“Coraggio e generosità di Dario”

De Dareo, Persarum rege, praeclarum exemplum magnanimitatis fortitudinisque traditum est. Olim ad Aribazo cum aliis iuvenibus Persis magnae nobilitatis contra regem coniuratio facta est ut in venatione interficeretur. Tamen factum est ut facinus incauti servi verbis patefieret. Dareus, re cognita, non solum periculo imminenti perturbatus non est, sed etiam venatum cum coniuratis sine satellitum tutela exire voluit. Cum in silvam pervenissent, rex coniuratos incitavit ut arcus tenderent, sic dicens: “Cur igitur nunc a vobis non fit quod iam statuistis?”. Iuvenes vero, imperturbatum regis vultum videntes, terrore ita afficiuntur ut toto corpore sudore madefiant; deinde ex equis desiliunt ac se ad Darei pedes abiciunt, misericordiam implorantes. Sceleris venia impetrata, tanto regis beneficio affecti sunt ut eius amici stabiles et certi facti essent: nam in reliquum vitae tempus semper immutata fide regi servierunt.

Su Dario, re dei Persiani, è narrato il glorioso esempio di magnanimità e di coraggio. Un giorno fu da Aribazo con altri giovani della grande nobiltà Persiana fatta una congiura contro il re affinché fosse ucciso nella battuta di caccia. Tuttavia accadde che la cosa fosse scoperta dalle parole di un incauto servo. Dario, presa conoscenza sulla cosa, non solo non fu spaventato dall’imminente pericolo, ma ebbe voluto anche uscire a caccia con i congiurati senza protezione. Quando erano giunti nella foresta, il re incitò i congiurati che tendessero gli archi, così dicendo: “Perché allora adesso non viene fatto da voi ciò che già decideste?”. I giovani senza dubbio, vedendo il volto imperturbato del re, sono così indeboliti dal terrore che sono bagnati in tutto il corpo con sudore; poi scendono dai cavalli e si gettano a terra ai piedi di Dario, implorando misericordia. Ottenuto il perdono del misfatto, furono tanto impressionati dal favore del re che diventarono suoi amici fedeli e fidati: infatti per il restante tempo della vita servirono sempre il re con fedeltà immutata.

“Astuzia di un filosofo”

Cum Dionysius tyrannus Syracusas appropinquaret, Aristippus philosophus ei obviam et eum oravit ut suum fratrem, qui Dionysio insidias paraverat et in vinculis erat, impunitum dimitteret. Eius preces a tyranno non exauditae sunt: tum Aristippus ad eius pedes se proiecit, contingens vestitum osculo, itaque beneficium a Dionysio accepit. Cum amicus philosophi forte hoc vidisset et servile obsequium asperis verbis exprobravisset, tum securus et subridens tali modo Aristippus respondit: “Cur me reprehendisti? Nam non mea culpa est, at Dionysii: is enim aures in pedibus habet! Tu autem id nesciebas”.

Avvicinandosi a Siracusa il tiranno Dioniso, il filosofo Aristippo chiese a quello di incontrarlo per lasciare impunito suo fratello, che aveva preparato insidie contro Dioniso e era incatenato. Le preghiere di quello non vennero da quello esaudite: allora Aristippo si prostò ai suoi piedi, baciando la veste, e così ricevette la grazia da Dioniso. Avendo un amico del filosofo visto casualmente ciò e avendo rimproverato con aspre parole l’atteggiamento servile, allora Aristippo sorridendo e sicuro rispose in tal modo: “Perchè mi hai ripreso? Infatti non è colpa mia, ma di Dioniso: egli ha l’oro nei piedi! Tu questo non lo sapevi”.

“Assassini puniti”

Omnia maria omnesque terrae Arionem cognoscunt. Eius cantu aquae fluminum stabant; sub umbra eiusdem arboris iacebant canes et lepores, lupus et agnus. Ille vixit Corinthi ubi erat Apollinis fanum, apud regem, amicum suum, Periandrum, qui eum secum multos annos detinuit eique multas suas divitias donavit. At nautae, qui eum in euis patriam reportabant, coniuraverunt contra eius vitam: nam ei rapere cupiebant pecuniam et dona quae ei dederat Periander. Sed quia aliquot delphini, eius cantu allecti, navem circumdederant, statim, ut ille eos vidit, se in mare deiecit: delphini, eum acceperunt et Corintum reportaverunt ad regem Periandrum. Post aliquot dies tempestas vehemens impulit ad litus Corinthium eandem navem nautarum qui Arionem aggressi erant. Igitur rex eos ad se accivit eosque damnavit capite.

Tutti i mari e tutte le terre conoscono Arione. Con il suo canto i corsi dei fiumi si fermavano, sotto l’ombra dello stesso albero giacevano cani e lepri, il lupo e l’agnello. Quello visse a Corinto dove era il tempio di Apollo, presso il re, suo amico, Periandro, che lo tenne con sè molti anni e che gli donò molte sue ricchezze. Ma i marinai, che lo riportarono in patria, congiurarono contro la sua vita: infatti desideravano rubargli il denaro e i doni che gli aveva dato Periandro. Ma poichè alcuni delfini, attirati dal suo canto, avevano circondato la nave, subito, come quello li vide, si gettò in mare: i delfini, lo presero e riportarono a Corinto dal re Periandro. Dopo alcuni giorni una tremenda tempesta spinse al lido di Corinto la stessa nave dei marinai che avevano aggredito Arione. Dunque il re li fece condurre a sè e li condannò alla pena capitale.

“Tradizioni di una famiglia romana”

Romani patres familias in sacrificiis deis et deabus semper opimas victimas praebebant ac immolabant, et sacra rite perpetrabant. Res familiaris ab eis administrabatur, officia autem vitae domesticae a matronibus earumque ancillis explebantur. Saepe uxores cum suis ancillis in domus atrio lanam texebant vestibus omnium propinquorum qui domi habitabant. Interdum parabatur toga praetexta filiis et filiabus familiae, vel vestis rudis servis domesticis, quibus saepe domini superpe imperabant. Usitate pater familias liberis suis multam pecuniam tribuebat ad eorum necessitates voluptatesque. At antiquis temporibus, patres familias uxoribus, liberis suis ac omnibus servis severo arbitrio imperaverant, quia luxuriam grave detrimentum censebant.

I padri di famiglia romani offrivano e immolavano molte vittime nei sacrifici delle dee e degli dei, e compivano cose sacre secondo il rito. Le cose familiari erano amministrate da loro, mentre i compiti di casa erano compiute dalle donne e dalle loro ancelle. Spesso le mogli tessevano la lana nell’atrio della casa con le loro ancelle per le vesti di tutti i congiunti che abitavano in casa. Talvolta si preparava la toga pretesta ai figli e alle figlie della famiglia, o i vestiti rudi per i servi, ai quali spesso i padroni comandavano superbamente. Di solito il padre di famiglia dava molto denaro ai suoi figli per le loro necessità e piaceri. Ma in tempi antichi, i padri di famiglia comandavano con severo arbitrio alle mogli, ai loro figli e a tutti i servi, poichè consideravano la lussuria un grave male.

De Bello Gallico, II, 25

Caesar ab X. legionis cohortatione ad dextrum cornu profectus, ubi suos urgeri signisque in unum locum conlatis XII. legionis confertos milites sibi ipsos ad pugnam esse impedimento vidit, quartae cohortis omnibus centurionibus occisis signiferoque interfecto, signo amisso, reliquarum cohortium omnibus fere centurionibus aut vulneratis aut occisis, in his primipilo P. Sextio Baculo, fortissimo viro, multis gravibusque vulneribus confecto, ut iam se sustinere non posset, reliquos esse tardiores et non nullos ab novissimis deserto loco proelio excedere ac tela vitare, hostes neque a fronte ex inferiore loco subeuntes intermittere et ab utroque latere instare et rem esse in angusto vidit, neque ullum esse subsidium quod submitti posset, scuto ab novissimis [uni] militi detracto, quod ipse eo sine scuto venerat, in primam aciem processit centurionibusque nominatim appellatis reliquos cohortatus milites signa inferre et manipulos laxare iussit, quo facilius gladiis uti possent. Cuius adventu spe inlata militibus ac redintegrato animo, cum pro se quisque in conspectu imperatoris etiam in extremis suis rebus operam navare cuperet, paulum hostium impetus tardatus est.

Cesare, terminato il suo discorso alla decima legione, si diresse verso l’ala destra, dove vide che i suoi erano alle strette e che i soldati della dodicesima legione, vicini l’uno all’altro, si impacciavano a vicenda, perché le insegne erano state raccolte in un sol luogo; tutti i centurioni e un vessillifero della quarta coorte erano caduti, il vessillo perduto, quasi tutti i centurioni delle altre coorti morti o feriti; tra di essi il primipilo P. Sestio Baculo, soldato di grandissimo valore, non riusciva più a reggersi in piedi, sfinito com’era dalle numerose e gravi ferite; gli altri andavano esaurendo le forze e alcuni della retroguardia, rimasti senza comandanti, lasciavano la mischia e si sottraevano ai colpi; il nemico non cessava di avanzare dal basso frontalmente e di premere dai lati. Quando vide che la situazione era critica e che non aveva truppe di rincalzo, prese lo scudo a un soldato della retroguardia (perché era giunto fin lì senza), avanzò in prima linea, si rivolse ai centurioni chiamandoli per nome, uno per uno, arringò i soldati e diede l’ordine di muovere all’attacco e di allargare i manipoli, perché i nostri potessero usare le spade con maggior facilità. Il suo arrivo infuse fiducia nei soldati e restituì loro il coraggio: ciascuno, pur in una situazione di estremo pericolo, voleva dar prova di valore agli occhi del comandante, per cui l’impeto dei nemici per un po’ venne frenato.

Laelius De Amicitia, 1

Q. Mucius augur multa narrare de C. Laelio socero suo memoriter et iucunde solebat nec dubitare illum in omni sermone appellare sapientem; ego autem a patre ita eram deductus ad Scaevolam sumpta virili toga, ut, quoad possem et liceret, a senis latere numquam discederem; itaque multa ab eo prudenter disputata, multa etiam breviter et commode dicta memoriae mandabam fierique studebam eius prudentia doctior. Quo mortuo me ad pontificem Scaevolam contuli, quem unum nostrae civitatis et ingenio et iustitia praestantissimum audeo dicere. Sed de hoc alias; nunc redeo ad augurem.

Quinto Mucio, l’augure, soleva raccontare piacevolmente affidandosi alla memoria, molte cose intorno a Gaio Lelio, suo suocero, e non esitava a chiamarlo, in ogni discorso, “sapiente”; io, poi, presa la toga virile, ero stato condotto dal padre mio a Scevola con l’intenzione che, finché potessi e mi fosse consentito , non mi allontanassi mai dal fianco del vecchio, e così molte cose da lui con sapienza discusse, molte dette con brevità e garbo, le mandavo a memoria e mi studiavo di farmi con la sua esperienza più dotto. Morto lui, mi sono recato da Scevola pontefice, che oso dire superiore per ingegno e rettitudine a tutti i nostri concittadini. Ma di lui un’altra volta: adesso ritorno all’augure.

“Dario passa in rassegna il suo esercito”

Dareus, ubi bina castra apud Babylonem posuit, copiarum suarum conspectum incepit. Ab hora secunda diei ad horam duodecimam processerunt copiae omnium gentium, ternis agminibus divisae. Persarum erant centum milia peditum et viginti cum triginta milibus equitum. Medi duodeviginti milia equitum, quinquaginta milia peditum habebant: Barcanorum equitum duo milia fuerunt, armati binis bipennibus et levibus scutis ne pondere impedirentur et celeriores essent; sequebantur decem milia et octingenti pedites pari armatu. Armenii exercitum peditum quadrangita milium miserant cum septem milibus equitum et mille et ducentis catafractis. Hyrcani et Derbices tricena milia peditum et dena milia equitum armaverant. A Caspio mari octo milium militum pedester exercitus venerat et mille et ducenti equites cum peditibus erant.
Ignobiles aliae gentes duo milia peditum, equitum duplicem paraverant numerum. Dareus cum trecentis suis purpuratis in alto aggere stabat ut omnes copias conspiceret.

Dario, quando pose due accampamenti presso Babilonia, iniziò la revisione delle sue truppe. Le truppe di tutta la gente passarono dalla seconda ora del giorno alla dodicesima, divise in schiere. Tra i Persiani c’erano cento mila fanti e trecentomila soldati a cavallo. I Medi avevano duecentoventimila cavalieri, cinquantamila fanti: portavano duemila cavalieri dei barcanori, armati con bipenni, con scudi leggeri per non essere ostacolati dal peso e per essere più veloci; seguivano diecimila e ottocento fanti con simile armatura. Gli armeni avevano mandato un esercito di quattrocentomila fanti con settemila cavalieri e mille e duecento catafratte. Gli ircani e i derbici avevano armato trecentomila fanti e diecimila cavalieri. Dal mar caspio era giunto un esercito pedestre di ottomila soldati e mille e duecento cavalieri erano con i fanti. Altre genti sconosciute avevano preparato duemila fanti e il doppio di cavalieri, Dario con trecento suoi porporati stava nell’alto bastione per vedere tutte le truppe.

Historiarum Alexandri Magni, III, 2

At Dareus nuntiata Memnonis morte haud secus quam par erat motus omissa omni alia spe statuit ipse decernere: quippe quae per duces suos acta erant, cuncta damnabat, ratus pluribus curam, omnibus afuisse fortunam. Igitur castris ad Babylona positis, quo maiore animo capesserent bellum, universas vires in conspectum dedit, et, circumdato vallo quod decem milium armatorum multitudinem caperet, Xerxis exemplo numerum copiarum iniit. Orto sole ad noctem agmina, sicut discripta erant, intravere vallum; inde emissa occupaverant Mesopotamiae campos, equitum peditumque propemodum innumerabilis turba, maiorem quam pro numero speciem ferens. Persarum erant centum milia, in quis eques XXX milia inplebat, Medi decem equitum, quinquaginta peditum habebant. Barcanorum equitum duo milia fuere, armati bipennibus levibusque scutis cetrae maxime speciem reddentibus: peditum decem milia equitatum pari armatu sequebantur; Armenii quadraginta miserant peditum, additis septem milibus equitum. Hyrcani egregiorum equitum, ut inter illas gentes, sex milia expleverant, additis equitibus militatura idem vicies quadraginta milia peditum armati erant; pluribus haerebant ferro praefixae hastae, quidam lignum igni duraverant; hos quoque duo milia equitum ex eadem gente comitata sunt. A Caspio mari octo milium pedester exercitus venerat, ducenti equites. Cum iis erant ignobiles aliae gentes: duo milia peditum, equitum duplicem paraverant numerum. His copiis triginta milia Graecorum mercede conducta, egregiae iuventutis, adiecta. Nam Bactrianos et Sogdianos et Indos ceterosque Rubri maris accolas, ignota etiam ipsi gentium nomina, festinatio prohibebat acciri. Nec quicquam illi minus quam multitudo militum defuit. Cuius tum universae aspectu admodum laetus, purpuratis solita vanitate spem eius inflantibus, conversus ad Charidemum Atheniensem belli peritum et ob exilium infestum Alexandro,””quippe Athenis iubente eo fuerat expulsus,””percontari coepit satisne ei videretur instructus ad obterendum hostem. At ille et suae sortis et regiae superbiae oblitus: “Verum”, inquit, “et tu forsitan audire nolis, et ego, nisi nunc dixero, alias nequiquam confitebor. Hic tanti apparatus exercitus, haec tot gentium et totius Orientis excita sedibus suis moles finitimis potest esse terribilis: nitet purpura auroque, fulget armis et opulentia, quantam, qui oculis non subiecere, animis concipere non possunt. Sed Macedonum acies, torva sane et inculta, clipeis hastisque immobiles cuneos et conferta robora virorum tegit. Ipsi phalangem vocant, peditum stabile agmen. Vir viro, armis arma conserta sunt; ad nutum monentis intenti, sequi signa, ordines servare didicerunt; quod imperatur, omnes exaudiunt. Obsistere, circumire, discurrere in cornu, mutare pugnam, non duces magis quam milites callent. Ac ne auri argentique studio teneri putes, adhuc illa disciplina paupertate magistra stetit: fatigatis humus cubiculo est; cibus, quem occupati parant, satiat; tempora somni artiora quam noctis sunt. Iam Thessali equites et Acarnanes Aetolique, invicta bello manus, fundis, credo, et hastis igne duratis repellentur! Pari robore opus est: in illa terra quae hos genuit auxilia quaerenda sunt; argentum istud atque aurum ad conducendum militem mitte.” Erat Dareo mite ac tractabile ingenium, nisi etiam naturam plerumque fortuna corrumperet. Itaque, veritatis inpatiens, hospitem ac supplicem, tunc cum maxime utilia suadentem, abstrahi iussit ad capitale supplicium. Ille ne tum quidem libertatis oblitus: “Habeo”, inquit, “paratum mortis meae ultorem: expetet poenas mei consilii spreti is ipse, contra quem tibi suasi. Tu quidem, licentia regni tam subito mutatus, documentum eris posteris homines, cum se permisere fortunae, etiam naturam dediscere.” Haec vociferantem, quibus imperatum erat, iugulant. Sera deinde paenitentia subiit regem, ac vera dixisse confessus sepeliri eum iussit.

Nel frattempo Dario, all’annunzio della morte di Memnone, turbato così come quella di un suo pari, abbandonata ogni altra speranza, decise di condurre la guerra in prima persona: infatti egli disapprovava tutte le azioni condotte dai suoi generali, convinto che alla maggior parte di essi fosse venuta meno la perizia, a tutti la fortuna. Quindi, stabilito l’accampamento presso Babilonia, dispiegò tutte le sue milizie alla vista di tutti, in modo che affrontassero la guerra con animo più rinfrancato e, dopo aver fatto costruire attorno al campo un fossato che poteva contenere diecimila armati, fece effettuare la conta dei suoi soldati, secondo l’esempio di Serse. Dal sorger del sole fino a notte le truppe entrarono nel vallo, ai posti che loro erano stati assegnati. Da qui eruppero all’esterno, occupando i campi della Mesopotamia, come una innumerabile moltitudine di fanti e di cavalieri, dando l’impressione di essere in numero maggiore di quanti in effetti fossero.

I Persiani erano centomila, tra i quali trentamila cavalieri. I Medi contavano diecimila cavalieri e cinquantamila fanti, i Barcani duemila cavalieri, armati di asce bipenni e di scudi leggeri, somiglianti a piccoli ripari di cuoio. Gli Armeni avevano inviato quarantamila fanti, in aggiunta a settemila cavalieri. Gli Ircani formavano seimila abili cavalieri, come è d’uso presso quelle genti, in aggiunta a mille cavalieri Tapuri. I Dervisci avevano armato quarantamila fanti: la maggior parte di essi avevano le lance di bronzo o di ferro, alcuni avevano indurito il legno con il fuoco; li accompagnavano anche duemila cavalieri della stessa gente. Dal mar Caspio era giunto un esercito di ottomila uomini di fanteria e duecento cavalieri. Assieme a loro vi erano altre meno conosciute popolazioni: avevano allestito duemila fanti e un numero doppio di cavalieri. A queste truppe si aggiungevano trentamila giovani mercenari greci.

Infatti la fretta impediva che fossero fatti venire gli abitanti di Battra, i Sogdiani, gli Indi e gli altri vicini abitanti della regione attorno al Mar Rosso, nomi di popoli sconosciuti anche allo stesso Dario. Nulla mancava a Dario, tranne il numero di soldati. E mentre egli appariva oltremodo soddisfatto al vedere tale moltitudine e mentre i suoi cortigiani, con la consueta piaggeria, ne solleticavano la speranza, rivoltosi verso l’ateniese Caridemo, esperto stratega e avverso ad Alessandro, causa del suo esilio, in quanto su suo ordine era stato espulso da Atene, cominciò ad informarsi se appariva abbastanza preparato a distruggere il nemico. Ma costui, dimentico della propria sorte e della fierezza del re, rispose: “Ti dirò la verità, che tu forse non vuoi sentire e che io, se non te la dirò oggi, la dirò invano un’altra volta. Questo grande apparato militare, questa massa di tante genti e di tutto l’Oriente, fatta venir qui dalle proprie sedi, può essere terribile per i popoli confinanti: risplende di porpora e d’oro, rifulge di armi e di ricchezze, quante non possono immaginare coloro che non le hanno viste di persona. Ma l’esercito macedone, terribile e selvaggio, cela dietro una selva di scudi e di lance, reparti ben saldi e una forza compatta di uomini.

Chiamano questa formazione “˜falange’, un serrato schieramento di fanti: tutti i soldati sono a stretto contatto, armi contro armi, e ad un cenno del loro comandante hanno imparato diligentemente a tener dietro alle insegne, mantenendo l’ordine nei ranghi. Tutti eseguono gli ordini come un sol uomo: resistere al nemico, aggirarlo, portarsi sulle ali, cambiare fronte di battaglia, sono operazioni familiari ai soldati non meno che ai loro comandanti. E non credere che sia la brama di oro o di argento a tenerli assieme: finora la disciplina della povertà è stata la loro maestra: la terra è il loro giaciglio quando sono stanchi, il primo cibo che trovano li sfama, la durata del loro sonno non è mai pari a quella di una notte. E suppongo che la cavalleria tessala, gli Acarnani e gli Etoli, che non hanno mai conosciuto sconfitta in guerra, possano esser respinti da fionde e da lance indurite al fuoco! Ti è necessaria una forza pari alla loro. Devi chiedere rinforzi proprio nella terra in cui essi sono nati, mandando oro ed argento per arruolare soldati.” Dario era di carattere mite e malleabile, ma la sorte a volte muta anche la migliore indole, e così, adirato per la verità prospettatagli dal suo ospite e supplice, che pur gli dava consigli utili, ordinò che fosse messo a morte. Allora Caridemo, non dimèntico neppure allora del suo spirito libero, disse: “Ho già chi vendicherà la mia morte: trarrà vendetta dei miei consigli disprezzati colui stesso contro il quale ti ho messo in guardia. Tu poi, che sei cambiato tanto rapidamente per il capriccio del potere, sarai di esempio ai posteri, che gli uomini, quando si affidano al caso, dimenticano anche la loro stessa natura.” Mentre pronunciava queste parole, venne sgozzato da quelli a cui era stato ordinato. Presto, però, il re si pentì e, riconoscendo che egli aveva detto la verità, ordinò di seppellirlo.

Fabulae, 51 – Alcestis

Alcestim Peliae et Anaxibies Biantis filiae filiam complures proci petebant in coniugium; Pelias vitans eorum condiciones repudiavit et simultatem constituit ei se daturum, qui feras bestias ad currum iunxisset et Alcestim in coniugio avexisset. Itaque Admetus ab Apolline petiit, ut se adiuvaret. Apollo autem, quod ab eo in servitutem liberaliter esset acceptus, aprum et leonem ei iunctos tradidit, quibus ille Alcestim avexit. Et illud ab Apolline accepit, ut pro se alius voluntarie moreretur. Pro quo cum neque pater neque mater mori voluisset, uxor se Alcestis obtulit et pro eo vicaria morte interiit; quam postea Hercules ab inferis revocavit.

Molti erano i corteggiatori che ambivano al matrimonio con Alcesti, figlia di Pelia, e Anassibia, figlia di Biante. Pelia rifiutò le loro offerte e stabilì il patto che avrebbe concesso la figlia a chi avesse aggiogato allo stesso carro delle bestie selvagge e su quello avesse condotto Alcesti alla cerimonia nuziale. Così Admeto pregò Apollo di aiutarlo. Apollo, che era stato trattato benignamente da lui durante il suo periodo di schiavitù, gli consegnò già aggiogati un cinghiale e un leone, con i quali egli si portò via Alcesti. Ottenne anche da Apollo questo dono: che qualcuno avesse la possibilità di morire al suo posto. Dunque, quando ne suo padre ne sua madre vollero morire per lui, si offrì sua moglie Alcesti e si sostituì a lui nella morte; ma successivamente Ercole la fece tornare dal regno dei morti.

Liber Memorialis, II (De duodecim signis)

Signa sunt in caelo duodecim. Aries beneficio Liberi, quod is cum exercitum in Indiam per Libyam duceret per loca sicca et arenosa, qua aquae inopia esset et exercitus eius siti adfligeretur, aries eis aquam demonstravit; et ob id a Libero Iovis Ammon est appellatus, eique fanum magnificum fecit ad eum locum ubi aquam invenit; quod abest ab Aegypto et Alexandria milia passuum novem. Ob eam rem a Iove petit ut inter sidera reciperetur. Alii putant eum esse qui Hellen et Phryxum vexerit. Taurus beneficio Iovis, quem Iuppiter a Neptuno fratre per gratiam abduxit; qui sensum humanum figura tauri continebat hisque Iovis iussu Europam Agenoris filiam Sidonia adludens decepit et eam Cretam deportavit. Ob eam rem Iuppiter in sideribus eum dignatus est immortali memoria. Gemini, qui Samothraces nominantur [esse]; quorum argumentum nefas est pronuntiare praeter eos qui misteriis praesunt. Alii Castorem et Pollucem dicunt, quod hi principes mare tutum a praedonibus praestitissent. Sunt qui dicant Herculem et Theseum, quod similia athla sint adepti. Cancer, carcinus, receptus beneficio Iunonis, quod eius iussu, cum Hercules missus esset ad hydram Lernaeam (quam nos excetram dicimus) interficiendam, is carcinus ingressus Herculis pedes et crura lanians incommodiorem faciebat eum quam ipsa excetra; idque malum Hercules difficillimum habuit, carcinumque [cancrum] ob id factum Iuno sideribus est dignata. Leo, leon, qui educatus est [Nemeae] Iunonis consilio ad Herculis interitum, missus in terram in Argiva diu spelunca latitavit; quem Hercules dicitur interfecisse cum Molorcho hospite suo, cuius clavam ei tributam tum principio est adeptus; qua leonem interfecit, eiusque pellem postea pro tegumento habuit. ob id factum Iunoni odio esse coepit, leonemque caelesti dignitate est honorata. Virgo, quam nos Iustitiam dicimus, fuit cum hominibus; sed postquam homines malefacere coeperunt, Iovis eam inter signa posuit. Sunt qui Erigonam Icari filiam Atheniensem dicunt; cuius patri Liber vinum dedit, ut hominibus ad suavitatem daret: quibus dedit ebriati sunt et lapidibus eum occiderunt. Canis qui cum illo erat vidit dominum occisum, et cum ululatu ad Erigonem rediit; quem ut maestum et singularem vidit, sollicita proficiscitur cum eo. Venere ad locum ubi Icarius iacebat. Vidit corpus patris, magna lamentatione in Hymetto monte sepelivit, ipsa vero se suspendit laqueo. Canis ad pedes eius discumbens diutius et sine alimentis deficiens, post aquam anhelans in puteum se proiecit. Tum Liber a Iove petit, quod suo imperio deficerent, ut inter siderum cursus ponerentur. Virgo, Icarius autem Arcturus nominatus est (cuius stella cum exoritur, continuas tempestates facit), canis Canicula. Libra, quam Graeci zygon appellant, virile nomen est adeptus summa clementia et iustitia; Stathmuchos dictus, quia> primus dicitur libram et pondus [hominibus] invenisse, quae utilissima mortalibus aestimantur; ideoque in numerum stellarum est receptus [est] et Libra est dictus. Scorpius. Qui dicitur ad perniciem Orionis in insula Chio in monte Pelinaeo voluntate Dianae natus. Orion autem dum venatur, visa Diana stuprare eam voluit. Illa scorpionem subiecit, qui eum vita privaret. Iuppiter et scorpionem et Orionem inter sidera recepit. Sagittarius, Crotos, filius nutricis Musarum; quem Musae semper dilexerunt eo quod plausu et lusu sagittarum eas oblectaret. Alii Chironem dicunt, quod iustus et pius [doctus] hospitalis fuerit. Ab eo Aesculapius medicinam, Achilles citharam et alia multa. Capricornus, cui nomen Pan. Quo tempore Python speluncas incolens in monte Tauro Aegyptum profectus est ad bellum, Pan se in caprae figuram convertit. igitur dii immortales postquam Pythonem digna poena affecerunt, Pana astrorum memoria decoraverunt. Aquarius, qui putatur esse Ganymedes; dicitur Deucalion Thessalus; qui maximo cataclysmo cum uxore Pyrrha solus evasisset, hic pietatis causa inter sidera locatus est. Pisces, ideo [pisces] quia bello Gigantum Venus perturbata in piscem se transfiguravit. Nam dicitur et in Eufrate fluvio ovum piscis in ora fluminis columba adsedisse dies plurimos et exclusisse deam benignam et misericordem hominibus ad bonam vitam. Utrique memoriae causa pisces inter sidera recepti.

12 sono i segni zodiacali:
1. Ariete, assurto a costellazione per grazia di Dioniso, per il seguente motivo: allorquando Dioniso si trovò a condurre il proprio esercito attraverso i deserti libici, alla volta dell’India, fu proprio un ariete a mostrare una fonte alla compagine stremata dalla sete. Per ciò, Dioniso insignì l’ariete del nome di Giove Ammone, e gli dedicò un magnifico tempio, in corrispondenza del luogo in cui quello rinvenne la fonte, luogo distante 9 miglia da Alessandria d’Egitto. Per riconoscenza, dunque, Dioniso chiese a Giove di accoglierlo tra le costellazioni. Secondo un’altra versione, invece, si tratterebbe dell’ariete che portò in groppa Elle e Frisso.

2. Toro, assurto a costellazione per grazia di Giove, che se lo fece dare dal fratello Nettuno. Questo toro aveva, sotto fattezze animali, intelligenza umana; per ordine di Giove, rapì Europa, figlia di Agenore, mentre giocava sulla spiaggia di Sidone, e la portò a Creta. In segno di eterna riconoscenza, dunque, Giove lo fece assurgere tra le costellazioni.

3. Gemelli, trasfigurazione celeste dei Cabiri: trattandosi d’un culto misterico, parlarne significherebbe contravvenire alle leggi divine, se non si appartiene al novero degli adepti. Un’altra versione, identifica i Gemelli con Castore e Polluce, per il fatto che costoro hanno reso sicuri i mari, disinfestandoli dalla presenza dei predoni. Un’altra versioni ancora, li identifica con Ercole e Teseo, per il fatto che hanno compiuto “fatiche” simili.

4. Cancro, gambero, accolto tra le costellazioni per grazia di Giunone; infatti, la volta in cui Ercole fu mandato ad uccidere l’Idra ““ in latino “excetra” (serpente) ““ di Lerna, il granchio, su ordine di Giunone, s’intrufolò tra i piedi di Ercole, e lacerandogli le gambe (con le chele), gli riusciva più molesto che non la stessa idra, rappresentando per Ercole una vera e propria dannazione. Per riconoscenza, Giunone lo elesse nel nobile novero delle costellazioni.

5. Leone. Fu allevato nella valle di Nemea allo scopo precipuo di uccidere Ercole, secondo la volontà di Giunone, mandato sulla terra, si nascose a lungo in una grotta della regione argiva. Secondo la leggenda, Ercole ““ valendosi dell’aiuto di Molorco, che aveva ospitato l’eroe presso di sé ““ uccise il leone proprio con la clava che Molorco gli aveva dato in precedenza e da allora in poi indossò, a mo’ di veste protettiva, la pelle leonina. Affronto che alimentò l’odio di Giunone, la quale, di contro, per riconoscenza, elesse il leone nel nobile novero delle costellazioni.

6. Vergine, che noi romani identifichiamo con Dike. Un tempo viveva tra gli esseri umani, ma quando costoro presero a commettere ingiustizie, Giove la pose tra le costellazioni. Un’altra versione, però, identifica la Vergine con l’ateniese Erigone, figlia di Icario. Al padre di lei Dioniso offrì del vino, ché fosse fonte di ebbrezza per gli esseri umani; ma gli uomini a cui Icario, a sua volta, lo offrì, s’ubriacarono e lo uccisero, lapidandolo. Il cane ch’era con lui (ovvero con Icario, il padre di Erigone), testimone dell’omicidio del padrone, ululando di dolore tornò da Erigone; la quale, vedendolo tornare triste e da solo, lo segue con apprensione fino al luogo dove Icario giaceva morto. Scorto il cadavere del padre, Erigone lo seppellì, disperata, sul monte Imetto, e poi s’impiccò. Il cane rimase a lungo accucciato ai suoi piedi, senza mangiare; poi, preso dalla sete, si gettò in un pozzo. Dioniso chiese a Giove di farli assurgere tra le costellazioni, dato che (da vivi) non li aveva favoriti con la sua protezione. Erigone fu eternata nella Vergine, Icario nella costellazione di Boote ““ il cui apparire segna continui rivolgimenti atmosferici ““ e il cane nella costellazione del Piccolo Cane.

7. Bilancia, in greco “zygon”, nome che allude esplicitamente a somma clemenza e giustizia e che va riferito, in origine, ad un uomo; Stathmuchos (?) vien detto colui che, per primo, stando alla leggenda, fece scoprire agli uomini la bilancia ed il peso, cose considerate (da allora in poi) d’immensa utilità per il genere umano. Per tal motivo, egli venne fatto assurgere al novero delle costellazioni, col nome, appunto, di Bilancia.

8. Scorpione. L’animale che ““ nato sul monte Pelineo, nell’isola di Chio ““ punse a morte Orione, obbedendo ad un ordine di Diana. Orione, infatti, durante una battuta di caccia, scorse Diana e volle prenderla con la forza. Diana ricorse appunto allo scorpione, per ucciderlo. Giove fece assurgere nel novero delle costellazioni sia lo Scorpione che lo stesso Orione.

9. Sagittario. Si tratta di Croto, figlio della nutrice delle Muse, e delle Muse entrato nelle grazie perché le faceva divertire con le sue prove di maestria con l’arco. Secondo un’altra versione, si tratterebbe invece di Chirone, (assurto al novero delle costellazioni) per via del suo temperamento improntato a giustizia, rispetto degli dèi e ospitalità, nonché per la sua dottrina: infatti, fu maestro di Esculapio, in medicina, ed insegnò ad Achille a suonare la cetra e molte altre cose.

10. Capricorno. Vi fu immortalato il dio Pan. Al tempo in cui il Pitone, che abitava nelle grotte del Tauro, raggiunse l’Egitto per far guerra (agli dèi), Pan (per affrontarlo) assunse fattezze caprine. Così, dopo che gli dèi immortali ebbero comminato al Pitone una pena degna del suo affronto, in segno di eterna riconoscenza, fecero assurgere Pan nel novero delle costellazioni.

11. Acquario. Si tratterebbe di Ganimede, conosciuto anche come il “Deucalione di Tessaglia”. Scampato, lui solo con la moglie Pirra, al diluvio universale, gli dèi lo fecero assurgere al novero delle costellazione come premio della sua rinomata pietà.

12. Pesci. All’epoca della gigantomachia, Venere, presa da spavento, si mutò in pesce. Leggenda vuole, inoltre, che sul lido dell’Eufrate una colomba avesse covato per più giorni un uovo di pesce, (trovato) nelle acque del fiume; una volta schiusosi, dall’uovo fuoriuscì (Venere), dea benevola e misericordiosa verso gli esseri umani. A memoria di entrambe le vicende, i pesci furono fatti assurgere al novero delle costellazioni.

“La morte di Icaro”

Cretae Labyrinthus Daedalum cum filio Icaro claudit. Daedalus fugam petit, sed undique pelagus est. Improviso Daedalus exclamat: “Cretae dominus caelum non possidet!” et subito, ingenii auxilio, humanam naturam superat. Pennas colligit, lino et cera pennas alligat atque umeris suis et Icari aptat. Interea Icarum monet: “Mediam viam caeli tene, fili mi. Nam undae pelagi alas gravant; contra, radii solis urunt”. Postea Daedalus oscula filio dat et in caelum ascendit atque volat et filii alas observat. Sed puer, ob nimium gaudium, mediam viam deserit et in altum caelum volat. At solis radii alarum ceram molliunt et Icarus in undas pelagi praecipitat.

Il labirinto di Creta chiuse Dedalo con il figlio Icaro. Dedalo cercò la fuga, ma da ogni parte vi era il mare. All’improvviso Dedalo esclama: il signore di Creta non possiede il cielo! e subito, per aiuto dell’ingegno, supera l’umana natura. Strppò delle penne e le unì con il lino e la cera e le mise sulle sue spalle e quelle di Icaro. Intanto ammonisce Icaro : tieni la metà del cielo, figlio mio. Infatti le onde del mare gravano le ali al contrario i raggi del sole le bruciano. Dopo Dedalo da un bacio al figlio e sale in cielo e vola e osserva le ali del figlio. Ma il fanciullo, per l’eccessiva felicità, lascià la metà del cielo e vola in alto cielo. Ma i raggi del sole resero molli la cera delle ali e Icaro precipitò nelle onde del mare.

“Onestà di Fabrizio, generale romano”

Contra Pyrrhum missus est Fabricius quem rex, virtutem eius admiratus, secreto invitavit ut patriam desereret, quartam partem regni sui pollicitus; sed Fabricius ne hoc dono quidem sollicitari potuit. Tum cum vicina castra ipse et Pyrrhus haberent, medicus regis nocte ad eum venit promittens veneno se Pyrrhum occisurum (esse), si quod munus sibi polliceretur. Quem Fabricius vinctum reduci iussit ad dominum Pyrrhoque dici quae contra caput eius medicus spopondisset, ut omnibus manifestum esset Romanos virtute non fraude vincere solere. Tum regem admiratum dixisse tradunt: “Ille est Fabricius, qui difficilius ab honestate quam sol a cursu suo averti potest!”. Tum rex ad Siciliam profectus est. Consules deinde M. Curius Dentatus et Cornelius Lentulus adversum Pyrrhum missi sunt. Curius contra eum pugnavit , exercitum eius cecidit, castra cepit, rex Tarentum fugit. Eo die caesi sunt hostium viginti tria milia. Pyrrhus etiam Tarento mox recessit et apiud argos, Graeciae civitatem, occisus est.

Contro Pirro fu mandato Fabrizio, che il re, avendo ammirato il suo coraggio, incitò segretamente a disertare la patria offrendogli la quarta parte del suo regno. Ma Fabrizio non poté essere corrotto neppure da questo dono. In seguito poichè l’accampamento di Pirro era vicino a quello romano, il medico del re, di notte, venne da lui promettendo che avrebbe ucciso con il veleno Pirro, se avesse ricevuto in ricompensa un qualche dono. Fabrizio ordinò che questo fosse ricondotto legato al padrone e che fossero dette a Pirro le cose che il medico aveva promesso contro la sua vita, perchè a tutti fosse manifesto, che i romani solevano vincere con la forza e non con l’inganno. Allora tramandano che il re ammirandolo avesse detto: “Quell’uomo, che può distogliersi dalla sua onestà più difficilmente che il sole dal suo corso, è Fabrizio. In seguito il re scese in Sicilia. Quindi furono mandati contro Pirro i consoli Marco Curio Dentato e Cornelio Lentolo. Curio combattè contro di lui, sterminò il suo esercito, occupò l’accampamento e il re fuggì a Taranto. In tale giorno furono sterminati 23000 nemici. In seguito Pirro partì da Taranto e ritornò in Grecia dove presso la città di Argo fu ucciso.

“Morte di Asdrubale”

Cum Hasdrubal, Hannibalis frater, in Italiam ingressurus esset, senatus duos consules Livium Salinatorem ac Claudium Neronem Roma proficisci iussit: prior in Galliam Cisalpinam ut Hasdrubali occurreret missus est, alter in Apuliam ut Hannibali se opponeret. Interea Hasdrubal, Alpibus superatis, quattuor equites cum litteris ad Hannibalem misit ut eum de suo adventu certiorem faceret, sed ii, a Romanis capti, ad Claudium Neronem perducti sunt. Consul, cognitis Hasdrubalis consiliis, cum delectis copiis nocte profectus est et, magnis itineribus, spatio sex dierum ad castra alterius consulis Livii Salinatoris pervenit. Itaque ambo consules, copiis coniunctis, Hasdrubalem apud Senam devicerunt. Occisa sunt eo proelio quinquaginta sex hostium milia; ipse Hasdrubal, ne tantae cladis superesset, concitato equo, se in cohortem Romanam immisit atque pugnans cecidit.

Quando Asdrubale, fratello di Annibale, stava per giungere in Italia, il senato ordinò ai due consoli, Livio Salinatore e Claudio Nerone, di mettersi in marcia. Il primo fu mandato in Gallia Cisalpina per combattere Asdrubale, l’altro in Puglia per combattere Annibale. Nel frattempo Asdrubale, valicate le Alpi, mandò quattro cavalieri ad Annibale con una lettera, perchè lo informasse del suo arrivo. Ma quelli catturati dai Romani, furono condotti da Claudio Nerone. Il console, conosciuti i piani di Asdrubale, con truppe scelte nella notte partì e con marce forzate, nello spazio di sei giorni arrivò nell’accampamento dell’altro console Livio Salinatore. E così entrambi i consoli, unite le truppe, sbaragliarono Asdrubale presso Sena. In quel combattimento furono uccisi 56000 nemici; lo stesso Asdrubale, per non sopravvivere ad una così grande strage, spronato il cavallo, si slanciò contro la coorte romana e mentre combatteva morì.

De Beneficiis, VI, 3 (“Io ho quel che ho donato”)

Egregie mihi videtur M. Antonius apud Rabirium poetam, cum fortunam suam transeuntem alio videat et sibi nihil relictum praeter ius mortis, id quoque, si cito occupaverit, exclamare:

“Hoc habeo, quodcumque dedi.”

O! quantum habere potuit, si voluisset! Hae sunt divitiae certae in quacumque sortis humanae levitate uno loco permansurae; quae quo maiores fuerint, hoc minorem habebunt invidiam. Quid tamquam tuo parcis? procurator es. Omnia ista, quae vos tumidos et supra humana elatos oblivisci cogunt vestrae fragilitatis, quae ferreis claustris custoditis armati, quae ex alieno sanguine rapta vestro defenditis, propter quae classes cruentaturas maria deducitis, propter quae quassatis urbes ignari, quantum telorum in aversos fortuna conparet, propter quae ruptis totiens adfinitatis, amicitiae, conlegii foederibus inter contendentes duos terrarum orbis elisus est, non sunt vestra; in depositi causa sunt iam iamque ad alium dominum spectantia; aut hostis illa aut hostilis animi successor invadet. Quaeris, quomodo illa tua facias? dona dando. Consule igitur rebus tuis et certam tibi earum atque inexpugnabilem possessionem para honestiores illas, non solum tutiores facturus. Istud, quod suspicis, quo te divitem ac potentem putas, quam diu possides, sub nomine sordido iacet: domus est, servus est, nummi sunt; cum donasti, beneficium est.

A me pare che, nel poeta Rabirio, M. Antonio, quando vede che la sua fortuna passa ormai ad altri e che a lui nulla più rimane se non la facoltà di morire ed anche questa a patto che egli la sfrutti immediatamente, dica splendidamente “io ho quello che ho donato”. Oh quanto avrebbe potuto se solo l’avesse voluto! Queste sono le ricchezze sicure, destinate a rimanere sempre allo stesso posto in qualsiasi volubilità della sorte umana; e quanto maggiori diventeranno, tanto minore invidia provocheranno. Perché risparmi, come se queste cose fossero tue? Tu ne sei solo l’amministratore. Tutte queste cose, che costringono voi, superbi e sprezzanti sopra le sorte umane, a farvi dimenticare la vostra fragilità, queste cose voi, armati, custodite in ferree cassaforti, che, arraffate dal sangue degli altri, difendete a prezzo del vostro sangue, queste cose per le quali varate flotte destinate ad insanguinare i mari, per le quali voi devastate le città senza sapere quanti colpi la fortuna prepari alle vostre spalle, queste cose per le quali, violati tante volte i legami della parentela, dell’amicizia, della società, tutto il mondo fu diviso fra due contendenti, nono sono vostre! Esee sono in conto di deposito mentre guardano da un momento all’altro ad un altro padrone: o un nemico o un erede dell’animo ostile se ne impossesserà. Tu mi chiedi come puoi rendere tue quelle cose dandole come doni. Provvedi dunque alle tue cose e di esse procurati un possesso sicuro ed inespugnabile per renderle non solo più sicure ma anche più oneste. Tutto ciò che ora ammiri, grazie al quale ti consideri ricco e potente, fin quando lo possiedi, va sotto nomi volgari: è, la casa, è lo schiavo, sono i denari; quando tutto ciò hai donato, è beneficio.

“Lealtà del popolo romano”

Ingenti poenorum classe circa Siciliam devicta, duces eius, fractis animis, consilia petendae pacis agitabant. Quorum Hamilcar ire se ad consules negabat audere, ne eodem modo catenae sibi inicerentur, quo ab ipsis Cornelio Asinae consuli fuerant iniectae. Hanno autem, certior Romani animi aestimator, nihil tale timendum ratus, maxima cum fiducia ad colloquium eorum tetendit. Apud quos cum de fine belli ageret, et tribunus militum ei dixisset posse illi merito evenire quod Cornelio accidisset, uterque consul, tribuno iacere iusso, “Isto te” inquit “metu, Hanno, fides civitatis nostrae liberat”. Claros illos facerat tantum hostium ducem vincire potuisse, sed multo clariores fecit noluisse.

Dopo che l’ingente flotta dei Cartaginesi fu sconfitta davanti alla costa della Sicilia, i comandanti Cartaginesi pensarono alla pace. Amilcare, scelto per discutere con i Romani delle condizioni di pace, disse di non voler recarsi dai consoli temendo di essere gettato in catene allo stesso modo in cui era stato gettato dai Cartaginesi il console Cornelio. Invece Annone, più consapevole estimatore dell’animo romano credendo che non si dovesse temere nulla di simile, si diresse con la massima fiducia al colloquio. Presso i Romani mentre discuteva della fine della guerra, un tribuno gli disse che poteva accadergli giustamente ciò che era accuduto a Cornelio; entrambi i consoli fatto silenzio e mandato il via il tribuno dissero: “Annone il patto della nostra città ti libera da questa paura”. Tanto li avrebbe fatti famosi, il gettare in catene il comandante dei nemici, ma di gran lunga li rese più celebri non averlo voluto.

“Un Tarentino risponde argutamente a Pirro”

Cum a Romanis bellum Tarentinis indictum esset, quod legatis iniuram fecisset, illi arbitrati se suis viribus Romanorum impetum sustnère non posse, legatos ad Pyrrhum, Epirorum regem, misèrunt petituros ut sibi in bello autiliaretur. Tum Pyrrhus cum magno et forti exercitu in Italiam venit. Sed cum bellum diutius traheretur quam Tarentini arbitrati erant, alienatio hominum in regem magna esse coepit. Olim igitur accidit ut in convivo iuvenes quidam eum insectarentur: dicebant regem Tarentum venisse dominaturum, quare fortunam suam miserabantur, deos obtestantes et precantes ut regis perfidiam punirent. Quod rex cum audivisset, unum ex iuvenibus arcessivit atque percontatus est quidnam in convivio dixissent. Tarentinus iocando se periculo liberavit: “Multa, inquit, rex, et contumeliosa de te diximus, sed nescio cur mirèris; etenim inter pocula iocabamur et contumelias etiam maiores dixissemus, nisi vinum defecisset”.

Dal momento che dai Romani era stata dichiarata guerra ai Tarentini, perché avevano fatto un oltraggio agli ambasciatori, quelli (i Tarentini), ritenendo di non poter resistere all’attacco dei Romani con le proprie forze, inviarono ambasciatori a Pirro, re dell’Epiro, per chiedergli di aiutarli in guerra. Allora Pirro giunse in Italia con un esercito grande e forte. Ma, poiché la guerra si trascinava più a lungo di quanto i Tarentini pensassero, il malumore degli uomini nei confronti del re cominciò ad essere notevole. Una volta, dunque, avvenne che in un banchetto alcuni giovani si accanissero contro di lui: dicevano che il re era venuto a Taranto per comandare, perciò deploravano il suo destino, chiamando a testimoni gli dei e supplicandoli di punire la slealtà del re. Dopo che il re ebbe udito ciò, fece chiamare uno dei giovani e gli domandò che cosa avesse detto nel banchetto. Il Tarentino, scherzando, si liberò dal pericolo: “O re, abbiamo detto molte parole -disse- anche ingiuriose nei tuoi riguardi, ma non so perché ti meravigli; infatti scherzavamo tra le coppe (di vino) e avremmo detto insulti anche più gravi, se il vino non fosse venuto meno”.

“Cesare previene Pompeo a Durazzo”

Caesar eadem celeritate, qua solebat, usus, saepe conatus est ad pugnam Pompeium provocare, qui autem ne minima quidem audebat. Cum exercitu profectus, expugnato in itinere oppido Parthinorum, tertio die ad Pompeium pervenit iuxtaque eum castra posuit et postridie, omnibus eductis copiis, acie instructa, Pompeio potestatem decernendi fecit. Ubi illum suis locis se tenere animadvertit, reducto in castra exercitu, aliud consilium cepit ut cum Pompeio decerneret. Itaque postero die cum omnibus copiis Dyrrachium profectus est. Pompeius, Caesaris consilium ignorans, putabat eum discessisse rei frumentariae inopia compulsum; postea certior per exploratores factus, castra movit, breviore itinere se ei occurrere posse sperans. Quod fore suspicatus, Caesar, parva parte noctis itinere intermisso, mane Dyrrachium pervenit, dum primum agmen Pompei procul cernitur.

Cesare si servì della stessa velocità che gli era solita e spesso cercò di provocare allo scontro Pompeo, che tuttavia non si arrischiava minimamente. Partito con l’esercito, espugnata nell’itinerario la città dei Parti, nel terzo giorno giunse da Pompeo e pose accanto a quello l’accampamento e il giorno dopo, condotte fuori tutte le truppe, preparata la schiera, rese a Pompeo il potere di combattere. Quando capì che quello si tratteneva nei suoi luoghi, riportato l’esercito nell’accampamento, presa un’altra decisione affinchè si scontrasse con Pompeo. E così l’ultimo giorno partì per Durazzo con tutte le truppe. Pompeo, ignorando il piano di Cesare, riteneva che quello si allontanasse spinto dalla mancanza di viveri, dopo reso più certo dagli esploratori, mosse l’accampamento, sperando di poter imbattersi con quello nel breve itinerario, di mattina giunse a Durazzo, mentre da lontano si vedeva la schiera di Pompeo.

Fabulae, 116 – Nauplius

Ilio capto et divisa praeda Danai cum domum redirent, ira deorum, quod fana spoliaverant et quod Cassandram Aiax Locrus a signo Palladio abripuerat, tempestate et flatibus adversis ad saxa Capharea naufragium fecerunt. In qua tempestate Aiax Locrus fulmine est a Minerva ictus, quem fluctus ad saxa illiserunt, unde Aiacis petrae sunt dictae; ceteri noctu cum fidem deorum implorarent, Nauplius audivit sensitque tempus venisse ad persequendas filii sui Palamedis iniurias. Itaque tamquam auxilium eis afferret, facem ardentem eo loco extulit, quo saxa acuta et locus periculosissimus erat; illi credentes humanitatis causa id factum naves eo duxerunt, quo facto plurimae earum confractae sunt militesque plurimi cum ducibus tempestate occisi sunt membraque eorum cum visceribus ad saxa illisa sunt; si qui autem potuerunt ad terram natare, a Nauplio interficiebantur. At Ulixem ventus detulit ad Maronem, Menelaum in Aegyptum, Agamemnon cum Cassandra in patriam pervenit.

Quando i Danai stavano ritornando in patria, dopo la presa di Troia e la divisione del bottino, fecero naufragio sulle scogliere di Cafareo a causa di una tempesta e dei venti avversi mandati dagli Dèi, adirati perché avevano saccheggiato i templi e perché Aiace di Locri aveva strappato Cassandra dalla statua di Pallade. Durante quella tempesta Aiace di Locri fu colpito da un fulmine scagliato da Minerva e venne sbattuto dai flutti contro le rocce, che da allora sono dette rocce di Aiace. Di notte, Nauplio udì gli altri che imptoravano l’aiuto degli Dèi e capì che era giunto il momento di vendicare le offese patite da suo figlio Palamede; e così, come se stesse cercando di aiutarli, portò una fiaccola accesa proprio nel punto più pericoloso, dove gli scogli erano più aguzzi. Quelli, credendo che lo facesse per generosità, diressero le navi verso quel punto; di conseguenza molte navi furono distrutte, moltissimi soldati morirono nella tempesta insieme ai loro comandanti e le loro membra e le loro viscere furono dilaniate dalle rocce. Coloro che riuscirono a nuotare fino a terra vennero uccisi da Nauplio. Ma il vento spinse Ulisse presso Marone e portò Menelao in Egitto, mentre Agamennone arrivò in patria con Cassandra.

“Prodigi annunciano la guerra civile”

Cum C. Octavius Romam pervenit, multa prodigia evenerunt. Tabulae aeneae ex aede Fidei turbine evulsae sunt, aedis opis valvae fractae, arbores radicitus et pleraque tecta eversa, fax caelo ad occidentem apparuit, stella per dies septem insignis arsit. Soles tres fulserunt, circaque solem imum corona spiceae similis in orbem emicuit, et postea sol in unum circulum redactus est et multis mensibus languida lux fuit.
In aede Castoris nominum litterae Antonii et Dolabellae consulum excussae sunt, itaque consulibus alienatio a patria significata est. Canum ululatus nocte ante domum auditi sunt; grex piscium in sicco reciproco maris fluxu relictus est. Padus inundavit et intra ripam ingentem viperarum vim reliquit. Postea, inter Caesarem et Antonium civilia bella fuerunt.

Quando Gaio Ottavio giunse a Roma, sucessero molti prodigi. Tavole di bronzo furono trascinate via dal tempio della (dea) Fede da una tromba d’aria, gli alberi furono sradicati e moltissime abitazioni furono scoperchiate, apparve nel cielo una fiaccola ad Occidente. Le porte del tempio di Opi furono rotte, una stella arse osservabile per sette giorni. Splendettero tre soli, e attorno al sole più basso divampò nel cerchio una corona simile ad una spiga, e poi il sole fu diretto su un’unica orbita e durante molti mesi la luce fu debole. Nel tempio di Castore le lettere dei nomi dei consoli Antonio e Dolabella furono scosse via, perciò per i consoli fu preannunciato l’allontanamento dalla patria. Di notte davanti a casa furono uditi ululati di cani. Un branco di pesci fu lasciato al secco da un flusso di mare reciproco. Il po straripò e dentro la riva lasciò una grande quantità di vipere. Poi, fra Cesare e Antonio ci furono le guerre civili.

Prodigiorum liber, 68 (“Prodigi nell’anno di arrivo di Ottaviano a Roma”)

C. Octavius testamento Caesaris patris Brundisii se in Iuliam gentem adscivit. Cumque hora diei tertia ingenti circumfusa multitudine Romam intraret, sol puri ac sereni caeli orbe modico inclusus extremae lineae circulo, qualis tendi arcus in nubibus solet, eum circumscripsit. Ludis Veneris Genetricis, quos pro collegio fecit, stella hora undecima crinita sub septentrionis sidere exorta convertit omnium oculos. Quod sidus quia ludis Veneris apparuit, divo Iulio insigne capitis consecrari placuit. Ipsi Caesari monstrosa malignitate Antonii consulis multa perpesso generosa fuit ad restistendum constantia. Terrae motus crebri fuerunt. Fulmine navalia et alia pleraque tacta. Turbinis vi simulacrum, quod M. Cicero ante cellam Minervae pridie quam plebiscito in exilium iret posuerat, dissipatum membris pronum iacuit, fractis humeris bracchiis capite; dirum ipsi Ciceroni portendit. Tabulae aeneae ex aede Fidei turbine evulsae. Aedis Opis valvae fractae. Arbores radicitus et pleraque tecta eversa. Fax caelo ad occidentem visa ferri. Stella per dies septem insignis arsit. Soles tres fulserunt, circaque solem imum corona spiceae similis in orbem emicuit, et postea in unum circulum sole redacto multis mensibus languida lux fuit. In aede Castoris nominum litterae quaedam Antonii et Dolabellae consulum excussae sunt, quibus utrisque alienatio a patria significata. Canum ululatus nocte ante domum auditi, ex his maximus a ceteris laniatus turpem infamiam Lepido portendit. Hostiae grex piscium in sicco reciproco maris fluxu relictus. Padus inundavit et intra ripam refluens ingentem viperarum vim reliquit. Inter Caesarem et Antonium civilia bella exorta.

Secondo le disposizioni testamentarie del patrigno Cesare, a Brindisi C. Ottavio entrò a far parte della gens Iulia. Quando egli, alla terza ora del giorno, entrò in Roma circondato da una enorme folla, il Sole, circondato da un piccolo cerchio di pura e calma luce, lo cinse con la parte finale di un arco simile a quello che l’arcobaleno dispiega in cielo. Durante la celebrazione dei giochi in onore di Venere Genitrice, che istituì per la colleganza, una cometa apparsa all’undicesima ora sotto la costellazione dell’Orsa attirò gli occhi di tutti. Poiché questa stella era apparsa durante i giochi di Venere si decise di dedicarla al Divo Giulio. Con grande tenacia il nuovo Cesare s’oppose all’inumana cattiveria di Antonio. Si verificarono frequenti terremoti. I navigli e molte altre zone e cose furono colpite da fulmini. Una statua che Cicerone aveva fatto innalzare davanti alla cappella di Minerva il giorno prima del suo esilio per plebiscito, cadde in frantumi ““ testa, omeri, braccia rotte ““ a causa di una violenta tromba d’aria: terribile presagio per Cicerone. Una tromba d’aria rapì via dal tempio della Fede le tavole di bronzo. Le porte del tempio di Opi vennero squassate; alberi sradicati e abitazioni scoperchiate. Apparve in cielo una cometa: puntò verso occidente. La grande cometa brillò per sette giorni. Splendettero tre soli e intorno alla parte bassa del Sole brillò una corona simile ad una spiga e poi, quando il Sole si ridusse ad un solo cerchio, la luce fu flebile per molti mesi. Nel tempio di Castore, si staccarono alcune lettere corrispondenti ai nomi di Antonio e Dolabella: presagio, per i due, di rottura con la patria. Latrati di cani furono uditi dinanzi all’abitazione di Lepido: il cane più grosso venne sbranato dagli altri: terribile presagio per Lepido. Ad Ostia, la risacca fece arenare un branco di pesci. Si verificò l’inondazione del Po: rifluendo nel suo letto, il fiume lasciò sulle sponde migliaia di vipere. Seguì puntualmente la guerra civile tra Cesare e Antonio.

Ad Lucilium, III, 28

Seneca Lucilio suo salutem
Hoc tibi soli putas accidisse et admiraris quasi rem novam quod peregrinatione tam longa et tot locorum varietatibus non discussisti tristitiam gravitatemque mentis? Animum debes mutare, non caelum. Licet vastum traieceris mare, licet, ut ait Vergilius noster,

terraeque urbesque recedant,

sequentur te quocumque perveneris vitia. Hoc idem querenti cuidam Socrates ait, ‘quid miraris nihil tibi peregrinationes prodesse, cum te circumferas? Premit te eadem causa quae expulit’. Quid terrarum iuvare novitas potest? Quid cognitio urbium aut locorum? In irritum cedit ista iactatio. Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? Tecum fugis. Onus animi deponendum est: non ante tibi ullus placebit locus. Talem nunc esse habitum tuum cogita qualem Vergilius noster vatis inducit iam concitatae et instigatae multumque habentis se spiritus non sui:

bacchatur vates, magnum si pectore possit
excussisse deum.

Vadis huc illuc ut excutias insidens pondus quod ipsa iactatione incommodius fit, sicut in navi onera immota minus urgent, inaequaliter convoluta citius eam partem in quam incubuere demergunt. Quidquid facis, contra te facis et motu ipso noces tibi; aegrum enim concutis. At cum istuc exemeris malum, omnis mutatio loci iucunda fiet; in ultimas expellaris terras licebit, in quolibet barbariae angulo colloceris, hospitalis tibi illa qualiscumque sedes erit. Magis quis veneris quam quo interest, et ideo nulli loco addicere debemus animum. Cum hac persuasione vivendum est: ‘non sum uni angulo natus, patria mea totus hic mundus est’. Quod si liqueret tibi, non admirareris nil adiuvari te regionum varietatibus in quas subinde priorum taedio migras; prima enim quaeque placuisset si omnem tuam crederes. Nunc peregrinaris sed erras et ageris ac locum ex loco mutas, cum illud quod quaeris, bene vivere, omni loco positum sit. Num quid tam turbidum fieri potest quam forum? Ibi quoque licet quiete vivere, si necesse sit. Sed si liceat disponere se, conspectum quoque et viciniam fori procul fugiam; nam ut loca gravia etiam firmissimam valetudinem temptant, ita bonae quoque menti necdum adhuc perfectae et convalescenti sunt aliqua parum salubria. Dissentio ab his qui in fluctus medios eunt et tumultuosam probantes vitam cotidie cum difficultatibus rerum magno animo colluctantur. Sapiens feret ista, non eliget, et malet in pace esse quam in pugna; non multum prodest vitia sua proiecisse, si cum alienis rixandum est. ‘Triginta’ inquit ‘tyranni Socraten circumsteterunt nec potuerunt animum eius infringere.’ Quid interest quot domini sint? Servitus una est; hanc qui contempsit in quanta libet turba dominantium liber est.
Tempus est desinere, sed si prius portorium solvero. ‘Initium est salutis notitia peccati.’ Egregie mihi hoc dixisse videtur Epicurus; nam qui peccare se nescit corrigi non vult; deprehendas te oportet antequam emendes. Quidam vitiis gloriantur: tu existimas aliquid de remedio cogitare qui mala sua virtutum loco numerant? Ideo quantum potes te ipse coargue, inquire in te; accusatoris primum partibus fungere, deinde iudicis, novissime deprecatoris; aliquando te offende. Vale.

Seneca saluta il suo Lucilio.
Pensi che sia capitato solo a te e ti stupisci come di un fatto inaudito, perché, pur avendo viaggiato a lungo e in tanti posti diversi, non ti sei scrollato di dosso la tua tristezza e il tuo malessere spirituale? Devi cambiare animo, non cielo. Attraversa pure il mare, lascia, come dice il nostro Virgilio, che

Scompaiano terre e città, all’orizzonte,

i tuoi vizi ti seguiranno dovunque andrai. Socrate, a un tale che si lagnava per la stessa ragione, disse: “Perché ti stupisci se viaggiare non ti serve? Porti in giro te stesso. Ti perseguitano i medesimi motivi che ti hanno fatto fuggire”. A che possono giovare nuove terre? A che la conoscenza di città e posti diversi? Tutto questo agitarsi è vano. Chiedi perché questa fuga non ti sia di aiuto? Tu fuggi con te stesso. Deponi il peso dell’anima: prima di allora non ti andrà a genio nessun luogo. Pensa che la tua condizione è simile a quella che il nostro Virgilio rappresenta nella profetessa esaltata, spronata e invasata da uno spirito non suo:

La profetessa si dimena tentando di scacciare il dio dalla sua anima.

Vai di qua e di là per scuoterti di dosso il peso che ti opprime e che diventa più gravoso proprio per questa tua agitazione; così in una nave il carico stabile grava di meno, mentre, se è sballottato qua e là in maniera diseguale, fa affondare il fianco su cui pesa. Qualunque cosa fai, si risolve in un danno per te e gli stessi continui spostamenti ti nuocciono: tu muovi un ammalato. Ma quando avrai rimosso questo male, ogni cambiamento di sede diventerà piacevole. Anche se verrai esiliato in terre lontanissime o sarai trasferito in un qualsiasi paese barbaro, quel posto, comunque sia, ti sembrerà ospitale. Conta più lo stato d’animo che il luogo dove arrivi, perciò l’animo non va reso schiavo di nessun posto. Bisogna vivere con questa convinzione: non sono nato per un solo cantuccio, la mia patria è il mondo intero. Se ti fosse chiaro questo concetto, non ti stupiresti che non ti serva a niente cambiare continuamente regione, perché sei stanco delle precedenti; ti sarebbe piaciuta già la prima, se le considerassi tutte come tue. Ora non viaggi, vai errando e ti lasci condurre e ti sposti da un luogo a un altro, mentre quello che cerchi, vivere serenamente, si trova dovunque. C’è forse un posto più turbolento del foro? Anche qui, se è necessario, si può vivere tranquilli. Ma se potessimo decidere di noi stessi, fuggirei lontano anche dalla vista e dalla vicinanza del foro; come i luoghi insalubri minano anche una salute di ferro, così per uno spirito sano, ma non ancora perfetto e vigoroso, ci sono posti malsani. Non sono d’accordo con quelli che si spingono in mezzo alle onde e prediligono una vita agitata e lottano ogni giorno animosamente con mille difficoltà. Il saggio dovrà sopportarle, non andarsele a cercare, e preferire la tranquillità alla lotta; non giova a molto essersi liberati dai propri vizi per poi combattere con quelli degli altri. “Trenta tiranni,” ribatti, “fecero pressione su Socrate, ma non poterono fiaccarne lo spirito.” Che importa quanti siano i padroni? La schiavitù è una sola; se uno la disprezza, per quanti padroni abbia, è libero.
È tempo di finire, purché prima io paghi il pedaggio. “Aver coscienza delle proprie colpe è il primo passo verso la salvezza.” A me pare che Epicuro abbia espresso un concetto molto giusto: se uno non sa di sbagliare, non vuole correggersi; devi coglierti in fallo, prima di correggerti. Certi si gloriano dei propri vizi: e tu pensi che cerchi un rimedio chi considera virtù i suoi vizi? Perciò per quanto puoi, accùsati, fa’ un esame di coscienza; assumi prima il ruolo di accusatore, poi di giudice, da ultimo quello di intercessore; e talvolta punisciti. Stammi bene.

Divus Iulius, 4

Ceterum composita seditione civili Cornelium Dolabellam consularem et triumphalem repetundarum postulavit; absolutoque Rhodum secedere statuit, et ad declinandam invidiam et ut per otium ac requiem Apollonio Moloni clarissimo tunc dicendi magistro operam daret. Huc dum hibernis iam mensibus traicit, circa Pharmacussam insulam a praedonibus captus est mansitque apud eos non sine summa indignatione prope quadraginta dies cum uno medico et cubicularis duobus. Nam comites servosque ceteros initio statim ad expediendas pecunias, quibus redimeretur, dimiserat. Numeratis deinde quinquaginta talentis expositus in litore non distulit quin e vestigio classe deducta persequeretur abeuntis ac redactos in potestatem supplicio, quod saepe illis minatus inter iocum fuerat, adficeret. Vastante regiones proximas Mithridate, ne desidere in discrimine sociorum videretur, ab Rhodo, quo pertenderat, transiit in Asiam auxiliisque contractis et praefecto regis provincia expulso nutantis ac dubias civitates retinuit in fide.

Quando la discordia civile fu domata, Cesare incriminò per concussione Cornelio Dolabella, un ex console che aveva meritato il trionfo. Poiché l’imputato era stato assolto, decise di andarsene a Rodi, un po’ per sottrarsi ad eventuali vendette, un po’ per seguire durante quel periodo di inattività e di riposo, le lezioni di Apollonio Molone, a quel tempo il più celebre maestro di oratoria. Durante la navigazione verso Rodi, avvenuta nella stagione invernale, fu fatto prigioniero dai pirati presso l’isola di Farmacusa, e rimase con loro, non senza la più viva indignazione, per circa quaranta giorni, in compagnia di un medico e di due schiavi. I compagni di viaggio, infatti, e tutti gli altri servi erano stati inviati immediatamente a Roma per raccogliere i soldi del riscatto. Quando furono pagati i cinquanta talenti stabiliti, venne sbarcato su una spiaggia e allora, senza perdere tempo, assoldò una flotta e si lanciò all’inseguimento dei pirati: li catturò e li condannò a quel supplizio che spesso aveva minacciato loro per scherzo. Mitridate, intanto, devastava le regioni vicine al suo regno e Cesare, per non apparire inattivo, mentre altri si trovavano in difficoltà, da Rodi, dove era giunto, passò in Asia con un certo numero di truppe che aveva raccolto, scacciò dalla provincia il luogotenente del re e ridiede fiducia alle popolazioni incerte e dubbiose.

A che cosa servono i libri?

Olim pater familias, qui Romae vivebat, filium suum, perditum ac prodigium, Athenas miserat ut ibi litterarum studia perficeret et auditur rhetorum et philosophorum fieret. Cum autem adulescens omnem pecuniam, quam a patre proficiscens acceperat, conviviis et crapulis cum amicis consumpsisset, ad patrem epistulam misit, ut pecuniam alteram peteret. Cui rescripsit pater: «te hortor ne pecunia et cupidinibus alliciaris. Studia bonarum artium recole, fili mi, et ad libros confuge, a quibus alimentum et calorem accipies». Cum epistulam recepisset, adulescens Athenis multos libros suos vendidit ut cibum sibi emeret, alios arripuit et in ignem coniecit ut membra sua, frigore hiemis rigentia, calefaceret. Haec cum fecisset, patri Romam rescripsit: «Laetare, pater. Quod cupiebas statim feci et praecepta tua secutus sum. Nunc libri me nutriunt et calefaciunt, sicut ipse dixisti».

Una volta un padre di famiglia, che viveva a Roma, aveva mandato ad Atene, suo figlio, infelice e (prodigium) perchè portasse a termine gli studi letterari e ascoltasse gli oratori e diventasse filosofo. Avendo il giovane tuttavia consumato tutto il denato che partendo aveva ricevuto dal padre con in banchetti e pranzi con gli amici, mandò una lettera al padre per chiedere altro denaro. Il padre gli rispose: ti esorto a non sprecare il denaro in desideri. Coltiva gli studi delle buone arti, figlio mio, rifugiati nei libri, prendi da quelli alimento e calore. Avendo ricevuto la lettera, il giovane vendette ad Atene molti suoi libri per comprarsi il cibo, ne prese altri e li gettò nel fuoco per dare calore alle sue membra congelate dal freddo inverno. Dopo aver fatto queste cose, riscrisse a Roma al padre: rallegrati padre. Ciò che desideri faccio e seguo i tuoi consigli. Ora i libri mi nutrono e riscaldano come tu stesso hai detto.

“Cesare e i pirati”

Caesar, morto Sulla, Rhodum secedere statuit, ut Apollonio, tunc carissimo retore, operam daret; sed in itinere a piratis captus est, mansitque apud eos quadraginta dies. Per illud omne tempus ita se gessit, ut piratis terrori pariter ac venerazioni esset; atque ne suspicionem ullam daret iis, qui oculis tantummodo eum custodiebant, numquam aut nocte aut die excalceatus est. Interim comites servosque dimiserat ut pecunias expedirentur, quibus redimeretur. Viginti talenta pirati postulaverant ; ille vero se quinquaginta daturum esse spopondit. Quibus numeratis, Caesar liberatus est. Tum confestim Miletum, quae in urbs proxime aberat, properavit; ibique, contracta classe, noctu adortus est praedones stantes adhuc in eodem loco, aliquot naves cepit, piratasque in deditionem redactos affecit eo supplicio, quod ipsi Caesari illi praedones minitabantur: crucibus in illos suffigi iussit.

Cesare, morto Silla, decise di recarsi a Rodi, per ascoltare Apollonio, allora carissimo retore; ma durante il viaggio fu catturato dai pirati, e rimase presso loro per 40 giorni. Per tutto quel tempo così si comportò, al punto che ai pirati era allo stesso tempo terrore e venerazione; e per non dare alcun sospetto a quelli, che lo custodivano con gli occhi, non tolse mai i calzari nè di giorno nè di notte. Inoltre aveva congedato i compagni e i servi perchè gli procurassero del denaro, con i quale fosse riscattato. I pirati aveva chiesto 20talenti, quello in vero rispose che gliene avrebbe dati 50. Contati questi, Cesare fu liberato.Tum confestim Miletum, quae in urbs proxime aberat, properavit; ibique, contracta classe, noctu adortus est praedones stantes adhuc in eodem loco, aliquot naves cepit, piratasque in deditionem redactos affecit eo supplicio, quod ipsi Caesari illi praedones minitabantur: crucibus in illos suffigi iussit. Allora subito si diresse a Mileto che era una città che distava poco, e qui, portata la flotta, di notte assalì i predoni che c’erano in quel luogo, prese alcune navi, spinse alla resa i pirati presi con quello stesso supplizio con il quale i predoni minacciavano lo stesso Cesare: ordinò che quelli fossero posti in croce.

Epistularum Libri Decem, VIII, 16 (“Sensibilità sociale di un romano”)

Confecerunt me infirmitates meorum, mortes etiam, et quidem iuvenum. Solacia duo nequaquam paria tanto dolori, solacia tamen: unum facilitas manumittendi – videor enim non omnino immaturos perdidisse, quos iam liberos perdidi -, alterum quod permitto servis quoque quasi testamenta facere, eaque ut legitima custodio. Mandant rogantque quod visum; pareo ut iussus. Dividunt donant relinquunt, dumtaxat intra domum; nam servis res publica quaedam et quasi civitas domus est. Sed quamquam his solaciis adquiescam, debilitor et frangor eadem illa humanitate, quae me ut hoc ipsum permitterem induxit. Non ideo tamen velim durior fieri. Nec ignoro alios eius modi casus nihil amplius vocare quam damnum, eoque sibi magnos homines et sapientes videri. Qui an magni sapientesque sint, nescio; homines non sunt. Hominis est enim adfici dolore sentire, resistere tamen et solacia admittere, non solaciis non egere.

Mi hanno abbattuto le malattie, le morti anche, dei miei (schiavi), (che erano) per giunta (ancora) giovani. Due (sono i miei) conforti, per nulla pari ad un così grande dolore, ma comunque dei conforti: uno (è) la (mia) facilità di affrancare (gli schiavi) – (mi) sembra infatti di non aver perduto del tutto prematuramente quelli che ho perduto (quando erano) già liberi -, l’altro (è) il fatto che permetto anche agli schiavi di fare una sorta di testamento, e lo rispetto come legittimo. Ordinano e chiedono quello che (è) sembrato (loro) opportuno; (io) obbedisco come se avessi ricevuto un ordine. Fanno divisioni, doni, lasciti, (ma) solo all’interno della casa; per gli schiavi infatti la casa è una sorta di Stato e per così dire una città. Ma sebbene (io) trovi la calma con questi conforti, sono abbattuto e angosciato da quella stessa umanità che mi ha spinto a permettere proprio ciò. Non per questo tuttavia vorrei diventare più duro. Né ignoro che altri definiscono casi di tal genere nulla più che un (semplice) danno e che per questo credono di essere uomini grandi e saggi. Se questi siano grandi e saggi, non lo so; (ma di sicuro) non sono uomini. E’ proprio di un uomo, infatti, essere colpito dal dolore, sentir(lo), resister(gli) tuttavia e ammettere dei motivi di conforto, non il poter fare a meno di un conforto.

Ab Urbe Condita, V, 47

Dum haec Veiis agebantur, interim arx Romae Capitoliumque in ingenti periculo fuit. Namque Galli, seu vestigio notato humano qua nuntius a Veiis pervenerat seu sua sponte animadverso ad Carmentis saxo in adscensum aequo, nocte sublustri cum primo inermem qui temptaret viam praemisissent, tradentes inde arma ubi quid iniqui esset, alterni innixi sublevantesque in vicem et trahentes alii alios, prout postularet locus, tanto silentio in summum evasere ut non custodes solum fallerent, sed ne canes quidem, sollicitum animal ad nocturnos strepitus, excitarent. Anseres non fefellere quibus sacris Iunonis in summa inopia cibi tamen abstinebatur. Quae res saluti fuit; namque clangore eorum alarumque crepitu excitus M. Manlius qui triennio ante consul fuerat, vir bello egregius, armis arreptis simul ad arma ceteros ciens vadit et dum ceteri trepidant, Gallum qui iam in summo constiterat umbone ictum deturbat. Cuius casus prolapsi cum proximos sterneret, trepidantes alios armisque omissis saxa quibus adhaerebant manibus amplexos trucidat. Iamque et alii congregati telis missilibusque saxis proturbare hostes, ruinaque tota prolapsa acies in praeceps deferri. Sedato deinde tumultu reliquum noctis, quantum in turbatis mentibus poterat cum praeteritum quoque periculum sollicitaret, quieti datum est. Luce orta vocatis classico ad concilium militibus ad tribunos, cum et recte et perperam facto pretium deberetur, Manlius primum ob virtutem laudatus donatusque non ab tribunis solum militum sed consensu etiam militari; cui universi selibras farris et quartarios vini ad aedes eius quae in arce erant contulerunt, — rem dictu parvam, ceterum inopia fecerat eam argumentum ingens caritatis, cum se quisque victu suo fraudans detractum corpori atque usibus necessariis ad honorem unius viri conferret. Tum vigiles eius loci qua fefellerat adscendens hostis citati; et cum in omnes more militari se animadversurum Q. Sulpicius tribunus militum pronuntiasset, consentiente clamore militum in unum vigilem conicientium culpam deterritus, a ceteris abstinuit, reum haud dubium eius noxae adprobantibus cunctis de saxo deiecit. Inde intentiores utrimque custodiae esse, et apud Gallos, quia volgatum erat inter Veios Romamque nuntios commeare, et apud Romanos ab nocturni periculi memoria.

Mentre a Veio succedevano queste cose, nel frattempo la cittadella di Roma e il Campidoglio corsero un gravissimo pericolo. Infatti i Galli, o perché avevano notato orme umane nel punto in cui era passato il messaggero giunto da Veio, o perché si erano resi conto da soli che l’erta nei pressi del tempio di Carmenta poteva essere superata senza difficoltà, una notte debolmente rischiarata inviarono prima in avanscoperta un uomo disarmato per accertare che il passaggio fosse praticabile; poi, passandosi le armi nei punti più difficili, appoggiandosi a vicenda e spingendosi verso l’alto gli uni con gli altri a seconda della natura del terreno, raggiunsero la cima in un tale silenzio che non solo riuscirono a passare inosservati alle sentinelle, ma non svegliarono nemmeno i cani che invece sono animali sensibilissimi ai rumori notturni. Non sfuggirono però alla vigilanza delle oche che, non ostante la grande penuria di viveri, erano state risparmiate perché sacre a Giunone. E questo fatto salvò i Romani. Svegliato infatti dal verso e dallo starnazzare delle oche, Marco Manlio, che era stato console tre anni prima e si era sempre distinto in campo militare, afferrando le armi e insieme chiamando gli altri a imitarlo, si fece avanti e mentre i suoi compagni correvano in disordine a armarsi, con un colpo di scudo ricacciò giù dal pendio un Gallo che era già riuscito a raggiungere la sommità dell’erta. Ma siccome la sua caduta travolse quelli che gli venivano dietro, altri Galli, colti dal panico, nel tentativo di aggrapparsi con le mani alle rocce alle quali aderivano con il corpo, lasciarono cadere le armi e finirono sotto i colpi di Manlio. Essendosi nel frattempo aggiunti anche altri Romani, i nemici vennero ricacciati dalle rocce con lancio di frecce e di pietre, così che l’intero contingente di Galli fu respinto con successo franando rovinosamente giù dal precipizio. Tornata la calma, per quanto era consentito a menti sconvolte dal ricordo del pericolo anche se ormai passato, il resto della notte venne dedicato al riposo. Alle prime luci del giorno, il suono delle trombe chiamò i soldati all’adunata di fronte ai tribuni. E siccome era necessario ricompensare chi aveva fatto il proprio dovere e punire chi invece non era stato all’altezza, prima di ogni altra cosa Manlio venne elogiato per il suo coraggio e premiato non solo dai tribuni dei soldati ma anche all’unanimità dai soldati, ciascuno dei quali portò mezza libbra di grano e un quarto di vino alla sua casa sulla cittadella: ricompensa modesta, a parole, ma che in quella situazione di grave penuria era prova di enorme affetto, in quanto ogni soldato, per onorare quell’unico uomo, si privava di viveri, li sottraeva alla propria persona e necessità. Poi vennero chiamati in giudizio le sentinelle di guardia nel punto in cui i nemici erano riusciti a salire senza che nessuno se ne accorgesse. Il tribuno Quinto Sulpicio annunciò di volerli punire tutti in base alla legge marziale: ma trattenuto dalle concordi grida dei soldati che addossavano la responsabilità dell’accaduto su un’unica sentinella, risparmiò gli altri, e, col consenso di tutti, fece scaraventare dalla rupe Tarpea l’uomo che senza dubbio era il responsabile di quella colpa. Da quel momento in poi da entrambe le parti la vigilanza fu più accurata: sia presso i Galli che erano venuti a sapere dell’avvenuto passaggio di messaggieri tra Roma e Veio, sia presso i Romani, memori del pericolo corso quella notte.

Breviarium, VII, 14

Successit huic Nero, Caligulae, avunculo suo, simillimus, qui Romanum imperium et deformavit et diminuit, inusitatae luxuriae sumptuumque, ut qui exemplo C. Caligulae in calidis et frigidis lavaret unguentis, retibus aureis piscaretur, quae blattinis funibus extrahebat. Infinitam senatus partem interfecit, bonis omnibus hostis fuit. Ad postremum se tanto dedecore prostituit, ut et saltaret et cantaret in scaena citharoedico habitu vel tragico. Parricidia multa commisit, fratre, uxore, sorore, matre interfectis. Urbem Romam incendit, ut spectaculi eius imaginem cerneret, quali olim Troia capta arserat. In re militari nihil omnino ausus Britanniam paene amisit. Nam duo sub eo nobilissima oppida capta illic atque eversa sunt. Armeniam Parthi sustulerunt legionesque Romanas sub iugum miserunt. Duae tamen sub eo provinciae factae sunt, Pontus Polemoniacus concedente rege Polemone et Alpes Cottiae Cottio rege defuncto.

A questo successe Nerone, molto simile a suo zio Caligola; il quale deturpò e diminuì l’autorità dei Romani, affinchè questi con l’esempio delle smodatezze e dell’inusuale lussuria di Caligola si lavasse con unguenti caldi e freddi, pescasse con reti d’oro, che tirava con funi di porpora. Tolse di mezzo un’infinita parte del senato, fu nemico di tutti gli onesti. Infine si oppose con tanto disonore, che ballava e cantava sulla scena nella veste di un citoredico o di un tragico. Uccisi il fratello, la moglie, la sorella e la madre, commise molti omicidi dei parenti. Incendiò la città di Roma, per riconoscere l’immagine del suo spettacolo nel modo stesso che Troia, catturata, era arsa. Non arrischiatosi affatto nell’arte militare, si lasciò quasi sfuggire la Bretagna. Infatti furono catturate sotto di lui due città fortificate e furono distrutte lì stesso. I Parti sottomisero le legioni romane in Armenia. Tuttavia sotto di lui furono create due provincie, il Ponto Polemoniaco per concessione del re Polemone e le Alpi Cozie alla morte del re Cozio.

Ab Urbe Condita, XXII, 7

Haec est nobilis ad Trasumennum pugna atque inter paucas memorata populi Romani clades. Quindecim milia Romanorum in acie caesa sunt; decem milia sparsa fuga per omnem Etruriam aversis itineribus urbem petiere; duo milia quingenti hostium in acie, multi postea [utrimque] ex volneribus periere. Multiplex caedes utrimque facta traditur ab aliis; ego praeterquam quod nihil auctum ex vano velim, quo nimis inclinant ferme scribentium animi, Fabium, aequalem temporibus huiusce belli, potissimum auctorem habui. Hannibal captivorum qui Latini nominis essent sine pretio dimissis, Romanis in vincula datis, segregata ex hostium coacervatorum cumulis corpora suorum cum sepeliri iussisset, Flamini quoque corpus funeris causa magna cum cura inquisitum non invenit.
Romae ad primum nuntium cladis eius cum ingenti terrore ac tumultu concursus in forum populi est factus. Matronae vagae per vias, quae repens clades allata quaeve fortuna exercitus esset, obvios percontantur; et cum frequentis contionis modo turba in comitium et curiam versa magistratus vocaret, tandem haud multo ante solis occasum M. Pomponius praetor “pugna” inquit “magna victi sumus”. Et quamquam nihil certius ex eo auditum est, tamen alius ab alio impleti rumoribus domos referunt: consulem cum magna parte copiarum caesum; superesse paucos aut fuga passim per Etruriam sparsos aut captos ab hoste. Quot casus exercitus victi fuerant, tot in curas distracti animi eorum erant quorum propinqui sub C. Flaminio consule meruerant, ignorantium quae cuiusque suorum fortuna esset; nec quisquam satis certum habet quid aut speret aut timeat. Postero ac deinceps aliquot diebus ad portas maior prope mulierum quam virorum multitudo stetit, aut suorum aliquem aut nuntios de iis opperiens; circumfundebanturque obviis sciscitantes neque avelli, utique ab notis, priusquam ordine omnia inquisissent, poterant. Inde varios voltus digredientium ab nuntiis cerneres, ut cuique laeta aut tristia nuntiabantur, gratulantesque aut consolantes redeuntibus domos circumfusos. Feminarum praecipue et gaudia insignia erant et luctus. Unam in ipsa porta sospiti filio repente oblatam in complexu eius exspirasse ferunt; alteram, cui mors filii falso nuntiata erat, maestam sedentem domi, ad primum conspectum redeuntis filii gaudio nimio exanimatam. Senatum praetores per dies aliquot ab orto usque ad occidentem solem in curia retinent, consultantes quonam duce aut quibus copiis resisti victoribus Poenis posset.

Fu questa la famosa battaglia del Trasimeno, una delle poche sconfitte memorande del popolo romano. Quindicimila Romani caddero uccisi sul campo, diecimila si dispersero fuggendo in tutta l’Etruria, per diversi cammini dirigendosi a Roma; dei nemici, duemila e cinquecento perirono in battaglia, molti, più tardi, delle ferite. Secondo altri, la strage d’ambe le parti fu maggiore; io, che non voglio accogliere notizie da fonti dubbie, al che inclinano troppo, quasi sempre, gli animi degli scrittori, mi sono attenuto particolarmente a Fabio, che di questa guerra fu contemporaneo. Annibale, lasciati liberi senza riscatto i prigionieri italici, messi in catene i romani, ordinò che si separassero dai mucchi dei nemici uccisi i cadaveri dei suoi soldati e che si desse loro sepoltura; fece anche cercare accuratamente il corpo di Flaminio, per seppellirlo; ma non lo trovò.
A roma, appena giunse la notizia di quel disastro, il popolo accorse in folla, atterrito e tumultuante, al Foro; le donne, vagando per le vie, chiedevano a tutti quelli in cui s’imbattevano quale strage fosse questa di cui si parlava e che cosa fosse avvenuto dell’esercito. E poiché la folla, come se si trattasse d’una regolare adunazione popolare, si riversava al luogo dei comizi e alla Curia, e reclamava i magistrati, finalmente poco prima del tramonto il pretore Marco Pomponio annunziò: “Siamo stati vinti in una grande battaglia”. Null’altro più preciso si seppe da lui; pure, l’uno con l’altro empiendosi la testa di dicerie, riferirono alle loro case che il console era morto con grande parte delle truppe, e che pochi eran sopravvissuti, o fuggiaschi per l’Etruria o prigionieri del nemico. Quante erano state le vicende dell’esercito vinto, altrettante furono le preoccupazioni di tutti quelli che avevano dei congiunti al seguito del console Caio Flaminio, ignari quali erano della sorte toccata a ciascuno del loro cari; né alcuno aveva certezza di quel che dovesse sperare o temere. L’indomani, e poi per alcuni giorni, alle porte fu maggiore la folla delle donne che non degli uomini, in attesa o di alcuno dei loro o di loro notizie; e a quelli che arrivavano facevan ressa intorno, né se ne potevano staccare, particolarmente dai loro conoscenti, prima di aver tutto domandato per filo e per segno. E avresti potuto distinguere, nei diversi volti di quelli che se ne ritornavano, se liete o tristi erano le notizie da essi apprese, mentre intorno ad essi si affollavano quelli che o si congratulavano o davano conforto mentre tornavano alle loro case. Particolarmente visibili erano le manifestazioni liete o luttuose delle donne. Di una si narra che, incontratasi proprio sulla porta col figlio tornato incolume, spirò tra le braccia di lui; di un’altra, che, mentre sedeva afflitta in casa per il falso annunzio ricevuto della morte del figlio, nel vederlo subitamente ritornato morì per eccesso di gioia. I pretori, per parecchi giorni, tennero riunito il Senato nella Curia, dal mattino fino al tramonto, discutendo con qual comandante e con quali forze si potesse opporre resistenza ai Punici vittoriosi.

De Bello Gallico, IV, 27

Hostes proelio superati, simul atque se ex fuga receperunt, statim ad Caesarem legatos de pace miserunt; obsides sese daturos quaeque imperasset facturos polliciti sunt. Una cum his legatis Commius Atrebas venit, quem supra demonstraveram a Caesare in Britanniam praemissum. Hunc illi e navi egressum, cum ad eos oratoris modo Caesaris mandata deferret, comprehenderant atque in vincula coniecerant; tum proelio facto remiserunt et in petenda pace eius rei culpam in multitudinem contulerunt et propter imprudentiam ut ignosceretur petiverunt. Caesar questus quod, cum ultro in continentem legatis missis pacem ab se petissent, bellum sine causa intulissent, ignoscere se imprudentiae dixit obsidesque imperavit; quorum illi partem statim dederunt, partem ex longinquioribus locis arcessitam paucis diebus sese daturos dixerunt. Interea suos in agros remigrare iusserunt, principesque undique convenire et se civitatesque suas Caesari commendare coeperunt.

I nemici, vinti in battaglia, non appena si riebbero dall’affanno della fuga, immediatamente inviarono messi a Cesare per offrirgli la resa, promettendo la consegna di ostaggi e il rispetto degli ordini che volesse impartire. Insieme a loro giunse l’atrebate Commio, l’uomo mandato da Cesare in Britannia in avanscoperta, come in precedenza avevo chiarito. Non appena Commio era sceso dalla nave e aveva riferito, come portavoce, le richieste di Cesare, i Britanni lo avevano fatto prigioniero e messo in catene; ora, dopo la battaglia, lo avevano liberato e, nel domandare pace, attribuivano la responsabilità dell’accaduto al popolo, chiedendo di perdonare una colpa dovuta alla leggerezza. Cesare si lamentò che i Britanni, dopo aver spontaneamente inviato ambascerie sul continente per domandare pace, gli avevano poi mosso guerra senza motivo, ma disse che perdonava la loro leggerezza e chiese ostaggi. Una parte venne consegnata immediatamente, altri invece, fatti venire da regioni lontane. li avrebbero consegnati – dissero – entro pochi giorni. Nel frattempo, diedero disposizione ai loro di ritornare alle campagne; i principi di tutte le regioni si riunirono e cominciarono a pregare Cesare di aver riguardo per loro e per i rispettivi popoli.

Divus Iulius, 54 (“Avidità di Giulio Cesare”)

Abstinentiam neque in imperiis neque in magistratibus praestitit. Ut enim quidam monumentis suis testati sunt, in Hispania pro consule et a sociis pecunias accepit emendicatas in auxilium aeris alieni et Lusitanorum quaedam oppida, quanquam nec imperata detrectarent et advenienti portas patefacerent, diripuit hostiliter. In Gallia fana templaque deum donis referta expilavit, urbes diruit saepius ob praedam quam ob delictum; unde factum, ut auro abundaret ternisque milibus nummum in libras promercale per Italiam provinciasque divenderet. In primo consulatu tria milia pondo auri furatus e Capitolio tantundem inaurati aeris reposuit. Societates ac regna pretio dedit, ut qui uni Ptolemaeo prope sex milia talentorum suo Pompeique nomine abstulerit. Postea vero evidentissimis rapinis ac sacrilegis et onera bellorum civilium et triumphorum ac munerum sustinuit impendia.

Non mostrò moderazione né durante il comando né durante le magistrature. Come infatti alcuni hanno dichiarato nei loro documenti, in Spagna prese dagli alleati denaro in aiuto per i debiti contratti e per desiderio di preda distrusse con ostilità alcune città fortificate dei Lusitani benché esse non si rifiutassero ai suoi ordini e avessero aperto le porte a lui che arrivava. In Gallia saccheggiò santuari e templi pieni di doni per il Dio, distrusse città, più spesso per bramosia di preda che per colpa dei nemici. Da qui consegue il fatto che abbondasse d’oro che mise in vendita, in Italia e nelle province, a tremila sesterzi la libbra. Nel primo consolato, rubò dal Campidoglio tremila libbre d’oro ed altrettaante ve ne rimise di bronzo dorato. Vendette per denaro alleanze e regni e per uno a Tolomeo, re degli Egizi, portò via quasi seimila talenti. Dopo in verità sostenne con evidentissime rapine e sacrilegi gli oneri delle guerre civili e le spese dei trionfi.