“Ultimi consigli paterni”

Pater familias, senectute et gravi diutinoque morbo confectus, quia supremus dies vitae appropinquabat, totam progeniem suam domum arcessivit. Magno cum dolore filii aspiciebant patris caput, canitie venerabile: facies pallida et macie consumpta omnem spem salutis iam adimebat. Tum bonus pater suprema praecepta filiis dedit: “Filii mei, estote semper probi et fortes: series dierum in hominum vita brevis est et rerum humanarum sors varia et fluxa est: ideo omnes homines spem in probitate fortitudineque sua et in deorum auxilio ponere debent. Vir bonus non solum in secundis rebus, sed etiam in adversis (rebus) fidei officia servat et turpi lucro honestam paupertatem anteponit; vir fortis pro re publica acriter in acie pugnat et mortem non putat perniciosam: mortem immo cum iucunda spe immortalitatis expectat”.

Il capo famiglia, consumato dalla vecchiaia e da una grave e lunga malattia, poiché il suo ultimo giorno di vita si avvicinava, chiamò a casa sua tutta la progenie. Con grande dolore i figli guardavano la testa del padre, dalla venerabile bianchezza (dei capelli): la faccia pallida e consumata dalla magrezza toglieva ormai ogni speranza di salvezza. Allora l’onesto padre diede ai figli gli ultimi insegnamenti: “Figli miei, sarete sempre onesti e forti: il susseguirsi dei giorni nella vita degli uomini è breve e il destino delle cose umane è vario e instabile: perciò tutti gli uomini devono riporre la speranza nell’onestà e nella loro forza d’animo e nell’aiuto degli dei. L’uomo onesto rispetta i doveri della fede non solo nelle situazioni felici, ma anche nelle avversità e antepone l’onesta povertà alla disonesta ricchezza; in battaglia l’uomo forte combatte aspramente per lo Stato e non considera dannosa la morte: anzi aspetta la morte con gioiosa speranza dell’immortalità”.

“Il governo illuminato di Marco Aurelio”

Imperator Marcus Aurelius omnibus orientalibus provinciis carus fuit et apud multas etiam clementiae et philosophiae studii vestigia reliquit. Apud Aegyptos magna cum diligenzia principia antiquae eorum sapientiae quaesivit. Fuit diu Alexandriae et Antiochiae, clementer cum civibus agens. Pacem cum multis Asiae regibus et Persarum legatis, ad se venientibus, fecit. Faustinam uxorem sub radicibus montis Tauris, in parvo vico,exanimatam vi subi morbi, amisit. Postea Faustinae, divae a senatum appellatae, aedem exstruxit. Rediens ad Italiam navi gravem tempestatem Romanorum classe quassantem fortiter tulit. Brundisio Romam pergens, et ipse et milites, eius iussus, sagum deposuerunt et togam sumpserunt. Postquam Urbem venit, triumphum egit, congiarium et spectacula mirifica populo dedit; deinde civitatis mores corruptos correxit atque sumptus et publicos et privatos minuit. Sententia Platonis semper in eius ore fuit: “Florent civitates, si aut philosophi imperant aut imperates pro philosophis agunt”.

L’imperatore Marco Aurelio fu caro a tutte le province orintali e in presenza di multe lasciò le tracce della cura della clemenza e della filosofia. Presso gli Egiziani cercò di ottenere le fondamenta del loro sapere. Stette a lungo ad Alessandria e ad Antiochia comportandosi mitemente xon i cittadini. Fece la pace con molti re dell’Asia e ambasciatori dei Persiani, andati da lui. Perse la moglie Faustina sotto le radici del monte Tauro in una piccola strada, uccisa con la forza di un’improvvisa malattia. Poi edificò un tempio a Faustina, dea chiamata dal senato. Andando in Italia in nave sopportò una violenta tempesta che sconquassò energicamente la flotta dei Romani. Proseguendo da Brindisi a Roma, sia lui stesso sia i soldati con il suo comando, deposero il mantello militare e indossarono la toga. Dopo essere arrivati a Roma, condusse il trionfo, diede una donazione e spettacoli meravigliosi al popolo; poi corresse le tradizioni corrotte dei cittadini e diminuì le spese sia pubbliche sia private. Il pensiero di Platone fu sempre nella sua bocca: “Cittadini fiorenti, se o comandando o comandati i filosofi agiscono in favore dei filosofi”.

Institutio Oratoria, I, 1, 12-13-14 (“Si studi il greco prima del latino”)

12 – A sermone Graeco puerum incipere malo, quia Latinum, qui pluribus in usu est, uel nobis nolentibus perbibet, simul quia disciplinis quoque Graecis prius instituendus est, unde et nostrae fluxerunt.
13 – Non tamen hoc adeo superstitiose fieri uelim, ut diu tantum Graece loquatur aut discat, sicut plerisque moris est. Hoc enim accidunt et oris plurima uitia in peregrinum sonum corrupti et sermonis, cui cum Graecae figurae adsidua consuetudine haeserunt, in diuersa quoque loquendi ratione pertinacissime durant.
14 – Non longe itaque Latina subsequi debent et cito pariter ire. Ita fiet ut, cum aequali cura linguam utramque tueri coeperimus, neutra alteri officiat.

12 – Ritengo preferibile che il fanciullo cominci dalla lingua greca, dato che il Latino – che è la nostra lingua-madre – volenti o nolenti lo assimilerà (comunque), e poi perché bisogna insegnare per prime le discipline greche, dalle quali son derivate anche le nostre.
13 – Ciononostante, non vorrei che ciò avvenisse in modo così scontato tal che parli e impari soltanto il greco, secondo (l’odierna) moda diffusa.
Così, infatti, si verificano altresì numerosi difetti di pronuncia – deviata verso l’inflessione straniera – e di linguaggio: tal che una volta ch’essi si siano fissati in virtù d’una assidua frequentazione del modo di parlare greco, perdurano in modo molto pertinace anche qualora si assuma una diversa parlata.
14 – E dunque, (lo studio del) Latino deve seguire a ruota (quello del greco), e ben presto (essi devono) procedere insieme, di modo che, avendo iniziato a coltivare con egual cura entrambe le lingue, nessuna delle due farà d’ostacolo all’altra.

“La Grecia e Roma”

Dum Marcus et Philippus dormiunt, eorum patres sermonem in multam noctem producunt. Pater Philippi, qui Graecus est, dicit: “Graecia etiam nunc artificiis ornamentisque fulget, sed nobis desunt fortitudo et concordia: bellis intestinis patria nostra deleta est”. Pater Marci dicit: “Graeciae dignitatem non ignoro, quae non solum artibus clara fuit aritque in perpetuum, sed etiam gloria belli. Nam a Miltiade, Cimonis filio, copiae Darei apud Marathona profligatae sunt; a Themistocle Xerxis classis Salaminia pugna superata est; ab Alexandro Magno Persarum opes factae sunt et Macedonum Graecorumque phalanges usque ab Indum flumen victores ductae sunt. Nunc Graecia Romana provincia est et imperium Romanum toto orbe terrarum floret. Sed Graecia capta ferum victorem artibus carminibusque suis cepit.

Mentre Marco e Filippo dormono, i loro padri producono un discorso per tutta la notte. Il padre di Filippo, che è greco, dice: “Anche ora la Grecia splende in artifici e ornamenti, ma ci mancano il valore e la concordia: la nostra patria è distrutta dalle guerre interne”. Il padre di Marco dice: “Non ignoro la dignità della Grecia, che non solo fu illustre per arti e lo sarà per sempre, ma anche la gloria di guerra. Infatti da Milziade, figlio di Cimone, le truppe di Dario vennero sconfitte presso Maratona; da Temistocle la flotta di Serse fu superata nella battaglia di Salamina; da Alessandro Magno furono infrante le opere dei Persiani e le falangi dei Macedoni e Greci fino al fiume Indo furono considerate vincitrici. Ora la Grecia è una provincia romana e l’impero romano in tutta la terra fiorisce. Ma presa la Grecia si impossessò del feroce vincitore con le arti e i carmi.

Breviarium, I, 13-14-15 (“Prime istituzioni repubblicane”)

13 – Sexto decimo anno post reges exactos seditionem populus Romae fecit, tamquam a senatu atque consulibus premeretur. Tum et ipse sibi tribunos plebis quasi proprios iudices et defensores creavit, per quos contra senatum et consules tutus esse posset.
14 – Sequenti anno Volsci contra Romanos bellum reparaverunt, et victi acie etiam Coriolos civitatem, quam habebant optimam, perdiderunt.
15 – Octavo decimo anno postquam reges eiecti erant expulsus ex urbe Q. Marcius, dux Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem petebant, repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe venissent, quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic secundus post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset.

13 – Nel sedicesimo anno dopo che i re erano stati cacciati, la plebe romana fece la secessione ritenendosi subissato da parte del senato e dei consoli. Allora, anc’esso istituì, per sé, dei tribuni della plebe, una sorta di giudici e difensori propri, attraverso i quali poter tutelarsi contro il senato e i consoli.
14 – L’anno dopo, i Volsci ripresero la guerra contro Roma, ma sconfitti sul campo, persero anche la città di Corioli, loro vanto.
15 – Nel diciottesimo anno dopo che i re erano stati cacciati, Q. Marcio, condottiero romano – (quello) che aveva espugnato Corioli, città volsca – (venne) esiliato dalla città (Roma), e riparò presso gli stessi Volsci, fornendo aiuto contro i Romani, (perché) pieno di astio (contro la propria patria).
Sconfisse spesso i Romani, giunse fino a cinque miglia da Roma, con l’intenzione, addirittura, di cingere d’assedio la propria città patria – aveva (infatti) rimandato indietro gli ambasciatori che chiedevano la pace – se sua madre Veturia e sua moglie Volumnia non fossero giunte, da Roma, per lui: (Marcio), vinto dalle loro lacrime e dai loro scongiuri, smobilitò l’esercito. In effetti, costui, dopo Tarquinio, fu il secondo (nella storia di Roma) a farsi condottiero contro la propria patria.

Factorum Et Dictorum Memorabilium, V, 3, 4 (“Il tradimento di Lenate”)

Sed ut ad alium consentaneum huic ingrati animi actum transgrediar, M. Cicero C. Popilium Laenatem Picenae regionis rogatu M. Caeli non minore cura quam eloquentia defendit eumque causa admodum dubia fluctuantem saluum ad penates suos remisit. hic Popilius postea nec re nec uerbo a Cicerone laesus ultro M. Antonium rogauit ut ad illum proscriptum persequendum et iugulandum mitteretur, impetratisque detestabilis ministerii partibus gaudio exultans Caietam cucurrit et uirum, mitto quod amplissimae dignitatis, certe ~ salubritate studio praestantis officii priuatim sibi uenerandum, iugulum praebere iussit ac protinus caput Romanae eloquentiae et pacis clarissimam dexteram per summum et securum otium amputauit eaque sarcina tamquam opimis spoliis alacer in urbem reuersus est: neque enim scelestum portanti onus succurrit illud se caput ferre, quod pro capite eius quondam perorauerat. inualidae ad hoc monstrum suggillandum litterae, quoniam qui talem Ciceronis casum satis digne deplorare possit, alius Cicero non extat.

Marco Cicerone, su richiesta di Marco Celio, difese Popilio Lenate, della regione del Piceno, con non minore sollecitudine che eloquenza, e benché vacillante per una causa assai dubbia, lo rimandò salvo ai suoi Penati. Questo Popilio in seguito, pur non offeso né nei fatti né nelle parole da Cicerone, chiese senza motivo a Marco Antonio di essere mandato ad inseguire e uccidere quello che era stato proscritto: e l’incarico del detestabile ufficio, esultando con gioia accorse a Gaeta e ordinò all’uomo, non dico con che dignità, che avrebbe dovuto venerare in privato, di offrire la gola, e immediatamente tagliò la testa dell’eloquenza e pace romana e la famosissima mano destra con somma e serena tranquillità, e con quel fardello, come con un ricco bottino, ritornò rapidamente in città. E infatti, portando il macabro fardello, non gli occorse che stava portando quella testa che un giorno aveva parlato in suo favore. Insufficiente scritto per criticare questa atrocità, giacché non vi è un altro Cicerone che possa deplorare abbastanza degnamente tale disgrazia di Cicerone.

Fabulae, 147 – Triptolemus

Cum Ceres Proserpinam filiam suam quaereret, devenit ad Eleusinum regem, cuius uxor Cothonea puerum Triptolemum pepererat, seque nutricem lactantem simulavit. Hanc regina libens nutricem filio suo recepit. Ceres cum vellet alumnum suum immortalem reddere, interdiu lacte divino alebat, noctu clam in igne obruebat. Itaque praeterquam solebant mortales crescebat; et sic fieri cum mirarentur parentes, eam observaverunt. Cum Ceres eum vellet in ignem mittere, pater expavit. Illa irata Eleusinum exanimavit, at Triptolemo alumno suo aeternum beneficium tribuit. Nam fruges propagatum currum draconibus iunctum tradidit, quibus vehens orbem terrarum frugibus obsevit. Postquam domum rediit, Celeus eum pro benefacto interfici iussit. Sed re cognita iussu Cereris Triptolemo regnum dedit, quod ex patris nomine Eleusinum nominavit, Cererique sacrum instituit, quae Thesmophoria Graece dicuntur.

Mentre cercava sua figlia Proserpina, Cerere giunse presso il re Eleusino, la moglie del quale, Cotonea, aveva partorito un bambino, Trittolemo, ed ella si finse una balia. La regina la accolse volentieri come nutrice per suo figlio. Cerere, volendo rendere il suo discepolo immortale, di giorno lo nutriva con del latte divino, mentre di notte, di nascosto, lo nascondeva nel fuoco. E così cresceva più di quanto erano soliti i mortali; e poiché i genitori si meravigliavano che ciò accadesse in questi termini, la sorvegliarono. Visto che Cerere voleva buttare il bambino nel fuoco, il padre si spaventò. Ella, arrabbiata, uccise Eleusino, mentre concesse al suo discepolo Trittolemo un privilegio eterno. Infatti, per diffondere i frutti, gli consegnò un carro legato a dei dragoni, viaggiando sui quali seminò le messi nel mondo. Dopo essere tornato in patria Celeo ordinò di ucciderlo in cambio di un beneficio. Ma venuto a conoscenza della situazione, per ordine di Cerere, affidò a Trittolemo il regno, che chiamo Eleusino dal nome del padre, e lo stabilì sacro a Cerere, che in lingua greca viene chiamata Tesmoforia.

Factorum et Dictorum Memorabilium, V, 1 ext 6 (“Atti di mitezza di Annibale nei riguardi del nome romano”)

Hannibal enim Aemilii Pauli apud Cannas trucidati quaesitum corpus, quantum in ipso fuit, inhumatum iacere passus non est. Hannibal Ti. Gracchum Lucanorum circumuentum insidiis cum summo honore sepulturae mandauit et ossa eius in patriam portanda militibus nostris tradidit. Hannibal M. Marcellum in agro Bruttio, dum conatus Poenorum cupidius quam consideratius speculatur, interemptum legitimo funere extulit punicoque sagulo et corona donatum aurea rogo inposuit. ergo humanitatis dulcedo etiam in ferata barbarorum ingenia penetrat toruosque et truces hostium mollit oculos ac uictoriae insolentissimos spiritus flectit. nec illi arduum ac difficile est inter arma contraria, inter destrictos conminus mucrones placidum iter reperire. uincit iram, prosternit odium hostilemque sanguinem hostilibus lacrimis miscet.

Annibale, infatti, fatto cercare il cadavere di Emilio Paolo, caduto ucciso a Canne, non permise – per quanto fosse nelle sue facoltà – che (quello) giacesse insepolto. (Sempre) Annibale fece seppellire con sommo onore Tiberio Gracco, caduto in un’imboscata ordita dai Lucani e fece consegnare le sue spoglie ai nostri soldati, che le facessero rientrare in patria. (Ancora Annibale,) fece onorare con degne esequie M. Marcello – caduto ucciso nel territorio Bruzzio, mentre spiava i tentativi dei Cartaginesi più con temerarietà che con circospezione – e (ne), fece porre sul rogo (la salma) avvolta in un mantello cartaginese e cinto d’una corona d’oro. Ciò vuol dire che la dolcezza dell’umana sensibilità penetra anche nelle indoli efferate dei barbari, addolcisce lo sguardo torvo e truce dei nemici e modera gli insolentissimi ardori di una vittoria. Né a quella (ovvero, all’humanitas) riesce arduo e difficile – pur tra armi contrapposte, pur tra le armi sguainate nel corpo a corpo, imboccare una via di pace. (L’humanitas) vince l’ira, spegne l’odio e fa mescolare il sangue nemico alle nemiche lacrime.

De Officiis, I, 90-91 (“Bisogna conservare la moderazione in ogni circostanza della vita”)

In rebus prosperis superbia magnopere arrogantiaque nobis fugiendae sunt. Nam ut in rebus adversis immoderate queri, sic in rebus secundis nimium laetari levitatis atque stultitiae indiciun est: in omnibus vitae rebus modus, servandus est. Igìtur recte dicunt qui nos monent ut quanto superiores simus, tanto submissius nos geramus. Panaetius, clarus philosophus, narrat Scipionem Africanum solitum esse dicere: “Ut equi indomiti domitoribus tradendi sunt, ut iis sine periculo uti possìmus sic homines secundis rebus ecfrenati sibique praefidentes monendi sunt, ut de rerum humanarum imbecillitate varietateque fòrtunae cogitent”. Etiam in secundissimis rebus maxime utendum est consilio amicorum adsenatores autem omninno fugiendi sunt neque a nobis eorum verbìs, quae saepe nos decipiunt, aures praebendae sunt.

Nelle circostanze fortunate, dobbiamo evitare, in sommo grado la superbia e l’arroganza. Come nell’avversa fortuna il sopportare senza regola, così quando la fortuna ci sorride è indizio di gran leggerezza e di stoltezza il rallegrarsi oltre misura: in ogni circostanza della vita dobbiamo conservare la moderazione; tal che sono nel giusto coloro i quali ci consigliano di comportarci tanto più umilmente quanto più siamo posti in alto. Panezio, filosofo famoso, racconta che Scipione l’Africano soleva dire: “Come i puledri recalcitranti devono essere addomesticati dai domatori, tal che possiamo servircene senza pericolo alcuno, così gli uomini – imbaldanziti ed estremamente fiduciosi delle proprie possibilità nelle circostanze fortunate – devono essere ragguagliati circa l’instabilità delle cose umane e la mutabilità della fortuna. Anzi, quanto più ci arride la fortuna, tanto più bisogna servirsi del consiglio degli amici, al contrario bisogna evitare gli adulatori e non dobbiamo prestare ascolto alle parole di coloro i quali intendono ingannarci.

“Marco Valerio Corvino”

Bello Gallico, anno quadrigentesimo quinto ab Urbe condita, cum Romani in stationibus quieti tempus tererent, Gallus quidam, magnitudine atque armis insignis, processit quatiensque scutum hasta, cum silentium fecisset, per interpretem provocavit unum ex Romanis ut secum ferro decerneret. Marcus Valerius, tribunus militum adulescens, cum facultatem a consule petivisset, in medium armatus processit. Tum res mirabilis accidit: corvus repente consedit in galea iuvenis Romani qui manus cum Gallo conserturus erat. Hoc ut augurium de caelo missum tribunus existimavit et deos oravit ut propitii sibi Romanisque essent. Ales non solum in galea permansit sed, cum Romanus et Gallus certamen inchoaverunt, levans se alis os oculosque Galli rostro et unguibus appetivit, donec Valerius hostem prodigio territum obtruncavit. Tum corvus evolavit orientem petens atque Romani Valerio cognomen Corvinum indiderunt.

Durante la guerra gallica, nell’anno 405 dalla fondazione di Roma, trascorrendo i Romani tranquilli il tempo nei posti di guardia, un Gallo, insigne in armi e in grandezza, avanzò scuotendo lo scudo con la lancia, essendosi fatto silenzio (tacendo tutti), provocò attraverso un interprete uno tra i romani affinchè si battesse con la spada con lui. Marco Valerio, giovane tribuno militare, chiedendo la possibilità al console, avanzò armato nel mezzo. Allora accadde una cosa incredibile: un corvo all’improvviso si sedette sull’elmo del giovane romano che stava per venire in battaglia con il gallo. Il tribuno credette che questo fosse un presagio mandato dal cielo e pregò gli dei affinchè fossero propizi a lui e ai romani. L’uccello non solo restò sull’elmo ma, quando il romano e il gallo vennero allo scontro, sollevandosi con le ali si avvicinò alla bocca e agli occhi del gallo con le unghie e il becco, finchè Valerio sconfisse il temico spaventato dal prodigio. Allora il corvo volò verso oriente e i romani diedero a Valerio il cognome di Corvino.

“Imprudenza di Gaio Ampio e assalto dei Galli Boi”

P. Aelius consul, cum in Gallia citeriorem pervenisset atque audivisset a Boiis ante suum adventum incursiones in agros sociorum factas, duabus legionibus subitariis inter socios conscriptis, additisque quattuor cohortibus de exercitu suo, C. Ampium, praefectum sociorum, hac tumultuaria manu agrum Boiorum invadere iussit. Ampius, ingressus in hostium fines, primum populationes satis prospere ac tuto fecit, deinde, delecto apud Mutilum loco ad castra satis idoneo, castra posuit atque cum omnibus fere militibus frumentatum (iam enim maturae erant segetes) profectus est. Sed, neque explorato circa, neque stationibus positis ut milites inermes et operi demetendi intenti protegerentur, improviso impetu Gallorum cum frumentatoribus circumventus est. Tum pavor etiam armatos (milites) cepit, qui fugae se dederunt. Circiter septem milia hominum palata per segetes caesa sunt, inter quos ipse C. Ampius praefectus: ceteri in castra, metu compulsi, confugerunt. Inde sine certo duce, consensu militari, inseguenti nocte, relicta magna parte rerum suarum, ad consulem P. Aelium per saltus prope invios pervenerunt.

Il console P. Elio, essendo giunto nella Gallia Citeriore e avendo saputo che erano state fatte dai Boi nei campi degli alleati incursioni prima del suo arrivo, arruolate due legioni occasionali tra gli alleati, aggiunte quattro coorti dal suo esercito, ordinò che C. Ampio, prefetto degli alleati, invadesse con questo manipolo tumultuoso i campi dei Boi. Ampio, entrato nei confini dei nemici, rese le popolazioni abbastanza prospere e sicure, infine, scelto un luogo presso Mutilo idoneo all’accampamento, pose l’accampamento e partì con tutti i soldati verso il frumento (già infatti erano mature le messi). Ma, non esplorato intorno, nè poste le stazioni perche fossero protetti i soldati inermi e intenti all’opera della mietitura, con un improvviso assalto dei galli fu circondato con i suoi mietitori. Allora il terrore prese anche gli armati, che si diedero alla fuga. Circa settemila dispersi tra i campi di messi caddero uccisi, tra i quali lo stesso prefesso Ampio: gli altri fuggirono nell’accampamento, spinti dalla paura. Infine senza un sicuro comandante, per il consenso militare, fattasi notte, lasciata grande parte delle sue cose, giunsero al console Elio attravesso il passo quasi inaccessibile.

“Ulisse e Polifemo”

Postquam Troia equi lignei dolo a Graecis capta est et incendio deleta (est), Ulixes, insulae Ithacae rex, qui invisus Iunoni erat, diu deae iussu mare peragravit, antequam domum rediret. Olim per longum iter Ulixes com comitibus suis ad Cyclopum insulam appulit. Cyclopes, genus ferum et agreste, qui magnam vim corporis et unum oculum media fronte habebant, in specubus apud mare vivebant et pastorum vitam ducebat. Ulixes et eius comitibus in antrum Polyphemi, Neptuno filii, inierunt sed Cyclops, hospitalitatis immemor, quia omnia deorum hominumque iura contemnebat, eos totum diem in specu clausit et ad vesperum, cum a pabulo cum grege rediit, nunnullos Ulixis comites devoravit. Tum Ulixes, vir singulari astutia praeditus, dulcem et copiosum vinum Polyphemo praebuit et, cum Cyclops ebrius obdormivit, per somnum unum monstri oculum trunco ardenti exussit: postea comites suois sub ovium ventre alligavit, ipse ad arietem adhaesit et, sic celati, incolumnes e specu evaserunt.

Dopo che Troia venne presa con l’inganno del cavallo di Troia e distrutta dall’incendio, Ulisse, re dell’isola di Itaca, che era odiato da Giunon, a lungo per ordine della dea vagò per mare, prima di tornare in patria. Una volta nel lungo viaggio Ulisse con i suoi compagni appròdò all’isola dei Ciclopi. I Ciclopi, razza feroce e agreste, che avevano un grande forza del corpo e un solo occhio in mezzo alla fronte, vivevano in grotte presso il mare e conducevano una vita da pastori. Ulisse e i suoi compagni entrarono nell’antro di Polifemo, figlio di Nettuno ma il Ciclope, immemore dell’ospitalità, poichè disprezzava tutte le cose degli dei e i giuramenti degli uomini, li chiuse tutto il giorno nella grotta e a sera, quando tornò con il gregge dal pascolo, divorò alcuni compagni di Ulisse. Allora Ulisse, uomo di singolare astuzia, offrì un vino dolce e abbondante a Polifemo e, mentre il Ciclope dormiva ubriaco, nel sonno con un tronco ardente acciecò l’unico occhio del mostro: dopo legò i suoi compagni sotto il ventre delle pecore e lui stesso si legò all’ariete e così nascosti fuggirono incolumi dalla grotta.

“Cicerone ottimo governatore della cilicia”

Cicero a senatu in Ciliciam proconsul missus est. Tum vero ob Romanorum cladem et victoriam Parthorum Cilices magnam spem rerum novarum habebant, sed Cicero iustitia et moderatione sua provinciam ad fidem benevolentiamque populi Romani reduxit. I proconsulatu suo civitates pauperes gravibus tributis liberavit, omnia bona fraude intercepta restituit, multis beneficia tribuit, furta rapinasque acriter repressit, dies noctesque domi accipiebat provinciales, qui auxilium petebant, numquam donis et honoribus corruptus est. Res magnificas etiam in bello gessit: quoniam Parthi Syriam vastabant, non solum provinciam suam defendit, sed etiam de sociorum et regum finitimorum salute laboravit: itaque ingentem exercitum comparavit, in hostes impetum facit eorumque copias profligavit. Cum Romam rediit, senatus decrevit triumphum, quem Cicero recusavit, quia condicionem rei publicae miseram existimabat et iam initia belli civilis perspiciebat.

Cicerone dal senato fu mandato come proconsole il Cilicia. Allora in vero a causa della sconfitta dei romani e della vittoria dei Parti i Cilici avevano una grande speranza di nuove cose, ma Cicerone ridusse la provincie con la sua giustizia e moderazione alla fiducia e benevolenza del popolo romano. Durante il suo proconsolato liberò le città povere da gravi tributi, restituì tutte le cose buone (fraude intercepta), attribuì a molti i benefici, represse duramente i furti e le rapine, (accipiebat) notte e giorno i provinciali, che chiedevano aiuto, mai fu corrotto da doni e onori. Fece anche cose magnifiche in guerra:
poichè i Parti devastavano la Siria, non solo difese la sua provincia, ma anche lavorò alla salvezza degli alleati e dei re confinanti: e così preparò un ingente esercito, fece impeto contro i nemici e sbaragliò le loro truppe. Quando ritornò a Roma, il senato decretò il trionfo, che Cicerone rifiutò, poichè considerava la condizione dello stato misera e già vedeva l’inizio della guerra civile.

“Il senato romano”

Romulus, postquam urbem condidit, centum ex senioribus civibus legit, quos prorpter senectutem senatores appellavit, atque eorum consilio auxilioque regnavit. Senatorum numerus prope idem fuit sub aliis regibus, sed post reges exactos cum res publica istituita est, senatorum numerus actus est, quia patrici qui summos magistratus, id est praeturam, censuram et conssulatum, gesserant, iure senatores fibant. Senatores etiam patres appellabantur, quia et in secundis et in adversis rebus eri publicae tutores ac defensores putabantur. Primum senatus solum ex patriciis constabat, sed poste, cum magistratus qui aditum ad senatum dabant etiam plebi patuerunt, plebi quoque senatores facti sunt et “homines novi” appellati sunt. Multa et varia senatus officia erant: senatus enim de rei publicae rationibus, de bello, de pace et de multis aliis rebus delibrabat, de legibus agebat, provinciarum praefectos eligebat et in rei publicae discrimine dictatorem nominabat. Res romanae actute sunt non solum civium constantia, sociorum fide exercitum virtute sed etiam ac prudentia senatus.

Romolo, dopo che fondò la città, scelse cento tra i cittadini più anziani, che chiamò senatori per la loro vecchiaia e regnò con il loro aiuti e consigli. Il numero dei senatori fu più o meno lo stesso sotto altri re romani, ma dopo la cacciata dei re quando venne fondata la repubblica, il numero dei senatori aumentò per il fatto che i patrizi ricoprivano le più alte cariche, per esempio il questore, l’edile, il tribuno della plebe, la pretura e censura e il consolato, diventavano giustamente senatori. I senatori erano chiamati anche padri, perché venivano ritenuti nelle avversità e nella prosperità difensori e i tutori della repubblica. Inizialmente il senato era composto solo da patrizi, ma dopo che le magistrature, che davano l’ac***** al senato, vennero date anche alla plebe, anche i plebei divennero senatori e chiamati “uomini novi”. Le competenze del senato erano molte e varie: deliberava sulla guerra, sulla pace, sui trattati e su molte altre cose; discuteva delle leggi, eleggeva i prefetti delle province e nominava il dittatore nel pericolo dello stato. Quando Roma fu in grande pericolo, fu salvata non solo dalla costanza dei cittadini, dalla fedeltà degli alleati e dalla virtù dell’esercito ma anche dall’autorità e prudenza del senato.

Reges, 2 (“I re stranieri”)

Ex Macedonum autem gente duo multo ceteros antecesserunt rerum gestarum gloria: Philippus, Amyntae filius, et Alexander Magnus. Horum alter Babylone morbo consumptus est: Philippus Aegiis a Pausania, cum spectatum ludos iret, iuxta theatrum occisus est. Unus Epirotes, Pyrrhus, qui cum populo Romano bellavit. Is cum Argos oppidum oppugnaret in Peloponneso, lapide ictus interiit. Unus item Siculus, Dionysius prior. Nam et manu fortis et belli peritus fuit et, id quod in tyranno non facile reperitur, minime libidinosus, non luxuriosus, non avarus, nullius denique rei cupidus nisi singularis perpetuique imperii ob eamque rem crudelis. Nam dum id studuit munire, nullius pepercit vitae, quem eius insidiatorem putaret. Hic cum virtute tyrannidem sibi peperisset, magna retinuit felicitate. Maior enim annos LX natus decessit florente regno neque in tam multis annis cuiusquam ex sua stirpe funus vidit, cum ex tribus uxoribus liberos procreasset multique ei nati essent nepotes.

Del popolo macedone due re superarono di molto gli altri nella gloria delle imprese: Filippo figlio di Aminta e Alessandro Magno. Il secondo di questi fu divorato dalla malattia a Babilonia; Filippo fu ucciso da Pausania ad Egia, nei pressi del teatro, mentre si recava a vedere gli spettacoli. Degli Epiroti uno solo, Pirro, che guerreggiò col popolo Romano. Costui mentre dava l’assalto alla città di Argo nel Peloponneso, fu colpito da una pietra e mori. Parimenti uno solo fra i Siculi, Dionisio il Vecchio. Infatti fu valoroso ed esperto di arte militare e, dote che è difficile trovare in un tiranno, per nulla affatto libidinoso, non amante del lusso, non avido, di nessuna cosa smanioso se non di un potere personale e perpetuo e perciò crudele: infatti mentre cercò di consolidare questo potere, non risparmiò la vita di nessuno che a suo parere glielo insidiasse. Si era procacciato la tirannide col valore e seppe conservarla con grande fortuna: mori infatti oltre i sessant’anni di età lasciando il regno in uno stato florido, ed in tanti anni non vide il funerale di alcuno della sua stirpe, pur avendo generato figli da tre mogli e gli fossero nati molti nipoti.

De Divinatione, I, 46

Atque ego exempla ominum nota proferam. L. Paulus consul iterum, cum ei bellum ut cum rege Perse gereret obtigisset, ut ea ipsa die domum ad vesperum rediit, filiolam suam Tertiam, quae tum erat admodum parva, osculans animadvertit tristiculam. “Quid est,” inquit, “mea Tertia? quid tristis es?” “Mi pater,” inquit, “Persa periit.” Tum ille artius puellam complexus: ‘Accipio,” inquit, “mea filia, omen. Erat autem mortuus catellus eo nomine, L. Flaccum, flaminem Martialem, ego audivi, cum diceret Caeciliam Metelli, cum vellet sororis suae filiam in matrimonium conlocare, exisse in quoddam sacellum ominis capiendi causa, quod fieri more veterum solebat. Cum virgo staret et Caecilia in sella sederet, neque diu ulla vox exstitisset, puellam defatigatam petisse a matertera, ut sibi concederet paulisper ut in eius sella requiesceret; illam autem dixisse: “Vero, mea puella, tibi concedo meas sedes.” Quod omen res consecuta est; ipsa enim brevi mortua est, virgo autem nupsit, cui Caecilia nupta fuerat. Haec posse contemni vel etiam rideri praeclare intellego, sed id ipsum est deos non putare, quae ab iis significantur contemnere.

Ed io ti rammenterò ben noti esempi di òmina. Lucio Paolo console per la seconda volta essendogli toccato l’incarico di condurre la guerra contro il re Perse quando in quello stesso giorno sull’imbrunire ritornò a casa nel dare un bacio alla sua bambina Terzia ancora molto piccola a quel tempo si accorse che era un pò triste. “Che è successo Terzia?” le chiese; “Perché sei triste?”. E lei: “Babbo” disse “E’ morto Persa”. Egli allora abbracciandola forte disse: “Accetto il presagio figlia mia”. Era morto un cagnolino che si chiamava così. Ho udito raccontare io stesso da Lucio Flacco, flàmine marziale, che Cecilia moglie di Metello volendo far sposare la figlia di sua sorella si recò in un tempietto per ricevere un presagio secondo l’uso degli antichi. La nipote stava in piedi Cecilia era seduta; per molto tempo non si sentì nessuna voce; allora la ragazza stanca chiese alla zia che le permettesse di riposarsi un poco sulla sua sedia. E Cecilia: “Certo bambina mia ti lascio il mio posto”. E il detto si avverò: Cecilia morì poco dopo e la ragazza sposò colui che era stato il marito di Cecilia. Lo capisco fin troppo bene: queste cose si possono disprezzare o si può anche riderne; ma disprezzare i segni inviati dagli dèi e negare la loro esistenza è tutt’uno.

Divus Claudius, 34

Saevum et sanguinarium natura fuisse, magnis minimisque apparuit rebus.Tormenta quaestionum poenasque parricidarum repraesentabat exigebatque coram. Cum spectare antiqui moris supplicium Tiburi concupisset et deligatis ad palum noxiis carnifex deesset, accitum ab urbe vesperam usque opperiri perseveravit. Qvocumque gladiatorio munere, vel suo vel alieno, etiam forte prolapsos iugulari iubebat, maxime retiarios, ut expirantium facies videret. Cum par quoddam mutuis ictibus concidisset, cultellos sibi paruulos ex utroque ferro in usum fieri sine mora iussit. Bestiaris meridianisque adeo delectabatur, ut et prima luce ad spectaculum descenderet et meridie dimisso ad prandium populo persederet praeterque destinatos etiam levi subitaque de causa quosdam committeret, de fabrorum quoque ac ministrorum atque id genus numero, si automatum vel pegma vel quid tale aliud parum cessisset. Induxit et unum ex nomenculatoribus suis, sic ut erat togatus.

Per natura fu crudele e sanguinario, e ciò lo si vide sia nelle grandi, sia nelle piccole cose. Sottoponeva a tortura e puniva i parricidi senza nessun indugio e sotto i suoi occhi. Un giorno che desiderava assistere a Tivoli ad un supplizio di vecchio tipo, poiché il boia non arrivava, mentre il condannato era già legato al palo, ne fece venire uno da Roma e lo attese pazientemente fino a sera. In tutti i combattimenti di gladiatori, dati da lui o da qualcun altro, fece sgozzare anche quelli che cadevano casualmente, soprattutto i reziari, per osservare i loro volti quando spiravano. Una volta che due gladiatori si erano reciprocamente colpiti a morte, ordinò immediatamente di fabbricargli con le loro armi due piccoli coltelli per uso personale. Le lotte dei bestiari e quelle del mezzogiorno gli piacevano talmente che non solo si recava allo spettacolo all’alba, ma restava al suo posto anche a mezzogiorno, quando il popolo usciva per andare a mangiare, e, oltre ai gladiatori già stabiliti, costringeva a combattere, anche per un futile motivo, perfino gli operai, gli addetti al circo o le persone di questa categoria, quando un meccanismo, o un tavolato o un qualsiasi altro congegno non aveva funzionato a dovere. Fece scendere nell’arena anche uno dei suoi nomenclatori, così come si trovava, con la toga indosso.

“Cicerone riceve la notizia della morte di un amico”

Eo die a Marcello digressus eram: ego in Boeotiam ibam, ille in Italiam navigaturus erat. Postero die, Postumius ad me venit et mihi nuntiavit M. Marcellum, collegam nostrum, post cenae tempus a P. Magio Chilone pugione percussum esse et duo vulnera accepisse, unum in stomacho, alterum in capite. Medicus tamen sperabat eum victurum esse. Cum illuxit, ad Marcellum contendi. Non longe a Piraeo puer obviam mihi venit cum codicillis in quibus scriptum erat paulo ante lucem Marcellum e vita excessisse. Ego tamen ad tabernaculum eius perrexi. Inveni duos libertos et paucos servos. Coactus sum in eadem illa lectica, qua ego ipse vectus eram, urbem eum referre, ibique funus satis amplum ei faciendum curavi.

Ero partito quel giorno da Marcello: io andavo in Beozia, quegli stava per navigare verso l’Italia. Il giorno dopo Postumio venne da me e mi annunciò che M. Marcello, mio collega dopo la cena era stato colpito col pugnale da P. Magio Chilone e aveva ricevuto due ferite, una nel petto, l’altra in testa. Il medico tuttavia sperava che egli sarebbe vissuto. Quando si fece giorno, mi diressi da Marcello. Non lontano dal Pireo mi venne incontro un servo con un biglietto in cui era scritto che poco prima dell’alba Marcello era morto . Io tuttavia mi diressi alla sua tenda. (Vi) trovai due liberti e pochi servi. Fui costretto a riportarlo in città sulla medesima lettiga in cui io stesso avevo viaggiato e lì gli feci fare un funerale solenne.

“Il cursus honorum di Gaio Mario” (2)

G. Marius, quamvis nobilis non esset, propter virtutem in bello atque populi favorem, rapidum cursum honorum transcurit; nam augur, quaestor, tribunus plebis, praeter, censor et consul septies fuit. Secundo consulatu bellum contra Iugurtham, Numidarum regem, gessit atque post victoriam, cum triumphum celebravit, Iugurtham captivum ante currum suum usque ad Capitolium duxit. Quartum consul exercitum Teutonorum, qui in Romanorum fines penetraverant, profligavit atque iterum triumphavit. Quintum consul Cimbros fudit et sexto consulatu Romam, plebis seditionibus turbatam, pacificavit, sed invisus plebi quia tumultum represserat Roma eiectus est. Denique domum revocatus, septimum consul electus est.

G. Mario, sebbene non fosse stato nobile, per la virtù in guerra e per il favore del popolo, ebbe un rapido cursus honorum: infatti fu augure, questore, tribuno della plebe, pretore, censore e console per sette volte. Durante il secondo consolato fece guerra contro Giugurta, re dei Numidi e dopo la vittoria, quando celebrò il trionfo, trascinò Giugurta prigioniero davanti al suo carro fino al campidoglio. Per la quarta volta console sbaragliò l’esercito dei Teutoni, che era entrato nei confini dei romani e ottenne di nuovo l’onore del trionfo. Per la quinta volta console sconfisse i Cimbri e durante il sesto consolato pacificò Roma, sconvolta dalle ribellioni della plebe, ma odiato dalla plebe poichè aveva represso un tumulto fu cacciato da Roma. Infine richiamato a casa, fu eletto per la settima volta console.

“La sassonia e i suoi abitanti”

Nunc pauca de gente Saxonum et de natura eorum finium dicentur. Saxonia pars non parva est Germaniae eius figura trigona primum latus in austrum vergit usque ad flumen Rhenum secundum a regionis maritimis initium habet continetur flumine Albia et in orientem vergit usque ad Salam fluvium ubi est latus tertium. Saxonia alluitur Albia Sala Wisara nobilibus fluviis. Sala et Wisara in regionibus silvestribus Thuringiae fontem habent Albia in se recipit Salam et in oceanum influit. Loca tota fere plana sunt nam colles montesque rari sunt. Terra ubique fertilis capascua et silvestris; et apud fines Thuringiae et apud Salam et Rhenum fluvios multa et opima arva; perraro loca palustria vel arida. Saxonia enim viris armis et frugibus ingens est eiusque agri fecundi omnia hominum vitae necessaria ferunt: incolae tantum vini dulcedinem ignorant. Saxones gens ferox et in bello terribilis primum eruptionem in Romanorum fines fecerunt sed a Romanis acri pugna oppressi sunt; deinde Galliam occupaverunt sed a Syagrio duce Romanorum victi sunt. Eorum pars etiam in Britanniam venit et omnes Romanos ab insula depulit.

Poche cose sono dette riguardo la Sassonia e riguardo la natura dei suoi territori. La Sassonia è una regione non piccola della Germania, con la sua natura triangolare un primo lato volge verso Sud fino al fiume Reno, il secondo ha inizio dalle regioni marittime, è racchiusa dal fiume Albia e volge verso oriente fino al fiume Sala, dove si trova il terzo lato. La Sassonia è bagnata dall’Albia, Sala e Wisara, nobili fiumi. Sala e Wisara hanno la fonte nelle regioni silvestri della Turingia, Albia ritira in se stesso il Sala e confluisce nell’oceano. Tutti i luoghi sono pianeggianti, infatti sono rari i colli e i monti. La terra è ovunque fertile, adatta ai pascoli e silvestre, e ottimi e molti terreni arati ci sono presso i confini della Turingia e presso i fiumi Sala e Reno, assai raramente ci sono luoghi palustri e aridi. La Sassonia infatti è ingente di uomini, armi e frutti e i loro campi fertili portano tutte le cose necessarie alla vita degli uomini: gli abitanti ignorano la dolcezza del vino. I Sassoni, popolo feroce e terribile in guerra, per prima cosa fecero irruzione nei territori dei Romani, ma furono sconfitti dai Romani in una strenua battaglia, infine occuparono la Gallia, ma furono sconfitti da Siagro, comandante dei Romani. Parte di loro giunse anche in Britannia e scacciò dall’isola tutti i Romani.

“L’età dell’oro”

Antiqui poetae de prima aetate humani generis mira et incredibilia scripserunt. Nam deus Saturnus tum deorum hominumque rex vitam beatam sine curis ac laboribus sine morbis doloribusque sine mortis timore priscis hominibus muneri dedit. Itaque haec felix aetas “aeta aurea” appellata est. Tum enim neque tempestatum vim neque marium fluminumque impetum neque caeli fulmina homines cognoscebant sed caelum semper mite et salubre erat quia ver perenne erat: terra inarata copiosas fruges ferebat arbores sponte dulcia poma praebebant omni tempore viridia prata multitudine fragrantium florum erant ornata. Inter animalia nullae erant inimicitiae: mites greges voracium luporum insidias non timebant feroces leones cum timidis cervis cibum communicabant. Pariter homines ab omni cura et labore liberi concordes in pace vivebant: nondum atrocia scelera nondum mortalia arma nondum acria bella hominum mentes animosque terrebant.

Gli antichi poeti scrissero molte cose mirabili e incredibili sulla prima età del genere umano. Infatti il dio Saturno, allora re degli dei e degli uomini, diede in dono agli uomini primitivi, una vita beata senza affanni e fatiche, senza malattie e dolori, senza timore della morte. Questà felice età era chiamata “età dell’oro”. Infatti allora gli uomini non conoscevano la forza delle tempeste, la violenza dei mari e dei fiumi, nè i fulmini del cielo, ma il clima era sempre mite e salubre, perchè era perennemente primavera. La terra inarata portava copiosi frutti, gli alberi offrivano spontaneamente dolci frutti, in ogni tempo i verdi prati erano ornati da una moltitudine di fiori profumati. Tra gli animali non c’erano inamicizie: i mansueti greggi non temevano non temevano le insidie dei lupi voraci, i feroci leoni dividevano il cibo con i timidi cervi. Ugualmente gli uomini, liberi da ogni affanno e fatica, vivevano concordi in pace: non temevano gli atroci delitti, le armi mortali, le atroci guerre, gli animi e le menti.

Epistulae ad Caesarem, I, 5 (“La decadenza morale e politica della plebe romana”)

In duas partes ego civitatem divisam arbitror, sicut a maioribus accepi:in patres et in plebem. Antea in partibus summa auctoritas erat, vis multo maiore in plebe. Itaque saepius in civitate secessio fuit semperque nobilitatis opes deminutae sunt et ius populi amplificatum. Sed plebs libere agitabat quia nullius potentia super leges erat, neque divitiis aut superbia, sed bona fama factisque fortibus, nobilis ignobilem anteibat: humillimus quisque in arvis aut in militia, nullius honestae rei egens, satis sibi et satis patriae habebat. Sed, ubi eos paulatim expulsos agris inertia atque inopia incertas domos habere subegit, coepere alienas opes petere, libertatem suam et rem publicam venalem habere. Ita paulatim populos, qui dominus erat et cinctis gentibus imperitabat, dilapsus est et pro communi imperio privatim sibi quisque servitutem peperit. Haec igitur multitudo, malis moribus imbuta, nullo modo inter se congruens, parum mihi idonea videtur ad capessendam rem pubblicam.

Ritengo che la popolazione (risulti effettivamente) divisa in 2 classi, così come ho appreso dalla tradizione: (ovvero) in patriziato e plebe. In un primo momento, il potere politico assoluto era detenuto dal patriziato, quand’era invece la plebe ad avere un’incidenza molto maggiore. E così, (la plebe) sempre più spesso adottò (l’arma politica della) secessione, tale che – ad una diminuzione delle prerogative della nobiltà – corrispose un’amplificazione del diritto del popolo.
Tuttavia, la plebe poteva agire senza impedimenti perché non c’era alcuna autorità, la cui forza fosse al di sopra delle leggi, e l’aristocratico superava il plebeo non in ragione delle ricchezze o della prepotenza, ma in quanto a gloria ed imprese meritorie: chiunque – anche il più umile – (lavorasse) nei campi o (militasse) nell’esercito – s’accontentava di un’esistenza e di una condizione sociale, per quanto frugale, comunque onesta. Tuttavia, quando l’inerzia e l’indigenza allontanarono, a poco a poco, i plebei dai campi e li costrinsero ad un’esistenza precaria, cominciarono a mettere gli occhi sulle ricchezze altrui (per ottenere le quali) misero in vendita la propria libertà e la “cosa pubblica”. In questo modo, a poco a poco, il popolo – che aveva il comando assoluto su tutte (le altre) genti – si sfaldò e, invece di (concorrere al) comando comune, ognuno si procurò – per sé e per conto proprio – la servitù. Insomma, questa moltitudine – estremamente eterogenea e pregna di cattivi costumi – mi sembra davvero poco adatta alla vita politica.

“Dolore dei Persiani per la morte di Alessandro Magno”

Persae in lugubri veste cum coniugibus ac liberis vero desiderio Alexandri mortem lugebant. Adsueti sub regibus servilem vitam vivere, non alium rectorem sibi eo meliorem fuisse confitebantur. Fama Alexandri mortis ad Darei quoque matrem celeriter perlata est; quam non puduit lugubrem vestem sumere atque, laceratis crinibus, humi corpus abicere. Adsidebat ei altera ex neptibus, puella circiter viginti annorum, quae pari dolore flebat. Sed Sisigambis in morte Alexandri etiam suam, etiam neptium fortunam dolebat. Cogitabat enim: “Quem miserebit mei et mearum neptium? Qui alius Alexander futurus est?”. Ad ultimum vitae eam pertaesum est atque dolori succubuit; cibo abstinuit et luce, atque post quinque dies exstincta est.

I Persiani, vestiti a lutto, piangevano – insieme alle consorti e ai figli – la morte di Alessandro con sincero cordoglio. Pur essendo abituati (da sempre) a vivere una vita da sudditi, riconoscevano di non aver (mai) avuto altro regnante migliore di lui. La notizia della morte di Alessandro fu riferita rapidamente anche alla madre di Dario; ella non provò vergogna ad indossare l’abito del lutto e, strappatasi i capelli (per il dolore), e a gettarsi a terra. Le era accanto la seconda delle nipoti, una ragazza di circa vent’anni, che piangeva con egual dolore. Ma Sisigamba era afflitta per la sorte propria e delle (proprie) nipoti, con la morte di Dario. Infatti, pensava: “Chi avrà pietà di me e delle mie nipoti? Ci sarà (mai) un altro Alessandro?”. Infine, volle farla finita e si lasciò vincere dal dolore; si lasciò morire di fame; morì dopo 5 giorni.

Liber Memorialis, 7 (De maris ambitu)

Mare quo cingimur universum vocatur Oceanum. Hoc quattuor regionibus inrumpit in terras: a septentrione vocatur Caspium, ab oriente Persicum, a meridie Arabicum, idem Rubrum et Erythraeum, ad occasum magnum mare, idem Athlanticum; quod commerciis totius generis humani peragratur. Hoc intrat in fretum Gaditanum inter duos montes clarissimos Abinnam et Calpem ob impositas Herculis Columpnas, dein latissime simul et longissime fusum medium terrarum orbem inundat et nomina adquirit: Balearicum, quod Hispaniam adluit; Gallicum, quod Gallias tangit; Ligusticum, quod Liguribus infunditur; Tuscum, Tyrrhenum, idem inferum, quod dextrum Italiae latus circuit; Hadriaticum, idem superum, quod sinistrum Italiae latus circuit; Siculum, in quo Sicilia; Creticum, in quo insula est Creta; Ionium et Aegaeum, quae Achaiam [idem Peloponnesum] it ambiunt ut inveniente Isthmo paene insulam faciant; Myrtoum et Icarium, quae adhaerent Aegaeo mari, illud a Myrtilo hoc ab Icaro cognominatum; Ponticum, quod ingenti sinu Scythis infunditur; Hellesponticum, fauce transmissum inter duas celeberrimas urbes, Seston Asiae, Abydon Europae; Tanaiticum, quo Asia alluitur; Aegyptium ab Aegypto, Libycum a Libya cognominatur; Syrticum a duabus Syrtibus reciprocis aestibus retorquetur.

L’universo mare che ci circonda vien detto Oceano. Esso si frange sulla terraferma su quattro versanti: sul versante settentrionale esso prende il nome di Caspio, sul versante orientale quello di Persico, sul versante meridionale quello di Arabico ““ ovvero Rosso o Eritreo ““ sul versante occidentale quello di “mare magnum (grande)”, ovvero Atlantico. Quest’ultimo è attraversato da rotte commerciali tracciate da ogni sorta di popoli. Esso s’insinua nello stretto di Cadice, tra due monti molto rinomati: quello di Abila e quello di Calpe, considerati come due colonne innalzate da Ercole: da qui si slarga, bagnando la zona mediterranea e prendendo nomi diversi: Balearico, quando lambisce la Spagna; Gallico, quando lambisce le Gallie; Ligure, quando lambisce la Liguria; Toscano, Tirreno, ovvero “Inferum”, quando lambisce il versante destro dell’Italia; Adriatico, ovvero “Superum”, quando lambisce il versante sinistro; Siculo, quando lambisce la Sicilia; Cretico, quando lambisce l’isola di Creta; Ionio ed Egeo quando lambisce l’Acaia ““ ovvero il Peloponneso ““ con la caratteristica che, per la presenza dell’Istmo, va qui a formare una sorta di isola; Mirtoo ed Icario, dal nome rispettivamente di Mirtilo ed Icaro, nella zona prospiciente al mar Egeo; Pontico, quando bagna il vasto bacino della Scizia; Ellespontico, laddove si insinua tra due città celeberrime: Sesto, in Asia e Abido, in Europa; Tanaitico, laddove lambisce l’Asia; Egizio, prendendo il nome dall’Egitto; Libico dalla Libia e Sirtico dalle Sirti, le due grandi insenature.

De Bello Gallico, IV, 16 (“Cesare progetta il passaggio del Reno”)

Germanico bello confecto multis de causis Caesar statuit sibi Rhenum esse transeundum; quarum illa fuit iustissima quod, cum videret Germanos tam facile impelli ut in Galliam venirent, suis quoque rebus eos timere voluit, cum intellegerent et posse et audere populi Romani exercitum Rhenum transire. Accessit etiam quod illa pars equitatus Usipetum et Tencterorum, quam supra commemoravi praedandi frumentandi causa Mosam transisse neque proelio interfuisse, post fugam suorum se trans Rhenum in fines Sugambrorum receperat seque cum his coniunxerat. Ad quos cum Caesar nuntios misisset, qui postularent eos qui sibi Galliae bellum intulissent sibi dederent, responderunt: populi Romani imperium Rhenum finire; si se invito Germanos in Galliam transire non aequum existimaret, cur sui quicquam esse imperii aut potestatis trans Rhenum postularet? Ubii autem, qui uni ex Transrhenanis ad Caesarem legatos miserant, amicitiam fecerant, obsides dederant, magnopere orabant ut sibi auxilium ferret, quod graviter ab Suebis premerentur; vel, si id facere occupationibus rei publicae prohiberetur, exercitum modo Rhenum transportaret: id sibi ad auxilium spemque reliqui temporis satis futurum. Tantum esse nomen atque opinionem eius exercitus Ariovisto pulso et hoc novissimo proelio facto etiam ad ultimas Germanorum nationes, uti opinione et amicitia populi Romani tuti esse possint. Navium magnam copiam ad transportandum exercitum pollicebantur.

Terminata la guerra con i Germani, Cesare decise che doveva varcare il Reno, per molte ragioni, di cui una importantissima: vedendo con quale facilità i Germani tendevano a passare in Gallia, voleva che nutrissero timore anche per il proprio paese, quando si fossero resi conto che l’esercito del popolo romano poteva e osava oltrepassare il Reno. Si aggiungeva un’altra considerazione: la parte della cavalleria degli Usipeti e dei Tenteri che, come abbiamo detto, attraversata la Mosa a scopo di razzia e in cerca di grano, non aveva partecipato alla battaglia, dopo la fuga dei suoi si era rifugiata al di là del Reno, nelle terre dei Sigambri, unendosi a essi. Cesare, per chiedere la consegna di chi aveva mosso guerra a lui e alla Gallia, mandò suoi emissari ai Sigambri, che così risposero: il Reno segnava i confini del dominio di Roma; se egli riteneva ingiusto che i Germani, contro il suo volere, passassero in Gallia, perché pretendeva di aver dominio o potere al di là del Reno? Gli Ubi, poi, l’unico popolo d’oltre Reno che avesse inviato a Cesare emissari, stringendo alleanza e consegnando ostaggi, lo scongiuravano di intervenire in loro aiuto perché incombevano su di loro, pesantemente, gli Svevi; oppure, se ne era impedito dagli affari di stato, lo pregavano, almeno, di condurre l’esercito al di là del Reno: sarebbe stato un ausilio sufficiente per il presente e una speranza per il futuro. Il nome e la fama dell’esercito romano, dopo la vittoria su Ariovisto e il recentissimo successo, aveva raggiunto anche le più lontane genti germane: considerati alleati del popolo romano, gli Ubi sarebbero stati al sicuro. Promettevano una flotta numerosa per trasportare l’esercito.

Themistocles, 2 (“Temistocle dota gli Ateniesi di una potente flotta”)

Primus autem gradus fuit capessendae rei publicae bello Corcyraeo; ad quod gerendum praetor a populo factus non solum praesenti bello, sed etiam reliquo tempore ferociorem reddidit civitatem. Nam cum pecunia publica, quae ex metallis redibat, largitione magistratuum quotannis interiret, ille persuasit populo, ut ea pecunia classis centum navium aedificaretur. Qua celeriter effecta primum Corcyraeos fregit, deinde maritimos praedones consectando mare tutum reddidit. In quo cum divitiis ornavit, tum etiam peritissimos belli navalis fecit Athenienses. Id quantae saluti fuerit universae Graeciae, bello cognitum est Persico. Nam cum Xerxes et mari et terra bellum universae inferret Europae cum tantis copiis, quantas neque ante nec postea habuit quisquam – huius enim classis mille et ducentarum navium longarum fuit, quam duo milia onerariarum sequebantur; terrestres autem exercitus DCC peditum, equitum CCCC milia fuerunt -, cuius de adventu cum fama in Graeciam esset perlata et maxime Athenienses peti dicerentur propter pugnam Marathoniam, miserunt Delphos consultum, quidnam facerent de rebus suis. Deliberantibus Pythia respondit, ut moenibus ligneis se munirent. Id responsum quo valeret, cum intellegeret nemo, Themistocles persuasit consilium esse Apollinis, ut in naves se suaque conferrent: eum enim a deo significari murum ligneum. Tali consilio probato addunt ad superiores totidem naves triremes suaque omnia, quae moveri poterant, partim Salamina, partim Troezena deportant; arcem sacerdotibus paucisque maioribus natu ac sacra procuranda tradunt, reliquum oppidum relinquunt.

Il primo passo della sua carriera politica fu al tempo della guerra di Corcira: eletto stratego dal popolo per condurla, rese la città più ardita non solo nella guerra di allora ma anche per il futuro. Siccome il denaro pubblico che si ricavava dalle miniere veniva sperperato ogni anno a causa delle elargizioni dei magistrati, convinse il popolo a impiegare quel denaro per costruire una flotta di cento navi. Allestita in breve una tale flotta, dapprima debellò i Corciresi, poi dette la caccia ai predoni marittimi finché rese il mare sicuro. Con che arricchì gli Atenìesi e nel contempo li rese espertissimi nella guerra navale. Quanto questo abbia contribuito alla salvezza di tutta quanta la Grecia, si vide nella guerra contro i Persiani. Quando infatti Serse portò guerra per terra e per mare a tutta l’Europa, la invase con un esercito tanto grande quale nessuno né prima né dopo ebbe mai: la sua flotta si componeva di milleduecento navi da guerra, a cui tenevano dietro duemila navi da carico; le truppe terrestri ammontavano a settecentomila fanti e quattrocentomila cavalieri. Recata in Grecia la fama del suo arrivo, poiché si diceva che soprattutto gli Ateniesi erano presi di mira per via della battaglia di Maratona, essi andarono a Delfi a consultare l’oracolo sulle misure da prendere. Agli interpellanti la Pizia rispose che dovevano difendersi con mura di legno. Mentre nessuno capiva il senso dell’oracolo, Temistocle li convinse che il consiglio di Apollo era di mettere se stessi e le proprie sostanze sulle navi: questo era il muro di legno che intendeva il dio. Tale parere viene considerato giusto e così gli Ateniesi aggiungono alle precedenti altrettante navi triremi e trasferiscono tutti i loro beni mobili, parte a Salamina, parte a Trezene: affidano l’Acropoli e l’espletamento del culto ai sacerdoti e a pochi anziani ed abbandonano il resto della città.

Ad Familiares, XIII, 77 (“Cicerone denuncia un furto di libri dalla sua biblioteca”)

A te peto in maiorem modum pro nostra amicitia et pro tuo perpetuo in me studio ut in hac re etiam elabores: Dionysius, servus meus, qui meam bibliothecen multorum nummorum tractavit, cum multos libros surripuisset nec se impune laturum putaret, aufugit. Is est in provincia tua. Eum et M. Bolanus, familiaris meus, et multi alii Naronae viderunt, sed cum se a me manu missum esse diceret crediderunt. Hunc tu si mihi restituendum curaveris, non possum dicere quam mihi gratum futurum sit. Res ipsa parva, sed animi mei dolor magnus est. Ubi sit et quid fieri possit Bolanus te docebit. Ego si hominem per te reciperavero, summo me a te beneficio adfectum arbitrabor.

Ti chiedo con insistenza, in nome della nostra amicizia e del tuo continuo amore verso di me, che ti dia da fare anche in questa faccenda: Dionisio, un mio servo, che ha curato la mia biblioteca di grande valore, dopo aver sottratto molti libri, pensando che non (li) avrebbe portati via impunemente, è fuggito. Egli si trova nella tua provincia. Marco Bolano, un mio amico, e molti altri lo hanno visto a Narona, ma poiché diceva che era stato liberato da me, (gli) hanno creduto. Se tu mi farai riavere costui, non posso dirti che piacere mi farà. Il fatto di per sé (è) di poca importanza, ma il dolore del mio cuore è grande. Bolano ti farà sapere dove sia e che cosa si possa fare. Io, se riuscirò grazie a te a rientrare in possesso di (quell’)uomo, riterrò di aver ricevuto da te un grandissimo beneficio.

Institutio oratoria, II, 5, 13-14-15-16 (“Gli studenti devono esercitarsi attivamente”)

13 – Neque solum haec ipse debebit docere praeceptor, sed frequenter interrogare et iudicium discipulorum experiri. Sic audientibus securitas aberit nec quae dicentur superfluent aures: simul ad id perducentur quod ex hoc quaeritur, ut inueniant ipsi et intellegant. Nam quid aliud agimus docendo eos quam ne semper docendi sint?
14 – Hoc diligentiae genus ausim dicere plus conlaturum discentibus quam omnes omnium artes, quae iuuant sine dubio multum, sed latiore quadam comprensione per omnes quidem species rerum cotidie paene nascentium ire qui possunt?
15 – Sicut de re militari quamquam sunt tradita quaedam praecepta communia, magis tamen proderit scire qua ducum quisque ratione in quali re tempore loco sit sapienter usus aut contra: nam in omnibus fere minus ualent praecepta quam experimenta.
16 – An vero declamabit quidem praeceptor ut sit exemplo suis auditoribus: non plus contulerint lecti Cicero aut Demosthenes? Corrigetur palam si quid in declamando discipulus errauerit: non potentius erit emendare orationem, quin immo etiam iucundius? Aliena enim uitia reprendi quisque mauult quam sua.

13 – E il docente non dovrà soltanto insegnare queste cose, ma dovrà anche interrogare di frequente gli alunni ed esercitare la loro capacità di giudizio. Così gli allievi non saranno negligenti e quanto verrà detto non sfuggirà alle loro orecchie; nello stesso tempo li condurremo al punto di scoprire e comprendere da soli, che è poi ciò che si richiede: insegnando infatti cos’altro facciamo se non evitar loro di dover sempre imparare?
14 – Oserei dire che questo genere di scrupolo gioverà agli alunni più di tutte le tecniche di tutti i maestri, che senza dubbio sono di grande aiuto, ma che mi chiedo come possano tener dietro con una adeguata ampiezza di respiro alle realtà che nascono praticamente ogni giorno.
15 – Così come nel campo della tecnica militare, benché siano stati tramandati alcuni precetti generali, sarà comunque più utile sapere con quale criterio ciascun comandante si sia mosso più o meno saggiamente in una determinata circostanza, in un dato tempo, in un dato luogo: quasi sempre infatti la teoria vale meno dell’esperienza pratica.
16 – L’insegnante declamerà per fornire un esempio al suo uditorio: ma non serviranno forse di più Cicerone e Demostene letti direttamente? Se l’alunno commetterà un errore nella declamazione, venga corretto pubblicamente: non sarà più proficuo, e anzi più piacevole correggere un’orazione? Tutti infatti preferiscono la correzione degli errori altrui piuttosto che dei propri.

“Costumi di vita dei Germani”

Germania horrida silvis aut foeda paludibus est, satis ferax, frugiferarum arborum impatiens; nequeaurum habet. Argentea vasa apud Germanus sunt, quae tamen Germani spernunt. Ferro quoque Germania non abundat, sicut ex genere telorum intelligimus: pauci gladios aut lanceas possident et hastas longas gerunt. Eques scuto et hasta contentus est, pedes iacit missilia. Pauci loricas habent. Equi neque formosi neque veloces sunt. Pedites et equites mixti pugnant. Turpe est apud Germanos relinquere scutum. Nam multi,si in pugna scutum relinquunt, laqueo arbori se suspendunt.

La Germania è piena di boschi e fitta di paludi, abbastanza feroce, scarsa di alberi da frutto, non ha oro. Presso i Germani ci sono vasi d’argento che tuttavia i Germani disprezzano. La Germania non abbonda di ferro, come sappiamo dal tipo di armi: possiedono poche spade e lance e producono lunghe aste. Il cavaliere si accontenta dello scudo e dell’asta, il fante getta (massilia). Pochi hanno la corazza. I cavalieri non sono nè belli nè veloci. I fanti e i cavalieri combattono insieme. E’ turpe presso i Germani lasciare lo scudo. Infatti molti, se lasciano lo scudo in battaglia, si impiccano con un laccio all’albero.

“Un celebre episodio del mito”

Postquam Ulixes cum suis comitibus in Africae litoribus Lotophagos cognoverat et loti magnam et crudelem suavitatem vitaverat, brevi tempore ad Cyclopum insulam pervenit. Cyclopes genus ferum et agreste erant: in speluncis iuxta mare in orientali siciliae ora antiquis temporibus fuerant. Ingenti corporis vi praediti, unum oculum in media fronte habebant salubremque pastorum vitam inter oves agebant. Famem piscibus vel ovium carne vel caseo extinguebant, sitim lacte. Ubi Ulixes cum paucis sociis in Polyphemi speluncam intraverat, Cyclops, hospitalitatis immemor, miseros homines in antro clausit et nonnullos etiam interfecit editque; nam Cylopes omnia deum hominumque iura despiciebant. Callidus Ulixes tamen Polyphemum singulari artificio decepit: postquam Graecus vir ei multum vinum praebuerat et Cyclops biberat, in somno turpe monstrum oculo privavit et tali modo e tristi spelunca incolumis tandem evasit.

Dopo che Ulisse con i suoi compagni avevano conosciuto i Lotofagi nei lidi dell’Africa e aveva evitato la grande e l’implacabile bontà del loto, giunse in breve tempo nell’isola dei Ciclopi. I Ciclopi erano un popolo crudele e selvatico: nei tempi antichi avevano vissuto in spelonche vicino al mare nella regione della Sicilia Orientale. dotati di una grande forza del corpo, avevano un solo occhio in mezzo alla fronte e conducevano la salubre vita dei pastori tra le pecore. Calmavano la fame con pesci o carne di pecore o con il formaggio, la sete con il latte. Quando Ulisse era entrato con pochi compagni nella spelonca di Polifemo, il Ciclope, incurante dell’ospitalità, chiuse i poveri uomini in un antro e alcuni li uccise perfino e li mangiò; infatti i Ciclopi disprezzavano le leggi di tutti gli dei e degli uomini. Tuttavia l’astuto Ulisse ingannò Polifemo con una singolare astuzia: dopo che l’uomo greco gli aveva offerto molto vino e il Ciclope l’aveva bevuto, privò dell’occhio il turpe mostro nel sonno e in tal modo alla fine uscì dalla triste spelonca incolume.