore ed un nemico recente, ma come il più legittimo sovrano della loro gente. Avvezzi a vivere sotto un re, confessavano che non ce n’era stato un altro più degno di regnare su di loro. E il lutto non era racchiuso entro le mura della città; ma la notizia d’una sventura cosi grande si era diffusa nella regione immediatamente vicina e quindi in gran parte dell’Asia al di qua dell’Eufrate.

“Il lupo macilento e il cane ben pasciuto”

Lupus macie confectus cani perpasto occurrit. Hunc ille dicit: “Quomodo ego, qui te fortior sum, fame pereo, tu autem nites?”. Canis, vicinam domum ei ostendens, simpliciter respondit: “Illam domum custodio, igitur dominus mihi ossa et carnem de mensa sua iactat. Tibi quoque dominus meus haec dabit, si illi idem officium praestabis. sic domi serecus vives nec iam in silvis vitam asperam trahes, nives imbresque ferens. Veni ergo mecum, ad dominum te ducam!” Lupus, laetus, canem sequitur sed, dum procedunt, aspicit canis collum catena attritum. Tum canem interrogat: “Quae est huius rei causa, amice?”. Respondet ille: “Nihil est! Servi me interdiu alligant quia acrior sum”. Tum lupus exclamat: “Non iam tibi invideo, canis! Ista mihi non placet. Ventris causa libertatem amittere nolo!” Sic, libertatem catenae anteponens, lupus ad asperam in silvis vitam redit.

Un lupo sfinito dalla fame incontrò un cane paffuto. Quello disse a questo: “Come mai io, che sono più forte di te, muoio dalla fame, e tu invece sei splendido?”. Allora il cane, indicandogli la casa vicina, rispose semplicemente: “Io custodisco quella casa, dunque il padrone mi getta ossa e carne dalla sua mensa. Il mio padrone ne darà anche a te, se tu eseguirai il mio stesso compito. Pertanto in casa vivrai sicuro, nè condurrai nei boschi una vita difficile, sopportando nevi e piogge. Vieni dunque con me, ti condurrò dal padrone!”. Il lupo, felice, segue il cane ma, mentre camminano, vede il collo del cane ecoriato dalla catena. Allora interroga il cane: “Qual è la causa di ciò, amico?”. Quello risponde: “Non è nulla! I servi mi legano ogni giorno perchè sono vivace”. Il lupo allora esclama: “Ora non ti invidio affatto, cane! Queste cose non mi piacciono. Rifiuto di perdere la libertà a causa del ventre”. Così, preferendo la libertà alle catene, il lupo ritornò alla vita nelle foreste in mezzo alle difficoltà.

Fabulae, III, 7

Quam dulcis sit libertas, breviter proloquar. Cani perpasto macie confectus lupus Forte occucurrit. Dein salutati invicem Ut restiterunt: “Unde sic, quaeso, nites? Aut quo cibo fecisti tantum corporis? Ego, qui sum longe fortior, pereo fame”. Canis simpliciter: “Eadem est condicio tibi, Praestare domino si par officium potes”. “Quod?” inquit ille. “Custos ut sis liminis, A furibus tuearis et noctu domum”. “Ego vero sum paratus: nunc patior nives Imbresque in silvis asperam vitam trahens: Quanto est facilius mihi sub tecto vivere, Et otiosum largo satiari cibo?” “Veni ergo mecum”. Dum procedunt, aspicit Lupus a catena collum detritum cani. “Unde hoc, amice?” “Nihil est”. “Dic sodes tamen”. “Quia videor acer, alligant me interdiu, Luce ut quiescam et vigilem, nox cum venerit: Crepusculo solutus, qua visum est, vagor. Affertur ultro panis; de mensa sua Dat ossa dominus; frusta iactat familia Et, quod fastidit quisque, pulmentarium. Sic sine labore venter impletur meus”. “Age, si quo abire est animus, est licentia?” “Non plane est” inquit. “Fruere, quae laudas, canis: Regnare nolo, liber ut non sim mihi”.

Quanto sia dolce la libertà, brevemente esporrò. Un lupo consumato dalla magrezza s’imbattè per caso in un cane ben pasciuto; poi, salutatisi scambievolmente quando si fermarono, “Come risplendi così, prego?” O con che cibo ingrassasti tanto (lett. facesti tanto di corporatura)? Io, che sono lungamente più forte, muoio di fame”. Il cane semplicemente: “C’è la stessa condizione per te, se puoi offrire al padrone lo stesso compito”. “Quale?” dice lui. “Che sia guardia della soglia, difenda anche di notte la casa dai ladri. Viene offerto in più il pane, dalla sua mensa il padrone dà le ossa; la servitù getta bocconi, e quel companatico che uno rifiuta. Così senza fatica il mio ventre si riempie”. “Io allora sono pronto: ora patisco nevi e piogge tirando una vita dura nei boschi. Quanto mi è più facile vivere sotto un tetto, e saziarsi di cibo abbondante”. “Vieni dunque con me”. Mentre avanzano, il lupo vede al cane il collo rovinato dalla catena. “Come mai questo, amico?” “E’ niente”. “Ebbene, dillo, se vuoi”. “Poiché sembro cattivo, talvolta mi legano, perché riposi con la luce e vegli, quando sia giunta la notte: liberato al crepuscolo, vago dove mi è parso”. “Su, si a volte c’è voglia di andare, c’è libertà?” “Non c’è davvero” dice. “Godi le cose che lodi, cane; non voglio regnare, per non esser libero per me”.

Elegie, I, 5

Asper eram et bene discidium me ferre loquebar,
At mihi nunc longe gloria fortis abest.
Namque agor ut per plana citus sola verbere turben,
Quem celer adsueta versat ab arte puer.
Ure ferum et torque, libeat ne dicere quicquam
Magnificum post haec: horrida verba doma.
Parce tamen, per te furtivi foedera lecti,
Per venerem quaeso conpositumque caput.
Ille ego, cum tristi morbo defessa iaceres,
Te dicor votis eripuisse meis,
Ipseque te circum lustravi sulphure puro,
Carmine cum magico praecinuisset anus;
Ipse procuravi, ne possent saeva nocere
Somnia, ter sancta deveneranda mola;
Ipse ego velatus filo tunicisque solutis
Vota novem Triviae nocte silente dedi.
Omnia persolvi: fruitur nunc alter amore,
Et precibus felix utitur ille meis.
At mihi felicem vitam, si salva fuisses,
Fingebam demens, sed renuente deo.
Rura colam, frugumque aderit mea Delia custos,
Area dum messes sole calente teret,
Aut mihi servabit plenis in lintribus uvas
Pressaque veloci candida musta pede;
Consuescet numerare pecus, consuescet amantis
Garrulus in dominae ludere verna sinu.
Illa deo sciet agricolae pro vitibus uvam,
Pro segete spicas, pro grege ferre dapem.
Illa regat cunctos, illi sint omnia curae,
At iuvet in tota me nihil esse domo.
Huc veniet Messalla meus, cui dulcia poma
Delia selectis detrahat arboribus;
Et tantum venerata virum hunc sedula curet,
Huic paret atque epulas ipsa ministra gerat.
Haec mihi fingebam, quae nunc Eurusque Notusque
Iactat odoratos vota per Armenios.
Saepe ego temptavi curas depellere vino,
At dolor in lacrimas verterat omne merum.
Saepe aliam tenui, sed iam cum gaudia adirem,
Admonuit dominae deseruitque Venus.
Tunc me discedens devotum femina dixit
Et pudet et narrat scire nefanda meam.
Non facit hoc verbis, facie tenerisque lacertis
Devovet et flavis nostra puella comis.
Talis ad Haemonium Nereis Pelea quondam
Vecta est frenato caerula pisce Thetis.
Haec nocuere mihi, quod adest huic dives amator;
Venit in exitium callida lena meum.
Sanguineas edat illa dapes atque ore cruento
Tristia cum multo pocula felle bibat;
Hanc volitent animae circum sua fata querentes
Semper et e tectis strix violenta canat;
Ipsa fame stimulante furens herbasque sepulcris
Quaerat et a saevis ossa relicta lupis,
Currat et inguinibus nudis ululetque per urbes,
Post agat e triviis aspera turba canum.
Eveniet: dat signa deus; sunt numina amanti,
Saevit et iniusta lege relicta Venus.
At tu quam primum sagae praecepta rapacis
Desere, nam donis vincitur omnis amor.
Pauper erit praesto semper, te pauper adibit
Primus et in tenero fixus erit latere,
Pauper in angusto fidus comes agmine turbae
Subicietque manus efficietque viam,
Pauper ad occultos furtim deducet amicos
Vinclaque de niveo detrahet ipse pede.
Heu canimus frustra, nec verbis victa patescit
Ianua, sed plena est percutienda manu.
At tu, qui potior nunc es, mea fata timeto:
Versatur celeri Fors levis orbe rotae.
Non frustra quidam iam nunc in limine perstat
Sedulus ac crebro prospicit ac refugit,
Et simulat transire domum, mox deinde recurrit,
Solus et ante ipsas excreat usque fores.
Nescio quid furtivus amor parat. utere quaeso,
Dum licet: in liquida nat tibi linter aqua.

Furioso, questo ero: mi dicevo
che bene avrei sopportato il distacco,
ma ora lontano è da me il vanto d’avere coraggio:
sto girando come una trottola,
mossa sul selciato a colpi di frusta,
che un fanciullo nel vortice sospinge
con la destrezza che gli è nota.
Brucialo questo ribelle, torturalo,
che in futuro non possa più vantarsi;
doma questo suo squallido linguaggio.
Ma tu non infierire, te ne prego,
per il patto segreto che ci unì a letto,
per Venere e le nostre teste posate vicine.
Sono io che, quando giacevi
colpita da un male crudele,
con i miei voti, è risaputo,
ti ho strappata alla morte;
sono io che, bruciando intorno a te
zolfo vergine, ti ho purificata,
dopo che la vecchia aveva intonato
le sue formule magiche;
sono io che da te le visioni funeste
ho rimosso, perché non ti nuocessero,
scongiurandole tre volte col farro consacrato;
sono io che con la tunica sciolta
e vestito di lino
ho nel silenzio della notte
offerto a Trivia nove voti.
E tutti li ho sciolti, ma un altro
ora si gode il tuo amore,
giovandosi felice delle mie preghiere.
Come un pazzo sognavo per me una vita felice,
se tu fossi guarita, ma un dio si opponeva.
‘Lavorerò in campagna e accanto a me
sarà la mia Delia a custodire le biade,
mentre sull’aia al calore del sole
si trebbieranno le messi, o sorveglierà
nei tini ricolmi la mia vendemmia
e lo spumeggiare del mosto
spremuto dal ritmo dei piedi;
si abituerà a contare le mie greggi;
e lo stesso schiavetto impertinente
si abituerà a giocare in grembo
ad una padrona che l’ama.
E lei imparerà ad offrire
agli dèi dei contadini i grappoli per la vite,
le spighe per la messe, il cibo per il gregge;
e comanderà su tutti, si curerà di tutto,
mentre in tutta la casa
felice sarò io di non contar più nulla.
Qui verrà il mio Messalla e per lui Delia
dalle piante migliori raccoglierà la frutta matura;
e piena di rispetto per un uomo così illustre,
se ne occuperà con premura,
gli preparerà un banchetto e lo servirà lei stessa.’
Questi i miei sogni; ma ora Euro e Noto
li disperdono tra i profumi dell’Armenia.
Spesso ho tentato di cacciare gli affanni col vino,
ma il dolore m’ha mutato ogni vino in pianto.
Spesso ho tenuto fra le braccia un’altra,
ma quando già ero vicino al piacere
Venere mi evocò l’amata abbandonandomi;
e quell’altra, staccandosi da me,
allora mi disse stregato:
anche se si vergogna, racconta che la mia donna
conosce pratiche indicibili.
No, non mi seduce con sortilegi,
ma col suo viso, con le sue tenere braccia
la mia donna mi strega, con i suoi capelli biondi.
Così un giorno Teti, nereide azzurra,
su un pesce imbrigliato fu trasportata
verso Peleo, re dell’Emonia.
Questo il mio male. Se un amante ricco sta con lei,
a mia rovina venne un’astuta mezzana:
come vorrei che si cibasse di carne squartata
e con la bocca imbrattata di sangue
vuotasse colmi di fiele calici amari;
che intorno le volassero le anime
che piangono il loro destino,
mentre sul tetto senza posa
un gufo soffia la sua rabbia;
che, aizzata dai morsi della fame,
cercasse fra i sepolcri erbe e ossa
abbandonate dai lupi crudeli;
e che corresse ululando per tutta la città
con gli inguini scoperti,
inseguita da una muta di cani,
che implacabili la cacciano da un crocicchio all’altro.
Così avverrà: un dio me l’annunzia.
Ogni innamorato ha i suoi numi, e Venere,
se viene a torto abbandonata, non perdona.
Ma tu dimentica al più presto
gli insegnamenti interessati di questa tua maga.
E forse con i doni che si guadagna l’amore?
Un amante povero sarà sempre ai tuoi comandi;
un amante povero sarà il primo a presentarsi
e starà instancabile al tuo giovane fianco;
un amante povero nella ressa della gente,
compagno fedele, ti darà il braccio aprendoti la strada;
un amante povero in casa di amici discreti
ti accompagnerà di nascosto
e dai piedi color di neve
egli stesso ti slaccerà i calzari.
Ahimè, inutilmente canto:
vinta dalle parole non si apre la porta:
a mani colme va bussata.
Ma tu, che oggi a me sei preferito,
trema per ciò che m’hai rubato:
in un solo giro di ruota, un attimo
e cambia la fortuna.
Non senza ragione già ora sulla soglia
s’arresta a curiosare un uomo,
lancia qualche sguardo e scompare,
finge d’andarsene oltre la casa,
ma subito torna sui passi, solitario,
e tossisce ogni volta davanti alla porta.
Non so cosa in segreto ti prepari Amore.
Dunque approfitta finché t’è concesso:
la barca galleggia in acque tranquille.

Alcibiades, I

Alcibiades, Cliniae filius, Atheniensis. In hoc, quid natura efficere possit, videtur experta. Constat enim inter omnes, qui de eo memoriae prodiderunt, nihil illo fuisse excellentius vel in vitiis vel in virtutibus. Natus in amplissima civitate summo genere, omnium aetatis suae multo formosissimus, ad omnes res aptus consiliique plenus – namque imperator fuit summus et mari et terra, disertus, ut in primis dicendo valeret, quod tanta erat commendatio oris atque orationis, ut nemo ei [dicendo] posset resistere -, dives; cum tempus posceret, laboriosus, patiens; liberalis, splendidus non minus in vita quam victu; affabilis, blandus, temporibus callidissime serviens: idem, simulac se remiserat neque causa suberat, quare animi laborem perferret, luxuriosus, dissolutus, libidinosus, intemperans reperiebatur, ut omnes admirarentur in uno homine tantam esse dissimilitudinem tamque diversam naturam.

Alcibiade, figlio di Clinia, Ateniese. In lui la natura sembra aver sperimentato il suo potere. Tutti quelli che hanno scritto di lui, sanno bene che non ci fu nessuno più straordinario e nelle virtù e nei vizi. Nato in una grande metropoli, di nobilissima stirpe, di gran lunga il più bello di tutti quelli della sua età, ricco, abile in ogni attività e pieno di senno (fu infatti valentissimo comandante per terra e per mare); facondo tanto da essere tra i primi nel parlare, perché tale era il fascino della sua dizione e delle sue parole, che nessuno poteva resistergli; ricco, quando lo richiesero le circostanze: laborioso, resistente, generoso, splendido non meno nella vita pubblica che nella vita privata, affabile, mite, capace di adattarsi alle circostanze: ma non appena allentava la sua tensione e non aveva motivo per impegnarsi, si rivelava sfarzoso, dissoluto, lussurioso, sregolato, sì che tutti si meravigliavano che in una stessa persona ci fosse una così stridente contraddizione e una così varia natura.

“La figila del re Latino”

Antiquissimis temporibus rex Latinus, dum in Latio regnat, Amatam in matrimonium duxerat et filiam eximiae formae genuerat, cui nomen Lavinia fuit. Cum puella adolevisset, Amata regina Turno, Rutulorum regi, despondit et tempus sollemnibus nuptiis cum eo constituit. Sed, urbi in Latium venit Turnus, nuptialia munera ferens ut constitutas nuptias celebraret, repentino portento matrimonium perturbantum et impeditum est, quia fatis statutum erat ut Lavinia externo duci nuberet. Nam flammae comas et coronam gemmatam, quam virgo capite gerebat, repente incenderunt, neque tamen vultum eius laeserunt. Quod prodigium cum omnium animos perterruisset, Latinus rex in proximam silvam processit, ubi erat sollemni altare, ut deos de nuptiis interruptis consuleret. Qui claris verbis per haruspicem responderunt filiam eius uxorem advenae futuram esse.

Nell’antichità più remota, il re Latino ““ all’epoca in cui regnava nel Lazio ““ aveva sposato Amata ed aveva messo al mondo una figlia bellissima, di nome Lavinia. Una volta che la fanciulla fu cresciuta, la regina Amata (la) promise in sposa a Turno, re dei Rutuli, e stabilì con lui la data per le solenni nozze. Ma, giunto che fu Turno nel Lazio, portando doni nuziali per celebrare le nozze stabilite, il matrimonio fu turbato ed intralciato da un improvviso prodigio, dato che dai Fati era stato stabilito che Lavinia andasse in sposa ad un condottiero straniero. Infatti, fiamme improvvise avvolsero la chioma (di Lavinia) e la corona tempestata di gemme che la fanciulla portava sul capo, senza tuttavia intaccarle il viso. Avendo tale prodigio terrorizzato gli animi di tutti (i presenti), il re Latino si portò nel bosco più vicino, dov’era l’altare solenne, per consultare gli dèi sul perché le nozze fossero state interrotte. Essi (gli dèi), per mezzo di un aruspice, risposero, con chiare parole, che sua figlia sarebbe divenuta moglie di uno straniero.

Epitomae, I, 1-2

Antiquissimis temporibus primi in Asia Assyrii regnum condidisse feruntur. Quorum rex Ninus, primum finitimis, tum aliis populis perdomitis, totius Orientis populos subegit. Postremoilli bellum cum Zoroastre, rege Bactrianorum, fuit, qui primus dicitur artes magicas invenisse siderumque motus diligentissime spectasse. Hoc occiso etiam ipse decessit, relicto impubere filio Ninya et uxore Semiramide. Semiramis, nec filio immaturo ausa tradere imperium, nec ipsa palam capessere, sexum dissimulans, brachia et crura velamentis, caput tiara tegit; et, ne novo habitu aliquid occultare videretur, eodem modo etiam populum vestiri iussit; sic Semiramis primis regni initiis Ninyas esse credita est. Magnas deinde res gessit, ita ut mulier etiam viros virtute superare videretur. Babyloniam condidit muroque urbem cocto latere circumdedit, Aethiopiam imperio adiecit et Indis bellum intulit. Ad postremum a filio interfecta est, cum duo et quadraginta annos post Ninum regnavisset.

Leggenda vuole che, in un passato molto remoto, gli Assiri fossero stati i primi a fondare un regno in Asia. Nino, il loro re, assoggettò i popoli dell’intero Oriente, dopo aver soggiogato, in un primo momento, i popoli confinanti, poi (tutti) gli altri. In ultimo, entrò in guerra contro Zoroastro, re dei Battriani, il quale ““ secondo la leggenda ““ inventò per primo le arti magiche e (per primo) osservò, con molta attenzione il moto delle stelle. Dopo averlo ucciso, anch’egli (Nino) morì, lasciando il figlioletto Ninia e la moglie Semiramide. Semiramide, non osando affidare il regno al figlio (che era) molto giovane, né (osando) assumer(lo) ella stessa in modo manifesto, (si) coprì la chioma con un turbante, nascondendo i propri attributi femminili, le braccia e le gambe con veli; e per non dar l’impressione di (voler) nascondere qualcosa con quel singolare vestiario, ordinò che anche il popolo si vestisse allo stesso modo. Così, ai primi tempi del regno, Semiramide passò per Ninia. In seguito, compì grandi imprese, tal che, benché donna, parve superare gli uomini in valore. Fondò Babilonia, e circondò la città con una solida muraglia, annetté al regno l’Etiopia e dichiarò guerra agl’Indi. Alla fine, dopo aver regnato 42 anni dalla morte di Nino, venne (a sua volta) uccisa dal figlio.

De natura deorum, II, 39

Ac principio terra universa cernatur, locata in media sede mundi, solida et globosa et undique ipsa in sese nutibus suis conglobata, vestita floribus, herbis, arboribus, frugibus, quorum omnium incredibilis multitudo insatiabili varietate distinguitur. Adde huc fontium gelidas perennitates, liquores perlucidos amnium, riparum vestitus viridissimos, speluncarum concavas altitudines, saxorum asperitates, inpendentium montium altitudines inmensitatesque camporum; adde etiam reconditas auri argentique venas infinitamque vim marmoris. 99. Quae vero et quam varia genera bestiarum vel cicurum vel ferarum! qui volucrium lapsus atque cantus! qui pecudum pastus! quae vita silvestrium! Quid iam de hominum genere dicam? qui quasi cultores terrae constituti non patiuntur eam nec inmanitate beluarum efferari nec stirpium asperitate vastari, quorumque operibus agri, insulae litoraque collucent distincta tectis et urbibus. Quae si, ut animis, sic oculis videre possemus, nemo cunctam intuens terram de divina ratione dubitaret.

E in primo luogo si guardi la terra nel suo insieme, collocata al centro del mondo, compatta, sferica, e interamente riunita in una sola massa dalla sua stessa gravitazione, vestita di fiori, erbe, alberi, frutti, tutti esseri viventi la cui incredibile moltitudine è differenziata da un’inesauribile varietà. Aggiungi le fonti gelide e perenni, l’acqua trasparente dei fiumi, le rive rivestite di un manto verdissimo, le profonde cavità delle caverne, l’asprezza delle rocce, l’altezza dei monti scoscesi, l’immensità delle pianure; aggiungi inoltre i giacimenti nascosti di oro e di argento e il marmo in quantità infinita. Quali e quanto varie sono le specie di animali sia domestici che selvatici, quali il volo e il canto degli uccelli, quali i pascoli del bestiame, quale la vita delle selve! Che dire poi del genere umano, che, posto per cosi dire come coltivatore della terra, non lascia che essa sia inselvatichita dalla bestialità delle fiere e sia isterilita da una crescita selvaggia delle erbe, e le cui opere ornano e fanno risplendere di case e di città le terre, le isole, i litorali? Se potessimo vedere tutto questo con gli occhi cosi come lo vediamo con la mente, nessuno, alla vista della terra intera, dubiterebbe dell’esistenza dell’intelligenza divina.

Agesilaus, IV, 4

Hic cum iam animo meditaretur proficisci in Persas et ipsum regem adoriri, nuntius ei domo venit ephororum missu, bellum Athenienses et Boeotos indixisse Lacedaemoniis; quare venire ne dubitaret. In hoc non minus eius pietas suspicienda est quam virtus bellica: qui cum victori praeesset exercitui maximamque haberet fiduciam regni Persarum potiundi, tanta modestia dicto audiens fuit iussis absentium magistratuum, ut si privatus in comitio esset Spartae. Cuius exemplum utinam imperatores nostri sequi voluissent! Sed illuc redeamus. Agesilaus opulentissimo regno praeposuit bonam existimationem multoque gloriosius duxit, si institutis patriae paruisset, quam si bello superasset Asiam. Hac igitur mente Hellespontum copias traiecit tantaque usus est celeritate, ut quod iter Xerxes anno vertente confecerat, hic transierit XXX diebus. Cum iam haud ita longe abesset a Peloponneso, obsistere ei conati sunt Athenienses et Boeotii ceterique eorum socii apud Coroneam; quos omnes gravi proelio vicit. Huius victoriae vel maxima fuit laus, quod, cum plerique ex fuga se in templum Minervae coniecissent quaerereturque ab eo, quid his vellet fieri, etsi aliquot vulnera acceperat eo proelio et iratus videbatur omnibus, qui adversus arma tulerant, tamen antetulit irae religionem et eos vetuit violari. Neque vero hoc solum in Graecia fecit, ut templa deorum sancta haberet, sed etiam apud barbaros summa religione omnia simulacra arasque conservavit. Itaque praedicabat mirari se, non sacrilegorum numero haberi, qui supplicibus eorum nocuissent, aut non gravioribus poenis affici, qui religionem minuerent, quam qui fana spoliarent.

Mentre progettava di fare una spedizione contro i Persiani ed attaccare il re stesso, gli giunse dalla patria, da parte degli èfori, il messaggio, che gli Ateniesi ed i Beoti avevano dichiarato guerra agli Spartani, perciò non indugiasse a tornare. In questo frangente va ammirato il suo amor patrio non meno del suo valore militare: egli comandava un esercito vittorioso ed aveva la massima fiducia di impadronirsi del regno persiano, tuttavia con tanto ossequio obbedì agli ordini dei magistrati lontani come se fosse stato privato cittadino nell’assemblea di Sparta. E magari i nostri generali avessero voluto imitare il suo esempio! Ma torniamo all’argomento. Agesilao ad un regno ricchissimo antepose la buona reputazione e stimò molto più glorioso, se avesse obbedito alle istituzioni della patria, che se avesse conquistato in guerra l’Asia. Con questi sentimenti dunque trasportò le truppe oltre l’Ellesponto e fu di tanta rapidità che il tragitto che Serse aveva compiuto nel corso di un anno, egli lo compì in trenta giorni. Mentre già si trovava non molto lontano dal Peloponneso, gli Ateniesi ed i Beoti e gli altri alleati tentarono di sbarrargli la strada presso Coronea: ma egli li vinse tutti in un’aspra battaglia. La gloria di questa vittoria raggiunse il culmine quando, rifugiatisi moltissimi fuggiaschi nel tempio di Minerva e chiedendoglisi che cosa voleva che si facesse di loro, egli nonostante che avesse ricevuto in quel combattimento alquante ferite e sembrasse adirato verso tutti coloro che avevano preso le armi contro di lui, tuttavia antepose all’ira il sentimento religioso e vietò che fossero violati. E questo, di ritenere inviolabili i templi degli dèi, non lo fece solo in Grecia, ma anche presso i barbari conservò, con grandissimo rispetto, tutte le statue e le are. Pertanto soleva dire di meravigliarsi che non fossero ritenuti dei sacrileghi coloro che avessero recato del male ai supplici degli dèi o che coloro che offendevano la religione non fossero puniti con pene più severe di coloro che spogliavano i templi.

Pro Sulla, XXVI

Ego, tantis a me beneficiis in re publica positis, si nullum aliud mihi praemium ab senatu populoque Romano nisi honestum otium postularem, quis non concederet? Quid? Si hoc non postulo, heac dominandi cupido exstimanda est? Res enim gestae mea num me nimisextulerunt vel superbos spiritus attulerunt? Quibus de rebus tam claris, tam immortalibus, hoc possum dicere, me qui ex summis periculis eripuerim urbem hanc et vitam omnium civium satis adeptum fore, si ex hoc tanto in omnis mortalis beneficio nullum in me periculum redundarit. Etenim in qua civitate res tantas gesserim memini, in qua urbe verser intellego. Plenum forum est eorum hominum quos ego a vestris cervicibus depulia meis non removi. Horum ego faces eripere de manibus et gladios extorquere potui, sicuti feci, voluntates vero consceleratas ac nefarias nec sanare potui nec tollere. Quare non sum nescius quanto periculo vivam in tanta multitudine improborum, cum mihi uni cum omnibus improbis aeternum videam bellum esse susceptum.

Se – dopo tanti benefici resi da me allo Stato – io per me avessi chiesto al senato ed al popolo di Roma nessun’altra ricompensa se non un onorevole otium, chi avrebbe osato non concedermelo? E allora? Il fatto che io non avanzi tale richiesta dev’essere ritenuto prova di un’eccessiva brama di potere? Forse che, allora, le mie imprese m’hanno insuperbito oltre il lecito? In realtà, a riguardo delle mie imprese, effettivamente meritorie d’immortale lustro, questo posso dire: mi riterrei già abbastanza ricompensato se (ora) non mi trovassi esposto ad alcun pericolo, per l’essermi prodigato così tanto in favore della comunità, ovvero per l’aver tratto in salvo questa città, e la vita di tutti i (suoi) cittadini, dalla rovina. In realtà, ben ricordo in che Stato io abbia compiuto cotante imprese, e ben mi rendo conto in che città io ora (nonostante ciò) mi trovi a vivere. Il foro pullula di quei (loschi) individui da cui vi ho personalmente liberati, senza che io stesso me ne sbarazzassi (del tutto). Ho agito secondo il possibile, disarmandoli, con la forza, delle (loro) fiaccole incendiare e delle (loro) spade; ma non sono certo riuscito a temprare, né tantomeno ad estirpare, i loro propositi scellerati ed omicidi. Per la qual cosa, mi rendo perfettamente conto in quanto grande pericolo io a tutt’oggi versi, in mezzo ad una tal folla di scellerati: anzi, mi sembra d’aver ingaggiato, io solo, un scontro personale e destinato a non finire mai contro tutti i malvagi (che si trovano in Roma).

Confessiones, XI, 28

Sed quomodo minuitur aut consumitur futurum, quod nondum est, aut quomodo crescit praeteritum, quod iam non est, nisi quia in animo, qui illud agit, tria sunt? nam et expectat per id quod adtendit transeat in id quod meminerit. quis igitur negat futura nondum esse? sed tamen iam est in animo expectatio futurorum. et quis negat praeterita iam non esse? sed tamen est adhuc in animo memoria praeteritorum. et quis negat praesens tempus carere spatio, quia in puncto praeterit? sed tamen perdurat attentio, per quam pergat abesse quod aderit. non igitur longum tempus futurum, quod non est, sed longum futurum longa expectatio futuri est, neque longum praeteritum tempus, quod non est, sed longum praeteritum longa memoria praeteriti est. Dicturus sum canticum, quod novi: antequam incipiam, in totum expectatio mea tenditur, cum autem coepero, quantum ex illa in praeteritum decerpsero, tenditur et memoria mea, atque distenditur vita huius actionis meae, in memoriam propter quod dixi, et in expectationem propter quod dicturus sum: praesens tamen adest attentio mea, per quam traicitur quod erat futurum, ut fiat praeteritum. quod quanto magis agitur et agitur, tanto breviata expectatione prolongatur memoria, donec tota expectatio consumatur, quum tota illa actio finita transierit in memoriam. et quod in toto cantico, hoc in singulis particulis eius, fit atque in singulis syllabis eius, hoc in actione longiore, cuius forte particula est illud canticum, hoc in tota vita hominis, cuius partes sunt omnes actiones hominis, hoc in toto saeculo filiorum hominum, cuius partes sunt omnes vitae hominum.

Ma come può decrescere o consumarsi il futuro che non esiste ancora, e come può crescere il passato che non esiste più, se non in quanto esistono tutti e tre nella mente che opera questo processo? Perché è la mente che ha aspettative, fa attenzione, ricorda: e quello che si aspetta le si fa oggetto di attenzione per divenire oggetto di memoria. Chi nega allora che il futuro ancora non esista? Ma c’è già l’aspettativa mentale del futuro. E chi nega che il passato non esista più? Ma nella mente ancora c’è il ricordo del passato. E chi nega che il tempo presente sia privo di estensione, poiché passa in un punto? Ma ciò che perdura è l’attenzione, attraverso la quale ogni cosa si abbia presente sconfina gradualmente nell’assenza. Quindi non è lungo il tempo futuro, che non esiste, ma un lungo futuro è una aspettativa a lungo termine di cose a venire, e non è lungo il passato, che non esiste, ma un lungo passato è una memoria di lunga durata delle cose avvenute. Mi dispongo a cantare una canzone che conosco: prima di cominciare la mia aspettativa è protesa alla composizione nel suo insieme; ma basta che cominci ed ecco, via via che faccio crescere il passato a spese dell’aspettativa, il mio ricordo si estende in proporzione: e il mio vivere in questa azione è un protrarsi nella memoria di ciò che ho già detto e nell’aspettativa di ciò che sto per dire. Ma l’attenzione è presente, ed è la sua presenza a far sì che ciò che era futuro si traduca in passato. Via via che questa azione si compie, l’aspettattiva si accorcia e il ricordo si allunga, finché l’aspettativa è tutta consumata, quando l’azione è compiuta e passata tutta nella memoria. E ciò che avviene dell’intera canzone avviene anche di ciascuna sua minima parte fino alle singole sillabe, e di un’azione più lunga di cui quella canzone può far parte, e dell’intera vita di un uomo, che è costituita da tutte le sue azioni, e dell’intera storia dei figli degli uomini, che è costituita da tutte le vite umane.

Ab Urbe Condita, XXXVIII, 38

Cum Apamaeam, ubi consul Gneus Manlius castra posuerat, Antiochi regis legati venissent, foedus in haec fere verba conscriptum est: “Amicitia regi Antiocho cum populo Romano his legibus condicionibusque esto: Ne ullum exercitum, qui cum populo Romano sociisve bellum gesturus erit, rex Antiochus per fines suos transire sinat; neu commeatu neque alia ope eos adiuvet. Idem Romani sociique Antiocho praestent. Bellum gerendi ius Antiocho ne esto cum iis, qui insulas colunt, neve ei ullo modo in Europam transire liceat. Excedito urbibus, agris, castellis, vicis, quae cis Taurum montem ad Halym amnem sunt, et a valle Tauri usque ad iuga, quae in Lycaoniam vergunt. Ne ulla arma extulerit ex iis oppidis, agris, castellisque, ex quibus excedat. Eumeni regi, populi Romani socio, talenta trecenta quinquaginta intra quinquennium dentur et pro frumento, ubi aestimatio facta erit, talenta centum viginti septem. Obsides Romanis viginti rex det et post triennium eos mutet. Controversiae inter se iure aut iudicio disceptentur, aut, si utrisque placebit, bello”.

Una volta giunti gli ambasciatori del re Antioco ad Apamea – dove il console Cneo Manlio s’era accampato – il trattato fu redatto pressappoco in questi termini: “Sarà in vigore un’alleanza tra il re Antioco e Roma a questi patti ed a queste condizioni: il re Antioco non deve permettere ad alcun esercito – che avrà mostrato intenzione di portare guerra al popolo di Roma – di transitare entro il proprio territorio, né lo deve aiutare con rifornimenti o in altro modo. I Romani e gli alleati offriranno identiche garanzie ad Antioco. Antioco (inoltre) non avrà diritto di portare guerra agli abitanti delle isole, né potrà in alcun modo passare in Europa. (Il re) dovrà abbandonare le città, le campagne, le roccaforti e i villaggi che s’estendono al di qua del monte Tauro fino al fiume Halis, e dalla vallata del Tauro fino alle vette verso la Licaonia; non porterà (via) alcuna arma da quelle cittadelle, (da quei) campi e (da quelle) roccaforti, dalle quali si ritirerà. Si dovranno versare (dal re Antioco) al re Eumene – stretto alleato del popolo romano – 350 talenti in 5 anni e, al posto del frumento, 127 talenti, (qualora sarà stata stimata una) somma (equivalente). Il re (Antioco, inoltre) dovrà consegnare ai Romani 20 ostaggi e li dovrà cambiare dopo 3 anni. Le reciproche controversie dovranno risolversi o con mezzi diplomatici oppure – se sarà tale la volontà di entrambi – con la guerra”.

Historiarum Alexandri Magni, VIII, 9

Sed ne otium serendis rumoribus natum aleret, in Indiam movit, semper bello quam post victoriam clarior. India tota ferme spectat orientem, minus in latitudinem quam recta regione spatiosa. Quae austrum accipiunt, in altius terrae fastigium excedunt; plana sunt cetera, multisque inclitis amnibus Caucaso monte ortis placidum per campos iter praebent. Indus gelidior est quam ceteri; aquas vehit a colore maris haud multum abhorrentes. Ganges omnium ab Oriente fluvius eximius a meridiana regione decurrit, et magnorum montium iuga recto alveo stringit; inde eum obiectae rupes inclinant ad orientem. Vterque Rubro mari accipitur. Indus ripas multasque arbores cum magna soli parte exorbet, saxis quoque inpeditus, quis crebro reverberatur; ubi mollius solum reperit, stagnat insulasque molitur. Acesines eum auget; Ganges decursurum in mare intercipit, magnoque motu amnis uterque colliditur, quippe Ganges asperum os influenti obicit, nec repercussae aquae cedunt.

Diardines minus celeber auditu est, quia per ultima Indiae currit; ceterum non crocodillos modo, uti Nilus, sed etiam delphinos ignotasque aliis gentibus beluas alit. Ethymantus crebris flexibus subinde curvatus ab accolis rigantibus carpitur: ea causa est, cur tenues reliquias iam sine nomine in mare emittat. Multis praeter hos amnibus tota regio dividitur, sed ignobiles, quia non adita interfluunt. Ceterum, quae propiora sunt mari, aquilone maxime deuruntur; is cohibitus iugis montium ad interiora non penetrat, ita alendis frugibus mitia. Sed adeo in illa plaga mundus statas temporum vices mutat, ut, cum alia fervore solis exaestuant, Indiam nives obruant, rursusque, ubi cetera rigent, illic intolerandus aestus existat; nec, cur verterit se natura, causa. Mare certe, quo adluitur, ne colore quidem abhorret a ceteris; ab Erythro rege inditum est nomen, propter quod ignari rubere aquas credunt. Terra lini ferax; inde plerisque sunt vestes. Libri arborum teneri, haud secus quam chartae, litterarum notas capiunt. Aves ad imitandum humanae vocis sonum dociles sunt “animalia invisitata ceteris gentibus, nisi invecta”. Eadem terra rhinocerotas alit, non generat. Elephantorum maior est vis quam quos in Africa domitant, et viribus magnitudo respondet. Aurum flumina vehunt, quae leni modicoque lapsu segnes aquas ducunt. Gemmas margaritasque mare litoribus infundit; neque alia illis maior opulentiae causa est, utique postquam vitiorum commercium vulgavere in exteras gentes: quippe aestimantur purgamenta exaestuantis freti pretio, quod libido constituit.

Ingenia hominum, sicut ubique, apud illos locorum quoque situs format. Corpora usque pedes carbaso velant; soleis pedes, capita linteis vinciunt; lapilli ex auribus pendent; brachia quoque et lacertos auro colunt, quibus inter populares aut nobilitas aut opes eminent. Capillum pectunt saepius, quam tondent, mentum semper intonsum est; reliquam oris cutem ad speciem levitatis exaequant. Regum tamen luxuria, quam ipsi magnificentiam appellant, super omnium gentium vitia. Cum rex semet in publico conspici patitur, turibula argentea ministri ferunt, totumque iter, per quod ferri destinavit, odoribus conplent. Aurea lectica margaritis circumpendentibus recubat; distincta sunt auro et purpura carbasa quae indutus est; lecticam sequuntur armati corporisque custodes. Inter quos ramis aves pendent, quas cantu seriis rebus obstrepere docuerunt. Regia auratas columnas habet: totas eas vitis auro caelata percurrit, aviumque, quarum visu maxime gaudent, argenteae effigies opera distinguunt. Regia adeuntibus patet, cum capillum pectit atque ornat: tunc responsa legationibus, tunc iura popularibus reddit. Demptis soleis, odoribus inlinuntur pedes. Venatus maximus labor est inclusa vivario animalia inter vota cantusque pelicum figere. Binum cubitorum sagittae sunt, quas emittunt maiore nisu, quam effectu; quippe telum, cuius in levitate vis omnis est, inhabili pondere oneratur. Breviora itinera equo conficit: longior ubi expeditio est, elephanti vehunt currum, et tantarum beluarum corpora tota contegunt auro. Ac, ne quid perditis moribus desit, lecticis aureis pelicum longus ordo sequitur: separatum a reginae ordine agmen est, aequatque luxuriam. Feminae epulas parant; ab isdem vinum ministratur, cuius omnibus Indis largus est usus. Regem mero somnoque sopitum in cubiculum pelices referunt patrio carmine noctium invocantes deos. Quis credat inter haec vitia curam esse sapientiae? Vnum agreste et horridum genus est, quod sapientes vocant. Apud hos, occupare fati diem pulchrum; et vivos se cremari iubent, quibus aut segnis aetas aut incommoda valetudo est. Exspectatam mortem pro dedecore vitae habent, nec ullus corporibus, quae senectus solvit, honos redditur: inquinari putant ignem, nisi qui spirantes recipit. Illi, qui in urbibus publicis moribus degunt, siderum motus scite spectare dicuntur et futura praedicere; nec quemquam admovere leti diem credunt, cui exspectare interrito liceat.

Deos putant, quidquid colere coeperunt, arbores maxime, quas violare capital est. Menses in quinos denos discripserunt dies; anni plena spatia servantur. Lunae cursu notant tempora, non, ut plerique, cum orbem sidus inplevit, sed cum se curvare coepit in cornua; et idcirco breviores habent menses, quia spatium eorum ad hunc lunae modum dirigunt. Multa et alia traduntur, quibus morari ordinem rerum haud sane operae videbatur.

Ma per non alimentare l’ozio, che è nato per favorire le dicerie, mosse verso l’India, più famoso sempre in guerra che dopo una vittoria. Quasi tutta India volge ad oriente, meno ampia in larghezza che in lunghezza. Le terre che ricevono l’austro innalzano le loro cime più in alto; le altre sono pianeggianti, ed offrono un placido percorso, attraverso i campi, ai molti famosi fiumi che nascono dal monte Caucaso. L’Indo è più freddo degli altri; trasporta acque non molto dissimili dal colore del mare. Il più famoso di tutti quelli che provengono dall’Oriente, il fiume Gange, scorre dalla regione di mezzogiorno, e tocca, col suo alveo diritto, le pendici di alte montagne; quindi le rocce che incontra lo fanno volgere ad oriente. Entrambi i fiumi sboccano nel Mar Rosso. L’Indo erode le sue rive e inghiotte numerosi alberi con gran parte del suolo, ostacolato anche da rocce, dalle quali spesso è ripercosso; dove incontra un terreno più cedevole, ristagna e forma delle isole. L’Acesine è un suo immissario; il Gange lo intercetta quando sta per gettarsi in mare, ed entrambi i fiumi si scontrano con gran fragore, giacché il Gange oppone all’immissario un tumultuoso sbocco e le acque, pur se respinte, non retrocedono.

Il Diardine è meno celebre come fama, poiché scorre attraverso le estreme regioni dell’India; per il resto esso alimenta non solo coccodrilli, come il Nilo, ma anche delfini ed altri animali, sconosciuti agli altri popoli. L’Etimanto, spesso curvato dalle frequenti anse, viene attinto dagli abitanti per irrigare: questo è il motivo per il quale fa giungere in mare scarsi residui ormai senza nome. Oltre questi, l’intero territorio è solcato da molti fiumi, ma poco conosciuti, poiché scorrono in regioni inesplorate. Per il resto, le regioni che sono più vicine al mare vengono disseccate violentemente dal vento del nord; frenato dai gioghi dei monti, esso non giunge nelle zone più interne, così favorevoli alla crescita delle messi. Ma in quella regione la terra varia il normale mutare delle stagioni a tal punto che, quando le altre zone avvampano sotto il calore del sole, le nevi ricoprono l’India, e viceversa, quando le altre terre gelano, lì ristagna un calore insopportabile; e non si conosce la causa del perché la natura si trasformi. Certamente il mare, da cui è bagnata, non differisce dagli altri nemmeno per il colore; il nome gli è stato imposto dal re Eritro, ragion per cui coloro che non lo sanno credono che le sue acque siano rosse. La terra è fertile di lino; da qui tutti ricavano le vesti. Le tenere cortecce degli alberi ricevono i segni delle lettere, non diversamente dalla carta. Vi sono uccelli che imparano facilmente ad imitare il suono della voce umana, “animali mai visti dalle altre genti, se non importati”. La stessa terra nutre rinoceronti, ma non li genera. La forza degli elefanti è maggiore di quella che domano in Africa, e alla forza corrisponde la grandezza. I fiumi, che con lieve e moderato corso menano acque pigre, trasportano oro. Il mare lascia sulle spiagge gemme e perle; e per essi non vi è altra maggior causa di ricchezza, soprattutto dopo che hanno diffuso tra i popoli stranieri il commercio dei vizi: infatti i residui del mare che ribolle vengono valutati al prezzo che il loro arbitrio stabilisce.

Così come in ogni luogo, anche presso di loro la posizione dei luoghi forma il carattere degli uomini. Si coprono il corpo con una veste lunga fino ai piedi; legano ai piedi dei calzari e delle bende di lino al capo; pietre preziose pendono dai loro orecchi; quelli che spiccano tra i popolo per nobiltà o per ricchezze adornano d’oro anche le intere braccia. Si pettinano più spesso di quanto si radano, il loro mento è sempre non rasato; rendono liscia ed uniforme la restante pelle della faccia. Tuttavia il lusso dei re, che essi chiamano magnificenza, supera i vizi di tutti i popoli. Quando il re acconsente ad apparire in pubblico, i servi portano dei turiboli d’argento, e riempiono di effluvi tutto il percorso attraverso il quale il re ha stabilito esser trasportato. Egli è sdraiato su una lettiga d’oro attorno alla quale pendono delle perle; le vesti che indossa sono adorne di oro e di porpora; soldati in armi e guardie del corpo marciano dietro la lettiga. In mezzo ad essi, su dei rami, sono sospesi uccelli, che hanno ammaestrato a distoglierlo, con il loro canto, dalle questioni serie. La reggia ha colonne dorate: tralci ornati d’oro le percorrono tutte, e sull’opera si distinguono figure d’argento di uccelli, della cui visione essi godono moltissimo. La reggia è aperta a chi vi giunge, quando il re si pettina e si adorna: allora egli dà le sue risposte alle delegazioni e detta le leggi al popolo. Dopo essersi tolti i calzari, i piedi vengono unti con balsami. Nella caccia la principale attività è di trafiggere animali racchiusi in un parco, tra i voti e i canti di cortigiane. Le frecce sono lunghe due cubiti, e le scagliano con più sforzo che risultato; infatti il dardo, nei cui leggerezza è riposta tutta la sua forza, è gravata di un peso poco maneggevole. Il re percorre a cavallo percorsi alquanto brevi: quando il tragitto è troppo lungo, degli elefanti tirano il carro ed essi ricoprono d’oro l’intero corpo di animali così grandi. E affinché non manchi qualcosa a tali corrotti costumi, una lunga schiera di cortigiane tiene dietro, su lettighe d’oro: tale schiera è separata da quella della regina, ma ne uguaglia lo sfarzo. Le donne approntano i banchetti; da esse viene servito il vino, di cui tutti gli Indi fanno largo uso. Le cortigiane riportano nella stanza da letto il re, stordito dal vino e dal sonno, invocando gli dèi della notte con un canto avito. Chi potrebbe credere che tra questi vizi ci sia attenzione per la sapienza? Vi è una sola stirpe, agreste e semplice, che essi chiamano “˜sapienti’. Presso costoro è bello prevenire il giorno del destino; e stabiliscono di esser cremati da vivi, quando sono in tarda età oppure affetti da salute cagionevole. Reputano l’attendere la morte una vergogna per la vita, e nessun onore viene reso ai corpi che la vecchiaia ha consumato: ritengono che il fuoco venga inquinato se non accoglie chi respira ancora. Si dice che coloro che nelle città vivono secondo i normali costumi, osservino con perizia i moti degli astri e predicano il futuro; e credono che nessuno si accosti al giorno della fine, se è capace di aspettarlo senza paura.

Credono dèi qualsiasi cosa essi abbiano iniziato a venerare, soprattutto gli alberi, profanare i quali è reato capitale. Hanno ripartito i mesi in quindici giorni; dell’anno conservano la piena durata. Scandiscono il tempo dal corso della luna e non, come la maggior parte dei popoli, quando l’astro ha riempito il suo disco, ma quando inizia a formare i due corni; e per questo motivo hanno mesi più brevi, perché riferiscono la loro durata a questa fase della luna. Si raccontano molte altre cose, ma non mi sembrava davvero il caso, con esse, di ritardare l’ordine degli avvenimenti dell’opera.

De Architectura, II, 1

Homines vetere more ut ferae in silvis et speluncis et nemoribus nascebantur ciboque agresti vescendo vitam exigebant. Interea quondam in loco ab tempestatibus et ventis densae crebritatibus arbores agitatae et inter se terentes ramos ignem excitaverunt, et eius flamma vehementi perterriti, qui circa eum locum fuerunt, sunt fugati. Postea re quieta propius accedentes cum animadvertissent commoditatem esse magnam corporibus ad ignis teporem, ligna adicientes et id conservantes, alios adducebant et nutu monstrantes ostendebant, quas haberent ex eo utilitates. In eo hominum congressu cum profundebantur aliter e spiritu voces, cotidiana consuetudine vocabula, ut obtigerant, constituerunt, deinde significando res saepius in usu ex eventu fari fortuito coeperunt et ita sermones inter se procreaverunt.

Nell’antichità gli uomini nascevano come belve nelle foreste, nelle caverne e nei boschi e vivevano nutrendosi del cibo che raccoglievano nei campi. Poi, in qualche luogo, degli alberi folti, agitati da frequenti raffiche di vento, sfregando i rami l’uno contro l’altro, fecero scaturire il fuoco; allora tutti coloro che erano li vicino, atterriti dalle fiamme impetuose, fuggirono. Quando tutto tornò tranquillo, osarono avvicinarsi ed accorgendosi che il tepore del fuoco dava un gran beneficio ai loro corpi, aggiunsero legna per conservarlo; intanto chiamarono li altri uomini e a gesti fecero loro capire quanta utilità avrebbero potuto ricavare da questa scoperta. Durante quelle loro riunioni emettevano con la voce suoni diversi, arrivando poi, con l’uso quotidiano, a formare casualmente delle parole, con le quali indicavano gli oggetti di uso più frequente: cominciarono, insomma, in seguito a quel fortuito evento a parlare e così inventarono il linguaggio come loro mezzo di comunicazione.

Fabulae, 181 – Diana

Diana cum in valle opacissima cui nomen est Gargaphia aestivo tempore fatigata ex assidua venatione se ad fontem cui nomen est Parthenius perlueret, Actaeon Cadmi nepos, Aristaei et Autonoes filius, eundem locum petens ad refrigerandum se et canes, quos exercuerat feras persequens, in conspectum deae incidit: qui ne loqui posset, in cervum ab ea est conversus. ita pro cervo laceratus est a suis canibus, quorum nomina, masculi: Melampus, Ichnobates, Echnobas, Pamphagos, Dorceus, Oribasus, Nebrophonos, Laelaps, Theron, Pterelas, Agre, Hylaeus, Nape, Ladon, Asbolus, Poemenis, Therodanapis, Aura, Lacon, Harpyia, Aello, Dromas, Thous, Canache, Cyprius, Sticte, Labros, Arcas, Argiodus, Tigris, Hylactor, Alce, Harpalus, Lycisce, Melaneus, Lachne, Leucon. item tres qui eum [Gnosius] consumpserunt foeminae Melanchaetes, Agre, Theridamas, Oresitrophos. Item alii auctores tradunt haec nomina: Acamas Syrus Aeon Stilbon Agrius Charops Aethon Coran Boreas Draco Eudromus Dromius Zephyrus Lampus Haemon Cyllopodes Harpalycus Machimus Ichneus Melampus Ocydromus Borax Ocythous Pachitus Obrimus, foeminae: Argo Arethusa Urania Theriope Dinomache Dioxippe Echione Gorgo Cyllo Harpyia Lynceste Leaene Lacaena Ocypete Ocydrome Oxyroe Orias +Sagnos Theriphone Volatos Chediaetros.

Un giorno d’estate in cui Diana, stanca della lunga caccia, si stava lavando in una fonte chiamata Partendo in un’ombrosissima valle detta Gargafia, in quello stesso luogo giunse Atteone, nipote di Cadmo e figlio di Aristeo e Autonome, per ristorare se stesso e i suoi cani che aveva sfinito nell’inseguimento delle fiere. Egli dunque si trovò davanti alla Dea; e perché non lo raccontasse a nessuno, ella lo trasformò in cervo, e come cervo egli venne sbranato dai suoi stessi cani. I loro nomi sono tra i maschi: Melampo, Icnobate, Pamfago, Dorceo, Oribaso, Nebrofono, Lelape, Terone, Pterelao, Ileo, Nape, Ladone, Pemenide, Terodanapi, Aura, Lacone, Arpia, Aello, Dromade, Too, Canace, Ciprio, Sticte, Labro, Arcade, Agriodo, Tigri, Pletore, Alce. Arpalo, Licisco, Melaneo, Lacne, Leucone. Le tre femmine, che come loro lo uccisero sono: Melanchete, Agre, Teridamante, Oresitrofo. Altri autori invece tramandano questi nomi: Acamante, Siro, Leone (…) Obrilo; le femmine furono: Argo, Artetusa, Urania (…), Chedrieto.

“Illustri personaggi romani”

Maxime digni memoria sunt Appius Claudius Caecus, qui bellum inter Romanos ac Pyrrhum regem diremit, ne populus Romanus ad externis regibus regeretur; Tiberius Gracchus, qui operam dedit ne Scipio in carcerem duceretur, dicens: “Nefas est Scipionem ibi esse, ubi eius captivi alligati tenetur!”. Duo Gracchi, Tiberii filii, qui in tribunatu interfecti sunt, quia agrariis legibus populi seditiones excitabant. Marcus Brutus, qui Caesarem interfecit, quod is regnum affectabat. Livius Drusus qui, cum agrarias leges promulgavisset et summus populi favorem obtinuisset, ne prossima perficeret, per insidias domi suae nacatus est. Cato Uticensis, qui bello civili cum Pompeianis pugnavit et mortem sibi conscivit ne superstes esset rei publicae servienti. Cornelius Cethegus qui, cum cognovit fratem suum cum Catilina in rem publicam coniurare, eum ad magistratum detulit ut capitis damnaretur.

Degni di essere ricordati sono Appio Claudio, che fece cessare la guerra tra i Romani e il re Pirro affinchè il popolo romano non fosse retto da re stranieri; Tiberio Gracco, il quale fece in modo che Scipione non fosse condotto in carcere, dicendo: ” E’ un’empietà che Scipione sia qui, dove sono tenuti legati i suoi schiavi!”. I due Gracchi, figli di Tiberio, che vennero uccisi durante il tribunato, piochè avevano eccitato le ribellioni del popolo a causa delle leggi agrarie. Marco Bruto, che uccise Cesare, perchè egli desiderava il regno. Livio Druso che, avendo promulgato le leggi agrarie e avendo ottenuto il sommo favore del popolo, per non deludere la promessa, fu ucciso in casa sua per mezzo di insidie. Catone l’Uticense, che combattè durante la guerra civile contro i pompeiani e si suicidò per non sopravvivere ad uno stato servile. Cornelio Cetego che, seppe che suo fratello congiurava con Catilina contro lo stato, lo tolse dalla magistratura e lo fece condannare a morte.

“Un esempio di adulazione incredibile”

Adulatores, ut regum et tyrannorum gratiam sibi concilient, non modo vera augent, sed interdum omnio falsa dicunt. Multi enim laudari cupiunt etiam ob eas virtutes qua non habent! Ideo avari interdum ob liberalitatem laudantur. turpes ob formam, indocti ob sapientiam. Se fortadde singulare est quod evenit Stratonicae, regis Seleucri uxori, quae, cum calva esset, tamen ob comae pulchritudinem celebrata est. Nam poetis certamen propositum est ac magnum praemium promissum est ei qui reginae comam optimae laudavisset. Tunc capilli eius a servilibus poetis aurei ac solis radiis similes dicti sunt et ob suavem odorem celebrati sunt. Adulatores igitur vitari debent, qui laudant solum ut locrum faciant.

Gli adulatori, per procurarsi la grazia dei re e dei tiranni, non solo esagerano la verità, ma talvolta dicono del tutto falsità. Molti infatti bramano di essere lodati anche per virtù che non hanno! Avari talvolta di essere lodati generosamente, brutti nell’aspetto, ignoranti nella sapienza. Ma forse è singolare quello che avvenne a Stratonicea: la moglie del re dei Seleucri, sebbene fosse calva, era celebrata per la bellezza della sua capigliatura. Infatti ai poeti fu proposta una gara e fu promesso un grande premio per chi avesse lodato nel modo migliore la capigliatura della regina. Allora i suoi capelli furono detti dai poeti d’oro e simili ai raggi del sole e furono celebrati per l’odore soave. Pertanto gli adulatori devono essere evitati, che lodano solo al fine di guadagnare.

Breviarium, III, 12

Anno quarto postquam in Italiam Hannibal venerat, M. Claudius Marcellus consul apud Nolam, Campaniae oppidum, contra Hannibalem, pugnaturus erat. Poenorum dux multas Romanorum civitates per Apuliam, Calabriam et Bruttios occupaverat multasque alias occupaturus erat. Quo tempore etiam Macedoniae rex Philippus ad eum legatos misit, auxilia promittens contra Romanos, sub hac condicione, ut, deletis Romanis, ipse quoque contra Graecos ab Hannibale auxilia acciperet. Captis igitur Philippi legatis et re cognita, Romani ad Macedoniam Marcum Valerium Laevinum proficisci iusserunt, ad Sardiniam Titum Manlium Torquatum proconsulem. Nam etiam ea regio, ab Hannibale sollicitata, Romanos deseruerat.

Nel quarto anno dopo che Annibale era giunto in Italia, il console M.Claudio Marcello presso Nola, città della Campania, stava per combattere contro Annibale. Il comandante dei Peni aveva occupato molte città dei romani in Puglia, Calabria e Abruzzo e stava per occuparne molte altre. In quel tempo anche il re della Macedonia Filippo mandò luotenenti a quello, promettendo aiuti contro i romani, a questa condizione, che, sconfitti i romani, anche lui stesso prendesse aiuti contro i Greci da Annibale. Catturati dunque gli ambasciatori di Filippo e conosciuta la cosa, i romani comandarono che Marco Valerio Levino partisse in Macedonia, e che il proconsole Tito Manlio Torquato andasse in Sardegna. Infatti quella regione, tormentata da Annibale, aveva abbandonato i romani.

“Il leone e il topolino”

Quidam leo in silva dormiebat et musculi petulantes circum eum ludebant unus ex eis imprudenter ad leonem adiit et in eius caput saluit ei molestiam offerens. Leo e somno excitatus statim musculum unguibus arripuit et iam eum voraturus erat cum misera bestiola flebiliter gemens leonem imploravit: “Domine ne me voraveris! Meam vitam serva! Ego a te veniam peto et propter clementiam tuam semper tibi gratus ero”. Risit leo et respondit: “Stulte! Tam parvus et debilis es ut nihil facere valeas attamen vitam tuam servabo! Abi neque iam molestiam mihi attuleris”. Post paucos dies leo qui per silvam ut praedam quareret incaute errabat in venatorum laqueos incidit. Frustra se liberare temptans tantum rugiebat ut musculus leonis voce longe audita statim accurrerit auxilium ei laturus. Nam ad laqueos adiit et dentibus acutis eos rosit comminuitque donec leo liber fuit. Itaque fortis leo a debili musculo servatus iustum misericordiae suae praemium accepit.

Un leone dormiva nel bosco e topolini insolenti giocavano attorno a lui. Uno di loro imprudentemente si avvicinò al leone e balzò sulla sua testa, recandogli fastidio. Il leone destato dal sonno subito afferrò con le unghia il topolino ed era già sul punto di divorarlo, quando la povera bestiola, gemendo flebilmente, implorò il leone: “Signore, forse vorresti divorarmi! Salva la mia vita! Io ti chiedo la grazia e tu sei così debole, che non hai la forza di fare nulla, tuttavia salverò la tua vita”. Dopo pochi giorni il leone, che vagava incautamente per il bosco per cercare una preda, cadde in trappole di cacciatori; tentando di liberarsi, ruggiva così tanto che il topolino, sentita da lontano la voce del leone, subito accorse per portargli aiuto. Infatti giunse alle trappole e con gli aguzzi denti le rosicchiò e le ruppe finchè il leone fu libero. Pertanto il forte leone salvato da un debole topolino ricevette la giusta ricompensa della sua compassione.

Hannibal, 3

Cuius post obitum, Hasdrubale imperatore suffecto, equitatui omni praefuit. Hoc quoque interfecto exercitus summam imperii ad eum detulit. Id Carthaginem delatum publice comprobatum est. Sic Hannibal, minor V et XX annis natus imperator factus, proximo triennio omnes gentes Hispaniae bello subegit; Saguntum, foederatam civitatem, vi expugnavit; tres exercitus maximos comparavit. Ex his unum in Africam misit, alterum cum Hasdrubale fratre in Hispania reliquit, tertium in Italiam secum duxit. Saltum Pyrenaeum transiit. Quacumque iter fecit, cum omnibus incolis conflixit: neminem nisi victum dimisit. Ad Alpes posteaquam venit, quae Italiam ab Gallia seiungunt, quas nemo umquam cum exercitu ante eum praeter Herculem Graium transierat, quo facto is hodie saltus Graius appellatur, Alpicos conantes prohibere transitu concidit; loca patefecit, itinera muniit, effecit, ut ea elephantus ornatus ire posset, qua antea unus homo inermis vix poterat repere. Hac copias traduxit in Italiamque pervenit.

Dopo la morte di questo, mentre Asdrubale prese il suo posto di comandante supremo, egli fu a capo di tutta la cavalleria. Ucciso anche costui, l’esercito affidò a lui il comando supremo. Questa nomina riferita a Cartagine ebbe la ratifica ufficiale. Così Annibale diventato generale non ancora venticinquenne, nei tre anni che seguirono sottomise con le armi tutte le genti della Spagna; espugnò con la forza Sagunto città alleata; allestì tre poderosi eserciti. Di questi uno ne mandò in Africa; un altro lo lasciò in Spagna col fratello Asdrubale; il terzo lo condusse con sé in Italia. Attraversò il valico dei Pirenei. Dovunque passò, venne a conflitto con tutti gli abitanti; nessuno lasciò alle spalle se non sconfitto. Dopo che giunse alle Alpi, che dividono l’Italia dalla Gallia, che nessuno mai prima di lui, eccetto il Graio Ercole, aveva attraversato con un esercito (e in seguito a quell’impresa quel valico è oggi chiamato Graio), sterminò gli alpigiani che cercavano di impedirgli il passaggio, aprì i luoghi, fortificò i percorsi, fece sì che potesse passare un elefante equipaggiato, per dove prima a mala pena poteva arrampicarsi un uomo senza armi. Per questa via fece passare le truppe e giunse in Italia.

“Romolo e Remo salvati da una lupa”

Proca, Albanorum rex, duos filios, Numitorem et Amulium habuit. Is de vita decessurus Numitori, qui maior erat, regnum reliquit; sed Amulius, fratre expulso, regnum occupavit; deinde, ut Numitorem subole privaret, Rheam Silviam, eius filiam, Vestae sacerdotem fecit. Sed deus Mars, amore virginis captus, cum ea se coniunxit et Rhea Romulum Remumque peperit. Tum Amulius Rheam in vincula coniecit, geminos in alveum imposuit et in Tiberim, qui tunc forte exundaverat, abiecit ut parvuli in flumine mortem invenirent. Sed aqua recedens eos in sicco reliquit. Tum ibi nemo habitabat, quia vastae solitudines erant. Lupa solum, quae ad flumen bibitura descendebat, puerorum vagitus audivit et accurrit; eos lingua lambuit et lactavit ne parvuli frigore fameque perirent.

Proca, re degli Albani, ebbe due figli, Numitore e Amulio. Egli sul punto di morire lasciò il regno a Numitore, che era il maggiore; ma Amulio, dopo aver cacciato il fratello, occupò il regno; in seguito, per privare Numitore di discendenti, fece diventare Rea Silvia, figlia di Numitore, sacerdotessa di Vesta. Ma il dio Marte, innamoratosi della vergine, si unì a lui (=ebbe rapporti sessuali con lui) e Rea partorì Romolo e Remo. Allora Amulio gettò in carcere Rea, collocò i gemelli in una cesta e li gettò nel Tevere, che allora per caso era straripato, affinché i piccolini trovassero la morte nel fiume. Ma l’acqua, ritirandosi, li lasciò sulla riva. Allora lì nessuno abitava, perché vi erano vasti luoghi deserti. Soltanto una lupa, che era scesa al fiume per bere, udì i vagiti dei bambini e accorse; li leccò con la lingua e li allattò affinché i piccolini non morissero di freddo e di fame.

Fabulae, 63 – Danae

Danae Acrisii et Aganippes filia. Huic fuit fatum, ut, quod peperisset Acrisium interficeret; quod timens Acrisius, eam in muro lapideo praeclusit. Iovis autem in imbrem aureum conversus cum Danae concubuit, ex quo compressu natus est Perseus. Quam pater ob stuprum inclusam in arca cum Perseo in mare deiecit. Ea voluntate Iovis delata est in insulam Seriphum, quam piscator Dictys cum invenisset, effracta ea vidit mulierem cum infante, quos ad regem Polydectem perduxit, qui eam in coniugio habuit et Perseum educavit in templo Minervae. Quod cum Acrisius rescisset eos ad Polydectem morari, repetitum eos profectus est; quo cum venisset, Polydectes pro eis deprecatus est, Perseus Acrisio avo suo fidem dedit se eum numquam interfecturum. Qui cum tempestate retineretur, Polydectes moritur; cui cum funebres ludos facerent, Perseus disco misso, quem ventus distulit in caput Acrisii, eum interfecit. Ita quod voluntate sua noluit, deorum factum est; sepulto autem eo Argos profectus est regnaque avita possedit.

A Danae, figlia di Acrisio e Aganippe, era stato predetto che il figlio da lei partorito avrebbe ucciso Acrisio; allora il padre, temendo che la profezia si avverasse, la rinchiuse in una prigione dai muri di pietra. Ma Giove, mutatosi in una pioggia d’oro, giacque con Danae; da quell’amplesso nacque Perseo. Il padre, a causa dell’atto impudico, la rinchiuse insieme a Perseo in un cofano, che gettò in mare. Per volere di Giove il cofano fu sospinto fino all’isola di Serifo; quando il pescatore Ditti, che lo trovò e lo forzò, vide la donna con il bambino, li portò dal re Polidette, che sposò Danae e fece allevare Perseo nel tempio di Minerva. Non appena Acrisio venne a sapere che i due erano alla corte di Polidette, partì per andare a riprenderseli; quando arrivò, Polidette intervenne in loro favore e Perseo giurò al nonno che non l’avrebbe mai ucciso. Acrisio fu poi trattenuto colà da una tempesta e nel frattempo Polidette morì. Vennero indetti dei giochi funebri in suo onore, durante i quali un disco lanciato da Perseo, deviato dal vento, colpì al capo Acrisio, uccidendolo; e così ciò che Perseo non volle fare di sua volontà fu compiuto dagli Dèi. Una volta sepolto Polidette, Perseo partì per Argo e prese possesso del regno del nonno.

Miles Gloriosus, II, 1

Palaestrio Mihi ad enarrandum hoc argumentum est comitas, si ad auscultandum vostra erit benignitas; qui autem auscultare nolet, exsurgat foras, ut sit ubi sedeat ille qui auscultare volt. nunc qua adsedistis causa in festivo loco, comoediai quam nos acturi sumus et argumentum et nomen vobis eloquar. Alazon Graece huic nomen est comoediae, id nos Latine gloriosum dicimus. hoc oppidum Ephesust; illest miles meus erus, qui hinc ad forum abiit, gloriosus, impudens, stercoreus, plenus periuri atque adulteri. ait sese ultro omnis mulieres sectarier: is deridiculost, quaqua incedit, omnibus. itaque hic meretrices, labiis dum ductant eum, maiorem partem videas valgis saviis. nam ego hau diu apud hunc servitutem servio; id volo vos scire, quo modo ad hunc devenerim in servitutem ab eo cui servivi prius. date operam, nam nunc argumentum exordiar. erat erus Athenis mihi adulescens optumus; is amabat meretricem * * matre Athenis Atticis, et illa illum contra; qui est amor cultu optumus. is publice legatus Naupactum fuit magnai rei publicai gratia. interibi hic miles forte Athenas advenit, insinuat sese ad illam amicam eri ~ occepit eius matri suppalparier vino, ornamentis opiparisque obsoniis, itaque intimum ibi se miles apud lenam facit. ubi primum evenit militi huic occasio, sublinit os illi lenae, matri mulieris, quam erus meus amabat; nam is illius filiam conicit in navem miles clam matrem suam, eamque huc invitam mulierem in Ephesum advehit. ubi amicam erilem Athenis avectam scio, ego quantum vivos possum mihi navem paro, inscendo, ut eam rem Naupactum ad erum nuntiem. ubi sumus provecti in altum, fit quod volunt, capiunt praedones navem illam ubi vectus fui: prius perii quam ad erum veni, quo ire occeperam. ille me cepit dat me huic dono militi. hic postquam in aedis me ad se deduxit domum, video illam amicam erilem, Athenis quae fuit. ubi contra aspexit me, oculis mihi signum dedit, ne se appellarem; deinde, postquam occasio est, conqueritur mecum mulier fortunas suas: ait sese Athenas fugere cupere ex hac domu, sese illum amare meum erum, Athenis qui fuit, neque peius quemquam odisse quam istum militem. ego quoniam inspexi mulieris sententiam, cepi tabellas, consignavi, clanculum dedi mercatori cuidam, qui ad illum deferat meum erum, qui Athenis fuerat, qui hanc amaverat, ut is huc veniret. is non sprevit nuntium; nam et venit et is in proximo hic devertitur apud suom paternum hospitem, lepidum senem; isque illi amanti suo hospiti morem gerit nosque opera consilioque adhortatur, iuvat. itaque ego paravi hic intus magnas machinas, qui amantis una inter se facerem convenas. nam unum conclave, concubinae quod dedit miles, quo nemo nisi eapse inferret pedem, in eo conclavi ego perfodi parietem, qua commeatus clam esset hinc huc mulieri; et sene sciente hoc feci: is consilium dedit. nam meus conservos est homo haud magni preti, quem concubinae miles custodem addidit. ei nos facetis fabricis et doctis dolis glaucumam ob oculos obiciemus eumque ita faciemus ut quod viderit ne viderit. et mox ne erretis, haec duarum hodie vicem et hinc et illinc mulier feret imaginem, atque eadem erit, verum alia esse adsimulabitur. ita sublinetur os custodi mulieris. sed foris concrepuit hinc a vicino sene; ipse exit: hic illest lepidus quem dixi senex.

A me la cortesia di raccontarvi il soggetto della commedia, sempre che abbiate la compiacenza di ascoltarmi. Se poi qualcuno non ne ha voglia, tolga pure il disturbo, e lasci il posto a chi ha voglia di ascoltare. Ora, dato che è per questo che siete venuti a sedervi in questo luogo di divertimenti, passerò a dirvi il titolo e l’argomento della commedia. In greco il titolo suona Alazon; per noi latini è lo sbruffone. Siamo a Efeso. Quel soldato che se ne è andato al foro, è il mio padrone. Sbruffone, impudente, merdoso, spergiuro e adultero pure. Dice, lui, che le donne, tutte, gli corrono dietro; e invece ovunque si presenti tutte quante lo prendono in giro. A sentir lui, le cortigiane, a furia di mandargli baci per adescarlo, si sono deformate le labbra. Quanto a me, non è molto tempo che sono suo schiavo. E voi dovete sapere come mai sono caduto nelle sue mani dopo esser stato al servizio di un altro. Per favore, ascoltatemi, perché ora comincio a raccontarvi la vicenda. Ad Atene avevo per padrone un giovane, un ottimo giovane che amava una cortigiana proprio di Atene, in Attica. E quella lo ricambiava: ed è l’amore più bello che ci sia. Ma il giovane fu mandato, al servizio della repubblica, a Naupatto, e proprio allora il caso vuole che capiti ad Atene il nostro soldato, il quale si intrufola presso l’amica del mio padrone e comincia ad arruffianarsene la madre offrendo vino, doni e squisitezze; e così diventa intimo della mezzana. Alla prima occasione il soldato la fa in barba alla vecchia, cioè alla madre della ragazza, e carica la ragazza su una nave, di nascosto di quella ruffiana. E così trascina ad Efeso la ragazza recalcitrante. E io, io, non appena vengo a sapere del ratto della ragazza, ce la metto tutta, mi trovo una nave, salgo a bordo per recarmi a Naupatto a informare il mio padrone. Senonché, quando arriviamo in mare aperto, succede quel che gli dèi han decretato: la nave su cui viaggiavo viene catturata dai pirati. E così sono fritto, fritto, prima di arrivare dove volevo, cioè dal mio padrone. Il pirata che mi aveva catturato mi regala al soldato che sapete, e questo mi trascina qui, a casa sua. E qui scorgo, subito subito, la ragazza del mio padrone, quella che stava ad Atene. E lei, non appena mi sbircia, mi strizza l’occhio perché non la chiami per nome. Poi, alla prima occasione, si sfoga con me della sua sfortuna, dice che vuol fuggirsene ad Atene, che ama soltanto il mio padrone, che il soldato le è odioso come nessun altro. Conosciuti i sentimenti della donna, scrivo di nascosto una lettera, la sigillo, consegno il tutto ad un mercante perché lo porti al mio padrone, quello di Atene, si capisce, che amava la ragazza. Gli scrivo di venire qui e lui non si fa pregare: arriva e si piazza in quella casa lì, da un simpatico vecchietto che era stato ospite di suo padre. Il vecchietto gli dà corda, all’innamorato, e ci consiglia, ci aiuta con le parole e i fatti. E così io, qui dentro, ho concepito un bellissimo trucco per far sì che i due amanti possano incontrarsi. Dunque… Il soldato, alla sua concubina ha assegnato una camera dove nessuno può mettere piede tranne lei. Bene, io ci ho fatto un buco, nella parete della camera, e così la donna può passare dalla sua casa alla nostra senza che nessuno la veda. Con il nostro vecchio mica ho agito di nascosto, no, è stato lui a darmi l’idea. C’è anche il fatto che il soldato ha affibbiato alla ragazza, per controllarla, un servo che vale mezzo soldo. Con le nostre trovate, con le nostre ingegnose invenzioni, gli faremo veder lucciole per lanterne, e lui sarà convinto di non aver veduto quel che ha veduto. E voi, attenti a non confondervi: oggi la ragazza sosterrà due parti, una di là, una di qua. Sempre la stessa è, ma farà finta di essere un’altra. E così il suo guardiano sarà menato per il naso. Ma ecco che scricchiola la porta del nostro vecchietto. Sta uscendo lui, quel simpaticone che vi ho detto.

“La guerra civile tra Cesare e Pompeo”

Caesar popularium partibus favebat, tamen societatem iunxit cum Pompeio, nobilitatis fautore et Crasso, viro divite ac potenti. Consul factus in Galliam legiones duxit multasque gentes ibi in potestatem Romanorum redegit. Inde bellum civile exsecrandem et lacrimabile initium habuit. Caesar enim remeans ex Gallia coepit poscere alterum consulatum sed Pompeius et senatores eius consiliis obstantes eum iusserunt legiones dimittere Romamque remeare. Tum Caesar putans sibi iniuriam factam esse, ab Arimino adversum patriam cum legionibus venit.

Cesare, sosteneva le parti del popolo, tuttavia si unì in società con Pompeo, sostenitore della nobiltà e con Crasso, uomo ricco e potente. Eletto console condusse le legioni in Gallia e qui assoggettò molte genti al dominio dei Romani. da qui ebbe inizio una tremenda e atroce guerra civile. Cesare infatti ritornando indietro dalla Gallia iniziò a chiedere un altro consolato ma Pompeo e i senatori che si opponevano ai suoi piani ordinarono che quello congedasse le legioni e ritornasse a Roma. Allora Cesare pensando di essere stato offeso, giunse da Arimino con le legioni verso la patria.

“La peste di Atene”

Postquam Archidamus, Lacedaemoniorum rex, in Atticam cum magno exercitu irruit, omnium civium multitudo in urbem confugit, atque eodem tempore pestilentia gravis Piraei portum occupavit et in cives ingruit, qui intra moenia Athenarum erant congregati. Brevi tempore in cives omnium ordinum morbus et contagio saevit. Nec divites magis quam pauperes, nec viros magis quam feminas pestis iactavit. In tota urbe luctus erat et et ingens fletus et gemitus. In animalia quoque incidit morbus: viae ac porticus, ubi homines et animalia iacebant, spectaculum praebebant horribilem.

Giacché Archidamo, re di Sparta, invase l’Attica con un grande esercito, l’intera popolazione (ateniese) si rifugiò nella città; contemporaneamente, una peste terribile si diffuse nel porto del Pireo e s’accani contro i cittadini che s’erano ammassati entro le mura di Atene. In breve tempo, la contagiosa malattia infierì contro i cittadini d’ogni ordine (sociale): la peste colpì tanto i ricchi quanto i poveri, tanto gli uomini quanto le donne. In tutta la città, c’era (aria di) lutto, e pianti a fiumi e lamenti. Il morbo colpì anche gli animali: le vie ed i portici, dove giacevano (i cadaveri di) uomini e (le carcasse degli) animali, offrivano uno spettacolo orribile.