“Ponzio attira i Romani verso le Forche Caudine”

Duae ad Luceriam ferebant viae, altera praeter oram superi maris, patens apertaque sed quanto tutior tanto fere longior, altera per Furculas Caudinas, brevior; sed ita natus locus est: saltus duo alti angusti silvosique sunt montibus circa perpetuis inter se iuncti. Iacet inter eos satis patens clausus in medio campus herbidus aquosusque, per quem medium iter est; sed antequam venias ad eum, intrandae primae angustiae sunt et aut eadem qua te insinuaveris retro via repetenda aut, si ire porro pergas, per alium saltum artiorem impeditioremque evadendum. In eum campum via alia per cavam rupem Romani demisso agmine cum ad alias angustias protinus pergerent, saeptas deiectu arborum saxorumque ingentium obiacente mole invenere. Cum fraus hostilis apparvisset, praesidium etiam in summo saltu conspicitur. Citati inde retro, qua venerant, pergunt repetere viam; eam quoque clausam sua obice armisque inveniunt.

Le strade che portavano a Luceria erano due: una lungo la costa adriatica, aperta e sgombra, ma tanto più lunga quanto più sicura, l’altra attraverso le Forche Caudine, più rapida. Si tratta però di un luogo con questo tipo di conformazione: due gole profonde, strette e coperte di boschi, collegate da una catena ininterrotta di montagne. In mezzo a queste montagne si apre una pianura abbastanza ampia, ricca di acque e di pascoli, e tagliata da una strada. Ora, per accedervi è necessario attraversare la prima gola, mentre per uscire si deve o tornare sui propri passi per la strada fatta all’andata, oppure – qualora si voglia procedere – attraversare una gola ancora più stretta e impervia della prima. L’esercito romano, dopo aver raggiunto quella pianura attraverso uno dei passaggi incassati nella roccia, stava marciando verso la seconda gola, quando la trovò ostruita da una barriera di tronchi abbattuti e di grossi massi. Era chiaro che si trattava di un agguato nemico: infatti avvistarono sulla cima della gola un manipolo di armati. Cercarono quindi, senza perdere un attimo, di ritornare indietro per il passaggio attraverso il quale erano arrivati, ma trovarono sbarrato anche questo da ostacoli naturali e da uomini armati.

Fabulae, 91 – Alexander Paris

Priamus Laomedontis filius cum complures liberos haberet ex concubitu Hecubae Cissei sive Dymantis filiae, uxor eius praegnans in quiete vidit se facem ardentem parere, ex qua serpentes plurimos exisse. Id visum omnibus coniectoribus cum narratum esset, imperant, quicquid pareret, necaret, ne id patriae exitio foret. Postquam Hecuba peperit Alexandrum, datur interficiendus, quem satellites misericordia exposuerunt; eum pastores pro suo filio repertum expositum educarunt eumque Parim nominaverunt. Is cum ad puberem aetatem pervenisset, habuit taurum in deliciis; quo cum satellites missi a Priamo, ut taurum aliquis adduceret, venissent, qui in athlo funebri, quod ei fiebat, poneretur, coeperunt Paridis taurum abducere. Qui persecutus est eos et inquisivit, quo eum ducerent; illi indicant se eum ad Priamum adducere ei, qui vicisset ludis funebribus Alexandri. Ille amore incensus tauri sui descendit in certamen et omnia vicit, fratres quoque suos superavit. Indignans Deiphobus gladium ad eum strinxit; at ille in aram Iovis Hercei insiluit; quod cum Cassandra vaticinaretur eum fratrem esse, Priamus eum agnovit regiaque recepit.

Priamo, figlio di Laomedonte, aveva già avuto molti figli da Ecuba, figlia di Cisseo o di Dimante, quando sua moglie, di nuovo incinta, sognò di partorire una fiaccola ardente da cui uscivano tanti serpenti Tutti gli indovini ai quali venne riferita questa visione ordinarono di uccidere il nascituro, chiunque mai fosse, perché non portasse la patria alla rovina. Quando Ecuba partorì Alessandro, il bambino fu dato ai servi perché lo uccidessero, ma questi per pietà lo esposero; alcuni pastori lo trovarono, lo allevarono come se fosse stato figlio loro e lo chiamarono Paride. Il ragazzo, giunto all’adolescenza, si era molto affezionato a un certo toro. Alcuni servi, che erano stati mandati da Priamo a prendere un toro da dare in premio nei giochi funebri in onore dello stesso Paride, cominciarono a condurre via il toro di Paride, il quale li inseguì, chiedendo dove lo portassero; quelli risposero che lo stavano portando a Priamo, per darlo al vincitore dei ludi funebri in onore di Alessandro. Allora Paride, per amore del suo toro, partecipò alle gare e le vinse tutte, battendo anche i suoi fratelli. Deifobo, in preda all’ira, sguainò la spada contro di lui, ma Paride saltò sull’altare di Giove Erceo. Cassandra dichiarò, ispirata, che quello era loro fratello, al che Priamo lo riconobbe e lo accolse nella reggia.

“Plinio saluta al suo Marcellino”

Plinius Marcellino suo salutat. Tristissimus haec tibi scribo, Fundani nostri filia minor decessit. Qua puella, nihil unmquam festivius et amabilius vidi. Nondum annos quattuordecim impleverat et iam illi anilis prudentia, matronalis gravitas erat, et tamen suavitas puellaris cum virginali verecundia. Ut illa patris cervicibus inhaerebat! Ut nos amicos paternos set amanter et modeste salutabar! Ut nutrices, ut paedagogos, ut praeceptores pro suo quemque officio diligebat! Quam studiose, quam intelligenter lectitabat! Ut parce custoditeque ludebat! Qua illa temperantia, qua patientia, qua etiam con stantia novissimam valetudinem toleravit! O triste plane acerbumque funus! O morte ipsa mortis tempus indignius! Iam destinata erat egregio iuveni, iam electus nuptiarum dies, iam nos vocati. Quod gaudium quo maerore mutatum est!

Plinio saluta al suo Marcellino.
Tristissimo, ti scrivo queste cose, la figlia minore del nostro Freudiano morì. Non ho mai visto nulla di più piacevole e di più amabile. Non aveva ancora compiuto quattordici anni e aveva già la saggezza di una vecchia, la maestà di una matrona e tuttavia aveva una dolcezza giovanile con timidezza verginale. Come si aggrappava al collo del padre! Come salutava amichevolmente e umilmente noi amici del padre! Come amava le nutrici, i maestri, i precettori ciascuno con i suoi ostacoli! Con quanta attenzione, con quanta intelligenza leggeva! Come lodava sobriamente e con ritegno!Con quale temperanza, con quale pazienza, anche con quale costanza sopportò l’ultima malattia! O funerale triste e completamente doloroso. O tempo della morte più indegno della morte stessa! Era già stata destinata ad un giovane eccellente, era già stato scelto il giorno delle nozze, noi eravamo già stati invitati. Con quale tristezza è stata cambiata questa gioia!

De Bello Gallico, VI, 22

Agriculturae non student, maiorque pars eorum victus in lacte, caseo, carne consistit. Neque quisquam agri modum certum aut fines habet proprios; sed magistratus ac principes in annos singulos gentibus cognationibusque hominum, qui una coierunt, quantum et quo loco visum est agri attribuunt atque anno post alio transire cogunt. Eius rei multas adferunt causas: ne adsidua consuetudine capti studium belli gerendi agricultura commutent; ne latos fines parare studeant, potentioresque humiliores possessionibus expellant; ne accuratius ad frigora atque aestus vitandos aedificent; ne qua oriatur pecuniae cupiditas, qua ex re factiones dissensionesque nascuntur; ut animi aequitate plebem contineant, cum suas quisque opes cum potentissimis aequari videat.

Non si occupano della coltivazione dei campi, la maggior parte del loro vitto consiste in latte, formaggio e carne. E nessuno ha una determinata estensione di terreno o terre proprie, ma i magistrati e i capi attribuiscono di anno in anno la quantità di terreno e nel luogo in cui sembra opportuno alle famiglie e alle parentele degli uomini che vivono insieme, e dopo un anno li obbligano a trasferirsi altrove. Adducono molte ragioni di questa usanza: affinché, presi dalla lunga abitudine, non sostituiscano l’agricoltura al desiderio di fare guerra; affinché non desiderino procurarsi campi vasti e i più potenti non scaccino dai possedimenti i più deboli; affinché non costruiscano le case con troppa cura per evitare il freddo e il caldo; affinché non sorga alcuna brama di denaro, motivo per cui nascono fazioni e dissensi; affinché trattengano la plebe con equanimità dato che ciascuno vede che le sue ricchezze sono uguali a quelle dei più facoltosi.

“Un sogno veritiero”

Duo familiares Arcades iter una facientes Megara Venerunt, quorum alter ad hospitium contendit, alter in tabernam meritoriam devertit. Is, qui in hospitio erat, vidit in somnis comitem suum orantem ut sibi, coponis insidiis circumvento, auxilio veniret. Excitatus visu prosiluit et cucurrit ad tabernam, sed omnia circa eam quieta videns lectum ac somnum repetiit. Tunc idem saucius ei apparuit petiitque ut saltem mortis suae ultor existeret: dixit enim corpus suum, a copone trucidatum, plaustro tum vehi extra portam stercore adopertum. Motus his precibus vir protinus ad portam adcucurrit, scelus deprehendit et coponem ad capitale supplicium duxit.

Due amici e compagni di viaggio, di nazionalità greca, giunsero a Megara; uno cercò alloggio in un albergo, l’altro in una locanda con camere in affitto. Quello che era in albergo, vide in sogno il compagno che gli chiedeva aiuto, perché caduto nelle grinfie malefiche del locandiere. Turbato dal sogno, quello balzò (fuori dal letto) e si fiondò alla locanda: ma vedendo che, nei paraggi della stessa, tutto era tranquillo, se ne tornò a letto a dormire. Gli apparve (in sogno) di nuovo l’amico, ferito, che gli chiese di vendicare, per lo meno, la propria morte: disse, infatti, che il proprio cadavere, martoriato dal locandiere, veniva giusto in quel momento trasportato su di un carretto fuori della porta, ricoperto di sterco. Mosso da tali preghiere, quello si fiondò alla porta e, sorpreso il misfatto, lo accusò di pena capitale.

“Un re romano di origine greca”

Quidam Demaratus Corinthius, et auctoritate et fortunis facile civitatis suae princeps, cum Corinthiorum tyrannum Cypselum ferre non potuisset, magna cum pecunia fugisse seque contulisse Tarquinios in urbem Etruriae florentissimam dicitur. Cum libenter in civitatem receptus esset propter humanitatem atque doctrinam, Anco regi tam familiaris factus est ut conciliorum omnium particeps et socius regni putaretur. Eratin eo praeterea summa comitas, summaque in omnes cives benignitas. Mortuo Anco Marcio, cunctis populi suffragis rex est creatus Lucius Tarquinius: sic enim suum nomen ex Graeco nomine mutaverat, ut omni in genere populi Romani consuetudinem imitatus esse videretur.

Si narra che il corinzio Demarato, l’uomo senza dubbio più eminente della sua città per onori, autorità e fortune, non potendo tollerare la tirannia di Cipselo, fuggisse da Corinto con molte ricchezze e riparasse a Tarquinia, fiorentissima città dell’Etruria. Ottenuta facilmente la cittadinanza romana, per la sua gentilezza di costumi e per la sua cultura divenne così intimo del re Anco, da essere creduto partecipe di ogni suo disegno e suo socio nel regno. Era infatti uomo di singolare affabilità e di grande generosità verso tutti i cittadini. Quando Anco Marcio morì, Lucio Tarquinio fu creato re per unanime votazione del popolo: così (egli) aveva infatti mutato il suo nome dall’originale greco, per mostrare di avere assimilato in tutto le usanze del popolo romano.

“Il tebano Epaminonda, esempio di integrità morale e di valore militare”

Difficile est dictu utrum Epaminondas melior vir an dux fuerit. Nam et imperium non sibi sed patriae semper quaesivit et pecuniae adeo parcus fuit ut pauper decesserit atque publico sumptu elatus sit. Litterarum ac philosophiae scientia tanta ei fuit, ut omnes quaererent unde etiam tam insignem rei militaris peritiam sibi paravisset. Neque ab hoc vitae proposito mortis ratio dissensit. Nam Epaminondas, cum Lacedaemonios apud Mantineam vicisset simulque ipse gravi vulnere exanimari se videret, in castra semianimis relatus, vocem spiritumque collegit atque e circumstantibus quaesivit salvusne esset clipeus. Quod cum salvum esset sui responderunt, rogavit essentne fusi hostes. Cum id quoque, ut cupiebat, audivisset, evelli iussit eam, qua transfixus erat, hastam. Ita in multo sanguine sed in laetitia et in victoria, patriae gratia agens, exspiravit.

E’ difficile a dire se Epaminonda fu migliore come uomo che come comandante. Infatti non chiedeva il potere per se stesso ma per la patria e fu così parco di denaro che allontanò la povertà e con spesa pubblica. A quello fu tanta la conoscenza delle lettere e della filosofia, che tutti gli chiedevano dove avesse appreso una simile perizia nell’arte militare. E non dissentiva da questo proposito di vita la sua idea della morte. Infatti Epaminonda, avendo vinto i Lacedemoni presso Mantinea ed essendosi accorto di morire per una grave ferita, riportato nell’accampamento inanime, unì la voce e lo spirito e chiese a chi lo circondava se lo scudo fosse salvo. Poichè gli risposero che era stato salvato, chiese se i nemici lo avessero rotto. Avendo sentito ciò, come desiderava, ordinò che quell’asta che lo aveva trafitto gli fosse tolta. Così nel molto sangue ma nella gioia e nella vittoria, rendendo grazia alla patria, morì.

Hannibal, 2

Nam ut omittam Philippum, quem absens hostem reddidit Romanis, omnium his temporibus potentissimus rex Antiochus fuit. Hunc tanta cupiditate incendit bellandi, ut usque a rubro mari arma conatus sit inferre Italiae. Ad quem cum legati venissent Romani, qui de eius voluntate explorarent darentque operam, consiliis clandestinis ut Hannibalem in suspicionem regi adducerent, tamquam ab ipsis corruptus alia atque antea sentiret, neque id frustra fecissent idque Hannibal comperisset seque ab interioribus consiliis segregari vidisset, tempore dato adiit ad regem, eique cum multa de fide sua et odio in Romanos commemorasset, hoc adiunxit: “Pater meus” inquit “Hamilcar puerulo me, utpote non amplius VIIII annos nato, in Hispaniam imperator proficiscens Carthagine, Iovi optimo maximo hostias immolavit. Quae divina res dum conficiebatur, quaesivit a me, vellemne secum in castra proficisci. Id cum libenter accepissem atque ab eo petere coepissem, ne dubitaret ducere, tum ille “Faciam”, inquit “si mihi fidem, quam postulo, dederis”. Simul me ad aram adduxit, apud quam sacrificare instituerat, eamque ceteris remotis tenentem iurare iussit numquam me in amicitia cum Romanis fore. Id ego ius iurandum patri datum usque ad hanc aetatem ita conservavi, ut nemini dubium esse debeat, quin reliquo tempore eadem mente sim futurus. Quare, si quid amice de Romanis cogitabis, non imprudenter feceris, si me celaris; cum quidem bellum parabis, te ipsum frustraberis, si non me in eo principem posueris”.

Infatti, per non parlare di Filippo, che egli, seppur lontano, seppe far diventare nemico dei Romani, a quei tempi il re più potente di tutti era Antioco: lo accese di tanto ardore di combattere, che costui fin dal Mar Rosso tentò di portare le armi contro l’Italia. Ora erano andati da lui ambasciatori romani per spiare le sue intenzioni e per cercare con segreti intrighi di far cadere sul re il sospetto che Annibale, come se da loro stessi corrotto, avesse ormai altri sentimenti che un tempo ed erano riusciti nel loro intento. Annibale, quando venne a conoscenza di ciò e si accorse che veniva tenuto lontano dalle più segrete decisioni, offertasi l’occasione, si presentò al re e dopo avergli ricordato molte prove e della sua lealtà e dell’odio contro i Romani, aggiunse questo: “Mio padre Amilcare, quando io ero fanciullo, non avevo più di nove anni, partendo da Cartagine come comandante per la Spagna, sacrificò vittime a Giove Ottimo Massinto; e mentre si svolgeva il sacro rito, chiese a me se volevo partire con lui per la guerra. lo accettai volentieri la sua proposta e cominciai a chiedergli che non esitasse a portarmi con sé; allora lui: “sì”, disse, “se mi farai la promessa che ti chiedo”. Così dicendo mi condusse all’ara sulla quale aveva cominciato il sacrificio e, allontanati tutti gli altri, mi fece giurare con la mano su di essa, che mai sarei stato amico del popolo romano. lo, questo giuramento fatto al padre, l’ho mantenuto fino ad oggi in modo tale che non può esservi dubbio per nessuno, che io non rimanga dello stesso avviso per tutto il resto della vita. Perciò se avrai sentimenti di amicizia nei confronti dei Romani, sarai stato prudente a tenermene all’oscuro; ma se preparerai la guerra, ingannerai te stesso, se non darai a me il supremo comando”.

“Un delfino amico dei ragazzi”

Est in Africa Hipponensis colonia mari proxima. Adiacet navigabile lacus: ibi homines otiosum tempus agunt, navigant atque etiam natant, maxime pueri iucundos lusus ludunt. Pueris gloria et virtus est in altissimum mare procedere; victor est ille qui longissime litus et simul ceteros pueros relinquit. Quondam puer, audentior ceteris, in ulteriora tendebat. Delphinus occurrit et nunc ante puerum, nunc post, nunc circum natabat, postremo dorso puerum tollebat et trepidum in altum vehebat; postea ad litus flectebat. Serpit per coloniam fama; concurrunt omnes, ut puerum tamquam miraculum aspicerent. Postero die puer inter amicis natabat, sed cautius. Delphinus rursus occurrit. Fugit puer cum ceteris comitibus. Delphinus ut puerum invitaret et revocaret, exsiluit variosque orbes implicuit. Ita per complures dies. Confluebat ad spectaculum tanta multitudo hominum ut locus quietem suam perderet. Igitur magistratibus placuit delphinum occulte interfici.

In Africa si trova una colonia, Ippona, vicina al mare. Ha un lago navigabile: qui gli uomini conducono il tempo in ozio, naviagano e nuotano, specialmente i fanciulli giocano felici. Ai fanciulli è la gloria e la virtù di procedere nell’altissimo mare; è vincitore quello che lascia di più il lido insieme agli altri fanciulli. Una volta un fanciullo, più sfacciato degli altri, si spinse più del dovuto. Un delfino accorse e ora davanti al fanciullo ora dientro ora intorno nuotava, alla fine prese il fanciullo sul dorso e lo portò impaurito a galla, dopo lo riportò alla spiaggia. La notizia serpeggiò per la colonia; accorsero tutti, per guardare tanto il fanciullo tanto il miracolo. Il giorno dopo il fanciullo nuotava tra gli amici, ma cauto. Il delfino accorse di nuovo. Fuggì il fanciullo con gli altri compagni. Il delfino per invitare e richiamare il fanciullo schizzò diversi e coinvolse tutti. Così per molti giorni. Molta folla di uomini confluiva allo spettacolo al punto che il luogo perse la sua quiete. Dunque i magistrati decisero di uccidere di nascosto il delfino.

De Coniuratione Catilinae, 58 (“Catilina sprona i suoi soldati”)

“Compertum ego habeo, milites, verba virtutem non addere, neque ex ignavo strenuum neque fortem ex timido exercitum oratione imperatoris fieri. Quanta cuiusque animo audacia natura aut moribus inest, tanta in bello patere solet. Quem neque gloria neque pericula excitant, nequiquam hortere; timor animi auribus officit. Sed ego vos, quo pauca monerem, advocavi, simul uti causam mei consili aperirem. Scitis equidem, milites, socordia atque ignavia Lentuli quantam ipsi nobisque cladem attulerit, quoque modo, dum ex urbe praesidia opperior, in Galliam proficisci nequiverim. Nunc vero quo loco res nostrae sint, iuxta mecum omnes intellegitis. Exercitus hostium duo, unus ab urbe, alter a Gallia obstant; diutius in his locis esse, si maxume animus ferat, frumenti atque aliarum rerum egestas prohibet; quocumque ire placet, ferro iter aperiundum est. Quapropter vos moneo, uti forti atque parato animo sitis, et, cum proelium inibitis, memineritis vos divitias, decus, gloriam, praeterea libertatem atque patriam in dextris vostris portare. Si vincimus, omnia nobis tuta erunt, commeatus abunde, municipia atque coloniae patebunt: sin metu cesserimus, eadem illa advorsa fient; neque locus neque amicus quisquam teget, quem arma non texerint. Praeterea, milites, non eadem nobis et illis necessitudo impendet: nos pro patria, pro libertate, pro vita certamus; illis supervacaneum est pro potentia paucorum pugnare. Quo audacius aggrediamini, memores pristinae virtutis. Licuit vobis cum summa turpitudine in exsilio aetatem agere; potuistis nonnulli Romae, amissis bonis, alienas opes exspectare; quia illa foeda atque intoleranda viris videbantur, haec sequi decrevistis. Si haec relinquere voltis, audacia opus est; nemo nisi victor pace bellum mutavit. Nam in fuga salutem sperare, cum arma, quibus corpus tegitur, ab hostibus avorteris, ea vero dementia est. Semper in proelio iis maxumum est periculum, qui maxume timent; audacia pro muro habetur. Cum vos considero, milites, et cum facta vostra aestumo, magna me spes victoriae tenet. Animus, aetas, virtus vostra me hortantur, praeterea necessitudo, quae etiam timidos fortis facit. Nam multitudo hostium ne circumvenire queat, prohibent angustiae loci. Quod si virtuti vostrae fortuna inviderit, cavete inulti animam amittatis, neu capti potius sicuti pecora trucidemini, quam virorum more pugnantes cruentam atque luctuosam victoriam hostibus relinquatis”.

“So bene, soldati, che le parole non donano il coraggio, e che nessun esercito da ignavo diventa strenuo, né forte da timoroso per un discorso del comandante. Quanta audacia è nell’animo di ciascuno per natura o per indole, tanta suole rivelarsi in guerra. Si esorterebbe invano chi non è infiammato né dalla gloria né dai rischi; la paura gli occlude le orecchie. Ma io vi ho chiamati per darvi brevi consigli e insieme per svelarvi la ragione della mia scelta. Sapete certamente, soldati, quanta rovina ci abbia arrecato la mollezza e la viltà di Lentulo, e in qual modo l’attesa dei rinforzi dalla città m’ha impedito di marciare verso la Gallia. E ora in quale situazione ci troviamo lo comprendete tutti come me. Ci si oppongono due eserciti nemici, uno dalla città, uno dalla Gallia. Rimanere più a lungo in questi luoghi, anche se l’animo lo sopportasse, ci è impedito dalla mancanza di frumento e di altro. Dovunque vogliamo andare dobbiamo aprirci la via con il ferro. Perciò vi esorto ad essere di animo strenuo e pronto a tutto, e quando entrerete in battaglia, ricordate che avete in pugno la ricchezza, l’onore, la gloria e inoltre la libertà e la patria. Se vinciamo, tutto sarà sicuro per noi: avremo viveri in abbondanza, i municipi e le colonie ci apriranno le porte. Ma se cederemo alla paura, tutte quelle stesse cose ci si faranno avverse, né vi sarà luogo o amico che protegga chi non sarà stato difeso dalle sue armi. Inoltre, soldati noi e loro non siamo sovrastati dalla stessa necessità; noi lottiamo per la patria, per la libertà, per la vita, per essi è un sovrappiù il combattere per la potenza di pochi. Perciò con maggiore slancio assaliteli, memori dell’antico valore. Avreste potuto trascorrere in esilio la vita con sommo disdoro; alcuni, persi i loro beni avrebbero potuto sperare di vivere a Roma della liberalità altrui. Ma poiché ciò sembrava turpe e intollerabile per dei veri uomini, sceglieste di affrontare questo pericolo. Se volete uscirne, c’è bisogno di audacia, nessuno, se non vincitore, poté mutare la guerra nella pace. Infatti, sperare salvezza nella fuga, quando hai sviato dal nemico le armi che ti proteggono le membra, è pura follia. Sempre, in battaglia, è più grave il pericolo per coloro che hanno il maggior timore; l’audacia è un baluardo. “Quando vi guardo, o soldati, e rivolgo nel mio animo le vostre imprese passate, mi prende una grande speranza di vittoria. L’animo, l’età, il valore vostri mi infondono fiducia, e pure la necessità che rende forti anche i timorosi. Per di più l’angustia del luogo impedisce alla moltitudine dei nemici di circondarci. Che se la fortuna si rifiuterà di assecondare il vostro valore, badate di non perdere la vita invendicati, e piuttosto di lasciarvi prendere e trucidare come bestie, combattendo da uomini lasciate al nemico una vittoria insanguinata e luttuosa”.

De Bello Gallico, IV, 25

Quod ubi Caesar animadvertit, naves longas, quarum et species erat barbaris inusitatior et motus ad usum expeditior, paulum removeri ab onerariis navibus et remis incitari et ad latus apertum hostium constitui atque inde fundis, sagittis, tormentis hostes propelli ac submoveri iussit; quae res magno usui nostris fuit. Nam et navium figura et remorum motu et inusitato genere tormentorum permoti barbari constiterunt ac paulum modo pedem rettulerunt. Atque nostris militibus cunctantibus, maxime propter altitudinem maris, qui X legionis aquilam gerebat, obtestatus deos, ut ea res legioni feliciter eveniret, “desilite”, inquit, “milites, nisi vultis aquilam hostibus prodere; ego certe meum rei publicae atque imperatori officium praestitero”. Hoc cum voce magna dixisset, se ex navi proiecit atque in hostes aquilam ferre coepit. Tum nostri cohortati inter se, ne tantum dedecus admitteretur, universi ex navi desiluerunt. Hos item ex proximis primi navibus cum conspexissent, subsecuti hostibus adpropinquaverunt.

Quando se ne accorse, Cesare ordinò che le navi da guerra, di forma inconsueta per i barbari e facilmente manovrabili, si staccassero un po’ dalle imbarcazioni da carico e, accelerando a forza di remi, si disponessero sul fianco destro del nemico e, da qui, azionassero le fionde, gli archi, le macchine da lancio per costringere gli avversari alla ritirata. La manovra si rivelò molto utile. Infatti, i barbari, scossi dalla forma delle navi, dal movimento dei remi e dall’insolito genere di macchine da lancio, si arrestarono e ripiegarono leggermente. Ma, visto che i nostri soldati, soprattutto per la profondità dell’acqua, esitavano, l’aquilifero della decima legione, dopo aver pregato gli dèi di dare felice esito all’impresa, gridò: “Saltate giù, commilitoni, se non volete consegnare l’aquila al nemico: io, per parte mia, avrò fatto il mio dovere verso la repubblica e il comandante”. Lo disse a gran voce, poi saltò giù dalla nave e cominciò a correre contro i nemici. Allora i nostri, vicendevolmente spronandosi a non permettere un’onta così grave, saltarono giù dalla nave, tutti quanti. Anche i soldati delle navi vicine, come li videro, li seguirono e avanzarono contro i nemici.

Historiae Romanae, Liber Posterior, 6 (“Riforme di Gaio Gracco”)

Decem deinde interpositis annis, qui Ti. Graccum idem Gaium fratrem eius occupavit furor, tam virtutibus eius omnibus quam huic errori similem, ingenio etiam eloquentiaque longe praestantiorem. Qui cum summa quiete animi civitatis princeps esse posset, vel vindicandae fraternae mortis gratia vel praemuniendae regalis potentiae eiusdem exempli tribunatum ingressus, longe maiora et acriora petens dabat civitatem omnibus Italicis, extendebat eam paene usque Alpis, dividebat agros, vetabat quemquam civem plus quingentis iugeribus habere, quod aliquando lege Licinia cautum erat, nova constituebat portoria, novis coloniis replebat provincias, iudicia a senatu trasferebat ad equites, frumentum plebi dari instituerat; nihil immotum, nihil tranquillum, nihil quietum, nihil denique in eodem statu relinquebat; quin alterum etiam continuavit tribunatum. Hunc L. Opimius consul, qui praetor Fregellas exciderat, persecutus armis unaque Fulvium Flaccum, consularem ac triumphalem virum, aeque prava cupientem, quem C. Gracchus in locum Tiberii fratris triumvirum nominaverat, eumque socium regalis adsumpserat potentiae, morte adfecit. Id unum nefarie ab Opimio proditum, quod capitis non dicam Gracchi, sed civis Romani pretium se daturum idque auro repensurum proposuit. Flaccus in Aventino annatos ac pugnam ciens cum filio maiore iugulatus est; Gracchus profugiens, cum iam comprehenderetur ab iis, quos Opimius miserat, cervicem Euporo servo praebuit, qui non segnius se ipse interemit, quam domino succurrerat. Quo die singularis Pomponii equitis Romani in Gracchum fides fuit. Qui more Coclitis sustentatis in ponte hostibus eius, gladio se tranfixit. Ut Ti. Gracchi antea corpus, ita Gai mira crudelitate victorum in Tiberim deiectum est.

Trascorsi poi dieci anni, lla follia che invase Tiberio invase ugualmente anche Gaio Gracco, per ogni virtù simile a quello quanto lo era anche nell’errore, ma per ingegno ed eloquenza era lui senza dubbio ad essere il più bravo. Non appena costui, con la più salda tranquillità d’animo, ebbe l’occasione di mettersi a capo della città, quando assunse la carica di tribuno, certo più in virtù del voler vendicare la morte del fratello o di rafforzare la potenza regale di se stesso, si mise a richiedere riforme ancora più ambiziose e astiose: concedeva la cittadinanza a tutti gli Italici, la voleva estendere quasi fino alle Alpi, divideva i campi, vietava a qualsiasi cittadino di avere in proprietà più di cinquecento iugeri, limite che un tempo era stato già fissaro dalla lex Licinia, istituiva nuove tasse commerciali, riempiva le province di nuovi coloni, trasferiva le corti giudicanti dal senato ai cavalieri, istituiva la distribuzione di frumento alla plebe; nulla era più stabile, nulla era più sicuro, nulla era più calmo, perché nulla, nello stesso stato, aveva lasciato immutato, che non abbia poi continuato a turbare anche durante il secondo suo tribunato. Sicché il console L. Opimio, colui che aveva espugnato Fregellae, lo perseguì con le armi in pugno e insieme a Fulvio Flacco, uomo che aveva rivestito già il consolato ed aveva anche avuto già un trionfo, ma che allo stesso modo ambiva alle perniciose riforme e che G. Gracco avevqa nominato triumviro al posto del fratello Tiberio e lo aveva accolto come alleato della sua supremazia degna di un re, (costui L. Opimio) punì con la morte. L’abuso di Opimio aveva solo questo di nefasto, che aveva proposto di mettere una taglia sulla testa, non tanto di un Gracco, quanto di un cittadino romano e aveva proposto che fosse pagata a peso d’oro. FLacco si rifugiò sull’Aventino e poiché incitava alla resistenza fu poi sgozzato insieme a suo figlio; Gracco tentò di fuggire, ma quando poi fu accerchiato da coloro che Opimio aveva inviato dietro di lui, offrì il collo al suo schiavo Euporo, il quale non fu più lento nell’uccidersi di quanto non lo fu nell’aiutare il suo padrone a farlo. In quel giorno vi fu un gesto di profonda fedeltà del cavaliere romano Pomponio nei confronti di Gracco. Costui, alla maniera di un Coclite, oppostosi ai nemici di quello sopra ad un ponte, si uccise poi con la sua spada. Come già prima il corpo di Tiberio, anche quello di Gaio fu gettato nel Tevere, tale fu l’infierire dei suoi nemici.

Historiarum Alexandri Magni, VII, 5

V. Igitur, Bactrianorum regione Artabazo tradita, sarcinas et inpedimenta ibi cum praesidio relinquit. Ipse cum expedito agmine loca deserta Sogdianorum intrat, nocturno itinere exercitum ducens: aquarum, ut ante dictum est, penuria prius desperatione quam desiderio bibendi sitim accendit. Per CCCC stadia ne modicus quidem humor existit. Harenas vapor aestivi solis accendit; quae ubi flagrare coeperunt, haud secus quam continenti incendio cuncta torrentur. Caligo deinde inmodico terrae fervore excitata lucem tegit, camporumque non alia qua vasti et profundi aequoris species est. Nocturnum iter tolerabile videbatur, quia rore et matutino frigore corpora levabantur. Ceterum cum ipsa luce aestus oritur, omnemque naturalem absorbet humorem siccitas; ora visceraque penitus uruntur. Itaque primum animi, deinde corpora deficere coeperunt; pigebat et consistere et progredi. Pauci a peritis regionis admoniti praepararunt aquam; haec paulisper repressit sitim; deinde crescente aestu rursus desiderium humoris accensum est. Ergo, quidquid vini oleique erat omnibus, ingerebatur; tantaque dulcedo bibendi fuit, ut in posterum sitis non timeretur. Graves deinde avide hausto humore non sustinere arma, non ingredi poterant, et feliciores videbantur, quos aqua defecerat, cum ipsi sine modo infusam vomitu cogerentur egerere. Anxium regem tantis malis circumfusi amici ut meminisset orabant animi sui magnitudinem unicum remedium deficientis exercitus esse, cum, ex his qui processerant ad capiendum locum castris, duo occurrunt utribus aquam gestantes, ut filiis suis, quos in eodem agmine esse et aegre pati sitim non ignorabant, occurrerent. Qui cum in regem incidissent, alter ex his utre resoluto vas, quod simul ferebat, inplet, porrigens regi. Ille accipit; percontatus, quibus aquam portaret, filiis ferre cognoscit. Tunc poculo pleno, sicut oblatum est, reddito: “Nec solus”, inquit, “bibere sustineo, nec tam exiguum dividere omnibus possum. Vos currite et liberis vestris, quod propter illos attulisti, date.” Tandem ad flumen Oxum ipse pervenit prima fere vespera; sed exercitus magna pars non potuerat consequi. In edito monte ignes iubet fieri, ut hi, qui aegre sequebantur, haud procul castris ipsos abesse cognoscerent: eos autem, qui primi agminis erant, mature cibo ac potione firmatos inplere alios utres, alios vasa, quibuscumque aqua posset portari iussit ac suis opem ferre. Sed qui intemperantius hauserant, intercluso spiritu extincti sunt; multoque maior horum numerus fuit, quam ullo amiserat proelio. At ille thoracem adhuc indutus nec aut cibo refectus aut potu, qua veniebat exercitus constitit, nec ante ad curandum corpus recessit, quam praeterierat totum agmen, totamque eam noctem cum magno animi motu perpetuis vigiliis egit. Nec postero die laetior erat, quia nec navigia habebat nec pons erigi poterat, terra circum amnem nuda et materia maxime sterili. Consilium igitur, quod unum necessitas subiecerat, init; utres quam plurimos stramentis refertos dividit. His incubantes transnavere amnem, quique primi transierant, in statione erant, dum traicerent ceteri. Hoc modo sexto demum die in ulteriore ripa totum exercitum exposuit. Iamque ad persequendum Bessum statuerat progredi, cum ea, qua ein Sogdianis erant, cognoscit. Spitamenes erat inter omnes amicos praecipuo honore cultus a Besso; sed nullis meritis perfidia mitigari potest: quae tamen iam minus in eo invisa esse poterat, quia nihil ulli nefastum in Bessum interfectorem regis sui videbatur. Titulus facinoris speciosus praeferebatur, vindicta Darei; sed fortunam, non scelus oderat Bessi. Namque, ut Alexandrum flumen Oxum superasse cognovit, Dataphernem et Catanen, quibus a Besso maxima fides habebatur, in societatem cogitatae rei adsciscit. Illi promptius adsunt quam rogabantur; adsumptisque VIII fortissimis iuvenibus talem dolum intendunt. Spitamenes pergit ad Bessum, et remotis arbitris conperisse ait se insidiari ei Dataphernem et Catanen, ut vivum Alexandro traderent agitantes; a semet occupatos esse, vinctos teneri. Bessus tanto merito, ut credebat, obligatus partim gratias agit, partim avidus explendi supplicii, adduci eos iubet. Illi manibus sua sponte religatis a participibus consilii trahebantur. Quos Bessus truci vultu intuens consurgit manibus non temperaturus. Atque illi simulatione omissa circumsistunt eum et frustra repugnantem vinciunt direpto ex capite regni insigni lacerataque veste, quam e spoliis occisi regis induerat. Ille deos sui sceleris ultores adesse confessus adiecit non Dareo iniquos fuisse, quem sic ulciscerentur, sed Alexandro propitios se insecutos, cuius victoriam semper etiam hostes adiuvissent. Multitudo an vindicatura Bessum fuerit, incertum est, nisi illi, qui vinxerant, iussu Alexandri fecisse ipsos ementiti dubios adhuc animi terruissent. In equum inpositum Alexandro tradituri ducunt. Inter haec rex, quibus matura erat missio, electis nongentis fere bina talenta equiti dedit, pediti terna denarium milia, monitosque ut liberos generarent, remisit domum. Ceteris gratiae actae quod ad reliqua belli navaturos operam pollicebantur. [Tum Bessus perducitur.]

Perventum erat in parvulum oppidum. Branchidae eius incolae erant. Mileto quondam iussu Xerxis, cum e Graecia rediret, transierant, et in ea sede constiterant, quia templum, quod Didymeon appellatur, in gratiam Xerxis violaverant. Mores patrii nondum exoleverant; sed iam bilingues erant paulatim a domestico externo sermone degeneres. Magno igitur gaudio regem excipiunt urbem seque dedentes. Ille Milesios, qui apud ipsum militarent, convocari iubet. Vetus odium Milesii gerebant in Branchidarum gentem. Proditis ergo, sive iniuriae, sive originis meminisse mallent, liberum de Branchidis permittit arbitrium. Variantibus deinde sententiis se ipsum consideraturum quid optimum factu esset ostendit. Postero die occurrentibus Branchidis secum procedere iubet; cumque ad urbem ventum esset, ipse cum expedita manu portam intrat. Phalanx moenia oppidi circumire iussa, et dato signo diripere urbem proditorum receptaculum, ipsosque ad unum caedere. Illi inermes passim trucidantur, nec aut commercio linguae, aut supplicum velamentis precibusque inhiberi crudelitas potest. Tandem ut deicerent fundamenta murorum ab imo moliuntur, ne quod urbis vestigium exstaret. Nemora quoque et lucos sacros non caedunt modo, sed etiam exstirpant, ut vasta solitudo et sterilis humus excussis etiam radicibus linqueretur. Quae si in ipsos proditionis auctores excogitata essent, iusta ultio esse, non crudelitas videretur; nunc culpam maiorum posteri luere, qui ne viderant quidem Miletum, ideo et Xerxi non potuerant prodere.

Inde processit ad Tanain amnem. Quo perductus est Bessus non vinctus modo, sed etiam omni velamento corporis spoliatus. Spitamenes eum tenebat collo inserta catena, tam Barbaris quam Macedonibus gratum spectaculum. Tum Spitamenes: “Et te”, inquit, “et Dareum, reges meos, ultus interfectorem domini sui adduxi eo modo captum cuius ipse fecit exemplum. Aperiat ad hoc spectaculum oculos Dareus! existat ab inferis, qui illo supplicio indignus fuit, et hoc solacio dignus est!” Alexander multum conlaudato Spitamene conversus ad Bessum: “Cuius”, inquit, “ferae rabies occupavit animum tuum, cum regem de te optime meritum prius vincire, deinde occidere sustinuisti. Sed huius parricidii mercedem falso regis nomine persolvisti tibi.” Ille facinus purgare non ausus regis titulum se usurpare dixit, ut gentem suam tradere ipsi posset; qui si cessasset, alium fuisse regnum occupaturum. At Alexander Oxathren, fratrem Darei, quem inter corporis custodes habebat, propius iussit accedere, tradique Bessum ei, ut cruci adfixum mutilatis auribus naribusque sagittis configerent Barbari, adservarentque corpus, ut ne aves quidem contingerent. Oxathres cetera sibi curae fore pollicetur. Aves non ab alio, quam a Catane posse prohiberi adicit eximiam eius artem cupiens ostendere; namque adeo certo ictu destinata feriebat, ut aves quoque exciperet. Nunc forsitan, sagittarum celebri usu minus admirabilis videri ars haec possit; tum ingens visentibus miraculum magnoque honori Catani fuit. Dona deinde omnibus, qui Bessum adduxerant, data sunt. Ceterum supplicium eius distulit, ut eo loco, in quo Dareum ipse occiderat, necaretur.

Quindi, affidata la regione della Battriana ad Artabazo, vi lasciò i bagagli e le salmerie assieme ad una guarnigione. Egli, con un drappello di uomini armati alla leggera, penetrò nelle desolate terre dei Sogdiani, guidando l’esercito in una marcia notturna: come si è detto prima, la mancanza d’acqua suscitava la sete più per disperazione di trovarne che per l’effettivo desiderio di bere. Per quattrocento stadi non vi era nessuna traccia di acqua. La vampa del sole estivo rendeva incandescente la sabbia, ed ogni cosa veniva arsa, quando essa cominciava a bruciare, proprio come in un ininterrotto incendio. Quindi la nebbia, provocata dall’eccessivo calore, del suolo, celava la luce, e l’aspetto delle pianure non è altro che quello di una vasta e profonda distesa d’acqua. La marcia notturna pareva sopportabile, dato che i corpi trovavano ristoro nella rugiada e nel fresco del mattino. Per il resto il calore sorgeva assieme alla stessa luce, e l’arsura assorbiva tutta l’umidità naturale; i volti e le viscere erano quasi inariditi. Pertanto cominciavano a venir meno dapprima gli animi, quindi i corpi; era penoso sia fermarsi che andare avanti. Pochi, ammoniti da coloro che conoscevano il luogo, avevano portato provviste d’acqua; queste per un po’ placarono la sete; quindi, per il crescente calore, si riaccendeva il desiderio di acqua.

Quindi ognuno ingurgitava il vino e l’olio che aveva con sé; e tale era il sollievo nel bere, che non si aveva paura della sete per l’indomani. Quindi, appesantiti per il liquido ingoiato avidamente, non riuscivano a reggere le armi, non potevano proseguire, e sembravano più fortunati quelli a cui l’acqua era venuta a mancare, poiché essi erano costretti a vomitare quella ingoiata smodatamente. Gli amici, attorno al re preoccupato per tante difficoltà, lo pregavano di ricordare che la grandezza del suo animo era l’unico rimedio per l’esercito esausto, quando si fecero incontro due di coloro che erano andati in avanscoperta per stabilire il posto per accamparsi, portando acqua in otri, per soccorrere i propri figli, che essi sapevano che erano nella stessa schiera e pativano fortemente la sete. Quando si imbatterono nel re, uno di essi, stappato l’otre, riempì la ciotola che portava con sé offrendola al re. Egli l’accettò; chiese a chi portassero l’acqua e venne a sapere che la portavano ai loro figli. Allora, dopo aver loro restituito la tazza piena, come gli era stata offerta, disse: “Non posso permettere di bere io solo, né posso spartire con tutti una quantità così esigua. Correte, e date ai vostri figli ciò che avete portato per loro.”

Finalmente il re arrivò presso il fiume Oxo quasi sul far della sera; ma gran parte dell’esercito non era riuscita a tenergli dietro. Fece accendere dei fuochi su un’alta collina, in modo che quelli che faticosamente li seguivano sapessero che si trovavano non lontano dal campo: ordinò poi che quelli che formavano le prime linee, ristoratisi rapidamente con cibo e bevande, riempissero chi degli otri, chi dei vasi, e con qualsiasi mezzo fosse possibile portare dell’acqua recassero aiuto ai loro compagni. Ma coloro che avevano bevuto con troppa avidità morirono, poiché mancò loro il respiro; e il numero di costoro fu molto maggiore di quello che il re non aveva perduto in nessuna battaglia. Ed egli, ancora rivestito della corazza e senza essersi ristorato né con cibo né con bevanda, si trattenne lì dove doveva arrivare l’esercito, e non si ritirò ad aver cura del proprio corpo prima che fosse passato l’intera colonna, e trascorse tutta quella notte senza dormire, con grande turbamento del proprio animo.

Né il giorno dopo era più risollevato, poiché non disponeva di natanti né poteva far costruire un ponte, essendo il terreno circostante il fiume spoglio e del tutto privo di legname. Prese allora la sola decisione che le circostanze gli suggerivano; distribuì quanti più otri possibile colmi di paglia. Distesi sopra di essi, attraversarono a nuoto il fiume, e coloro che erano passati per primi stavano in guardia finché non fossero passati gli altri. In questo modo finalmente in sei giorni trasportò sull’altra riva l’intero esercito. Ed aveva ormai deciso di proseguire sulle tracce di Besso, quando venne a sapere ciò che accadeva tra i Sogdiani. Tra tutti gli amici, Spitamene onorato da Besso in modo particolare; ma la slealtà non può esser addolcita con nessun beneficio: tuttavia quella slealtà poteva in quella circostanza essere meno odiosa, poiché a nessuno sarebbe sembrato illecito qualcosa contro Besso, assassino del proprio re. Veniva addotto uno specioso pretesto del delitto, la vendetta di Dario; ma Spitamene odiava la fortuna di Besso, non il suo delitto. E infatti, quando seppe che Alessandro aveva attraversato il fiume Oxo si prese come complici della macchinazione Dataferne e Catane, nei quali Besso riponeva la massima fiducia. Costoro si dichiararono pronti con più solerzia di quanta gliene venisse chiesta e, dopo aver assoldato otto prestanti giovani, ordirono questo inganno.

Spitamene si recò da Besso e disse, dopo aver allontanato i testimoni, di aver saputo che Dataferne e Catane macchinavano contro di lui, Besso, pensando di consegnarlo vivo ad Alessandro; che li aveva prevenuti e che li teneva prigionieri. Besso, riconoscente per tale azione meritoria, come credeva, lo ringraziò e, desideroso di punirli, ordinò che gli fossero condotti dinanzi. Quelli, con le mani legate di loro volontà, venivano trascinati dai complici del disegno. Besso, scrutandoli con volto truce, si alzò senza trattenere le mani. Ma quelli, messa da parte la finzione, gli si fecero attorno e lo afferrarono mentre si dibatteva inutilmente, dopo avergli strappato dal capo il segno regale e avergli lacerata la veste che egli aveva indossato dalle spoglie del re assassinato. Besso, confessando che gli dèi intervenivano come vendicatori del suo delitto, aggiunse che essi non erano stati ingiusti con Dario, che così vendicavano, ma erano propizi ad Alessandro, la cui vittoria sempre anche i nemici avevano favorito. Non si sa se la moltitudine avrebbe liberato Besso, se quelli che lo avevano catturato, mentendo sul fatto che lo avevano fatto per ordine di Alessandro, non avessero spaventato quelli che erano ancora indecisi. Dopo averlo issato su un cavallo, lo condussero via per consegnarlo ad Alessandro. Nel frattempo il re, scelti circa novecento uomini, per i quali era imminente il congedo, diede due talenti ad ogni cavaliere e tremila denari ad ogni fante, e dopo averli esortati a generare dei figli, li rimandò in patria. Ringraziò gli altri poiché promettevano che lo avrebbero servito con zelo per il resto della guerra. [Allora venne portato Besso].

Si era giunti in un piccolo villaggio. I suoi abitanti erano i Branchidi. Erano emigrati un tempo da Mileto per ordine di Serse, quando tornava dalla Grecia, e si erano stabiliti in quel luogo, poiché per ingraziarsi Serse avevano profanato il tempio chiamato Didimeo. I costumi patrii non erano ancora caduti in disuso; ma ormai essi erano bilingui, abbandonando la patria lingua per una lingua straniera. Quindi con grande gioia accolsero il re nella loro città e gli si consegnarono. Egli fece convocare i Milesii che militavano nel suo esercito. I Milesii nutrivano un antico odio nei confronti dei Branchidi. Quindi ad essi che erano stati traditi affidò la libera decisione circa i Branchidi, sia che preferissero ricordare l’offesa subita, sia la comune origine. Poi, dato che i pareri erano discordi, dichiarò che egli stesso avrebbe esaminato ciò che fosse preferibile fare. Il giorno seguente ordinò ai Branchidi, che gli venivano incontro, di proseguire assieme a lui; e quando si giunse alla città, egli entrò dalla porta con un manipolo leggero. Alla falange fu ordinato di circondare le mura della città e, quando fosse stato dato il segnale, di distruggere la città, ricettacolo di traditori, e di trucidarli uno ad uno. Quelli, inermi, furono ovunque massacrati e la crudeltà non poté esser trattenuta né dalla comunanza della lingua né dai rami di ulivo avvolti di bende e dalle preghiere dei supplici. Alla fine, per abbattere le fondamenta delle mura, le smossero dal profondo, affinché non restasse nessuna traccia della città. Anche i boschi e le sacre selve non solo le tagliarono, ma le estirparono addirittura, per lasciare un’estesa desolazione e un terreno arido, dopo aver estirpato anche le radici. Se queste cose fossero state messe in atto contro gli stessi autori del tradimento, si sarebbe trattato di una giusta vendetta, non sarebbe apparsa come una crudeltà; ora i discendenti, che non avevano nemmeno visto Mileto e perciò non avevano potuto tradirla per Serse, piangevano la colpa dei loro avi.

Da qui Alessandro proseguì alla volta del fiume Tanai. Qui gli fu portato Besso, non solo in catene, ma anche spogliato di ogni indumento. Spitamene lo teneva con una catena legata al collo, spettacolo ugualmente gradito sia ai Barbari che ai Macedoni. Allora Spitamene disse: “Per vendicare sia te che Dario, miei sovrani, ho portato qui l’assassino del suo signore, catturato allo stesso modo di cui egli stesso ha dato esempio. Apra a questo spettacolo gli occhi Dario! Sorga dagli inferi, lui che fu indegno di quella morte mentre è degno di tale sollievo!” Alessandro, dopo aver molto lodato Spitamene, rivolgendosi a Besso disse: “La ferocia di quale belva ha invaso il tuo animo, dal momento che sei stato capace prima di far prigioniero quindi di assassinare un re, tanto benevolo nei tuoi confronti? Ma ti sei pagato il prezzo di questo assassinio col falso titolo di re.” Quello, non osando giustificare il suo delitto, disse che aveva assunto il titolo di re per poter consegnare ad Alessandro la propria gente; se avesse indugiato, un altro avrebbe usurpato il regno. Ma Alessandro ordinò che si avvicinasse Oxatre, il fratello di Dario, che egli aveva tra le guardie del corpo, e che gli si consegnasse Besso, perché appeso ad una croce i Barbari lo trapassassero con le frecce, dopo avergli mozzato le orecchie e il naso, e ne sorvegliassero il corpo affinché neppure gli uccelli lo toccassero. Oxatre promise che il resto sarebbe stato sua cura. Aggiunse che gli uccelli potevano esser tenuti lontani da nessun altro se non da Catane, desiderando dimostrare la sua eccezionale abilità; e infatti colpiva i bersagli designati con colpi così sicuri da cogliere anche gli uccelli. Oggi forse quest’abilità potrebbe sembrare meno ammirevole, essendo tanto diffuso l’uso delle frecce; allora per coloro che ammiravano, fu un grande prodigio e a grande onore di Catane. Quindi furono offerti ricchi doni a tutti coloro che avevano tradotto Besso. Per il resto, il re differì il suo supplizio, perché egli fosse ucciso nel medesimo luogo in cui egli aveva assassinato Dario.

Historiae Romanae, Liber Posterior, 4

Interim, dum haec in Italia geruntur, Aristonicus, qui mortuo rege Attalo a quo Asia populo Romano hereditate relicta erat, sicut relicta postea est a Nicomede Bithynia mentitus regiae stirpis originem armis eam occupaverat, is victus a M. Perpenna ductusque in triumpho, sed a M. Aquilio, capite poenas dedit, cum initio belli Crassum Mucianum, virum iuris scientissimum, decedentem ex Asia proconsulem interemisset. At P. Scipio Africanus Aemilianus, qui Carthaginem deleverat, post tot acceptas circa Numantiam clades creatus iterum consul missusque in Hispaniam fortunae virtutique expertae in Africa respondit in Hispania, et intra annum ac tres menses, quam eo venerat, circumdatam operibus Numantiam excisamque aequavit solo. Nec quisquam ullius gentis hominum ante eum clariore urbium excidio nomen suum perpetuae commendavit memoriae: quippe excisa Carthagine ac Numantia ab alterius nos metu, alterius vindicavit contumeliis. Hic, eum interrogante tribuno Carbone, quid de Ti. Gracchi caede sentiret, respondit, si is occupandae rei publicae animum habuisset, iure caesum. Et cum omnis contio adclamasset, hostium. inquit, armatorum totiens clamore non territus, qui possum vestro moveri, quorum noverca est Italia? Reversus in urbem intra breve tempus, M.Aquilio C. Sempronio consulibus abhinc annos centum et sexaginta, post duos consulatus duosque triumphos et bis excisos terrores rei publicae mane in lectulo repertus est mortuus, ita ut quaedam elisarum faucium in cervice reperirentur notae. De tanti viri morte nulla habita est quaestio eiusque corpus velato capite elatum est, cuius opera super totum terrarum orbem Roma extulerat caput. Seu fatalem, ut plures, seu conflatam insidiis, ut aliqui prodidere memoriae, mortem obiit, vitam certe dignissimam egit, quae nullius ad id temporis praeterquam avit fulgore vinceretur. Decessit anno ferme sexto et quinquagesimo: de quo si quis ambiget, recurrat ad priorem consulatum eius, in quem creatus est anno octavo et tricesimo: ita dubitare desinet.

Nel frattempo, mentre queste cose si svolgono in Italia, Aristonico, il quale, morto il re Attalo, dal quale l’Asia era stata lasciata in eredità al popolo Romano, così come, più tardi, Nicomede lasciò la Bitinia, mentendo sulla sua discendenza da quel re, con le armi l’ aveva occupata e, vinto egli da M. Perpenna e condotto in trionfo, subì poi la pena di morte per mano di M. Aquilio, dato che, all’inizio della guerra, aveva fatto uccidere Crasso Muciano , uno dei più esperti uomini di legge, mentre usciva dalla provincia. Ma P. Scipione Emiliano, quello che aveva distrutto Cartagine, dopo tanti rovesci erano stati subiti per la guerra di Numanzia, fu creato console per la seconda volta e inviato in Spagna, sicché della virtù e della fortuna esperita in Africa dette prova anche in Spagna e, un un anno e tre mesi, da che era arrivato là, circondata Numanzia con le macchine ed espugnatala, la rase al suolo. Non ve n’è uno solo, in quella famiglia, prima di lui, che gloriò il proprio nome a perpetua memoria con una più splendida distruzione di città: dato che,rase al suolo Cartagine e Numanzia, ci liberò dal timore dell’una e dalle offese dell’altra. Costui, quando il tribuno Carbone lo interrogava su cosa pensasse dell’uccisione di Tiberio Gracco, rispose che se la sua intenzione era quella di dominare la res publica, era morto giustamente. Poi, un giorno che tutta l’assemblea lo fischiava, disse: “Io, che non mi sono spaventato alle urla di nemici in armi, come potrei ora essere sconvolto dal vostro grido, voi cha avete l’Italia per matrigna?”. Tornato in città in breve tempo, sotto il consolato di M. Aquilio e C. Sempronio, centosessanta anni fa, dopo due consolati e due trionfi e abbattuti due terrori della res publica, un giorno fu trovato morto nel suo letto, e sul suo collo furono trovati due segni di denti. Per la morte di un così grande uomo non si tenne nemmeno un processo, anzi il suo corpo fu condotto con la testa velata, proprio egli, per la cui opera Roma aveva potuto levare la testa su tutto il mondo delle terre emerse. Sia che morì di morte naturale, come molti pure dicono, sia di morte procurataglli da un attentato, come altri hanno tramandato, certo è che la vita che egli condusse fu la più degna, tanto che da nessun altra di nessun tempo potrebbe essere vinta. Morì, di sicuro, che aveva sessantacinque anni . Su questo, se pure qualcuno dubita, controlli il suo primo consolato, nel quale è stato creato, nell’anno 308 della res publica: non potrà più dubitare.

Strategemata, I

Lucius Aemilius Paulus consul, bello Etrusco, cum apud oppidum Vetuloniam demissurus esset in aciem exercitum, contemplatus procul avium multitudinem citatiore volatu ex silva consurrexisse, intellexit aliquid illic insidiarum latere, quod et turbatae aves et plures simul evolaverant. Praemissis igitur exploratoribus, comperit decem milia Gallorum Boiorum ibi ad excipiendum Romanorum agmen imminere. Quamobrem alio quam exspectabatur latere misit legiones et sic hostes circumfudit. Caius Duellius consul in portu Syracusarum, in quem temere intraverat, clausus obiecta catena, universos in puppes retulit milites atque ita resupina navigia magna remigantium vi concitavit: sic, levatis proris, super catenam processerunt. Qua superata, milites et nautae, rursus progressi, proras presserunt et eorum pondus navibus decursum super catenam dedit.

Durante la guerra contro gli Etruschi, il console Lucio Emilio Paolo – sul punto di disporre l’esercito in ordine di battaglia nei dintorni della cittadina di Vetulonia – avendo scorto da lontano uno stormo di uccelli levarsi in volo piuttosto rapido da un boschetto – intuì che in quella zona si nascondeva un’imboscata, dato che gli uccelli si erano alzati in volo spaventati, a centinaia, e tutti in una volta. Inviati, allora, degli esploratori in avanscoperta, scoprì (che) lì (si nascondevano) 10mila Galli Boi, pronti a balzare di sorpresa sull’esercito romano. Ragion per cui, diresse le legioni in un punto diverso da quello che ci si aspettava, in modo da accerchiare il nemico. Il console Caio Duellio, (rimasto) intrappolato (con la sua flotta) nel porto di Siracusa – nel quale sconsideratamente era entrato – per via di una catena che gli ostruiva il passaggio, fece assembrare l’intera ciurma a poppa: appena le navi s’impennarono, spronò i rematori a remare a tutta forza. In questo modo, con le prue sollevate, le navi passarono al di sopra della catena. Appena superatola (con la prua), i soldati e i marinai, tornati ai loro posti, spostarono il peso a prua: il loro peso, permise alle navi di “scivolare” sulla catena.

Noctes Atticae, V, 9

Historia de Croesi filio sumpta ex Herodoti libris. Filius Croesi regis, cum iam fari per aetatem posset, infans erat et, cum iam multum adolevisset, item nihil fari quibat. Mutus adeo et elinguis diu habitus est. Cum in patrem eius bello magno victum et urbe, in qua erat, capta hostis gladio educto regem esse ignorans invaderet, diduxit adulescens os clamare nitens eoque nisu atque impetu spiritus vitium nodumque linguae rupit planeque et articulate elocutus est clamans in hostem, ne rex Croesus occideretur. Tum et hostis gladium reduxit, et rex vita donatus est, et adulescens loqui prorsum deinceps incepit. Herodotus in historiis huius memoriae scriptor est, eiusque verba sunt, quae prima dixisse filium Croesi refert: Anthrope, me kteine Kroison. Sed et quispiam Samius athleta, – nomen illi fuit Echeklous – cum antea non loquens fuisset, ob similem dicitur causam loqui coepisse. Nam cum in sacro certamine sortitio inter ipsos et adversarios non bona fide fieret et sortem nominis falsam subici animadvertisset, repente in eum, qui id faciebat, videre sese, quid faceret, magnum inclamavit. Atque is oris vinculo solutus per omne inde vitae tempus non turbide neque adhaese locutus est.

Storia del figlio di Creso, tratta dall’opera di Erodoto. Il figlio del re Creso, all’età in cui poteva parlare, non ne era capace, ed anche crescendo negli anni non riusciva ad articolar parola. Pertanto per molto tempo lo ritennero muto e senza l’uso della lingua. Un giorno in cui Creso era stato sconfitto in una grande battaglia e la città, in cui si trovava, occupata, il giovane principe vedendo un nemico che senza sapere che era il re, tratta la spada, si rivolgeva contro suo padre, aprì la bocca tentando di gridare; per lo sforzo fatto e la violenza del soffio, si ruppe l’impedimento e l’intoppo della lingua, e chiaramente e distintamente gridò al nemico che non uccidesse il re Creso. Nello stesso istante il nemico rifoderò la spada, il re fu salvo e il giovane da allora incominciò a parlare. E’ Erodoto che nelle sue Storie riferisce questo fatto e cita la parole che il figlio di Creso avrebbe per prime pronunciate: Ánthrope, mè ktèine Kròison (uomo, non uccidere Creso). Ma anche di un atleta di Samo chiamato Echeklòus, che pure non sapeva parlare, si dice che riconquistasse la favella per una circostanza consimile. Infatti, durante una sacra competizione, vedendo che l’estrazione a sorte fra la sua squadra e i suoi avversari non avveniva regolarmente e si era fatto un sorteggio irregolare dei nomi, d’un tratto si mise a gridare ad alta voce, a colui che stava compiendo la frode, ch’egli s’era accorto di ciò che avveniva. Questo sforzo liberò la sua lingua dai legami che la trattenevano e per il resto di sua vita parlò senza difficoltà e senza intoppi.

De Finibus, I, 46-47

46 – Quodsi vitam omnem perturbari videmus errore et inscientia, sapientiamque esse solam, quae nos a libidinum impetu et a formidinum terrore vindicet et ipsius fortunae modice ferre doceat iniurias et omnis monstret vias, quae ad quietem et ad tranquillitatem ferant, quid est cur dubitemus dicere et sapientiam propter voluptates expetendam et insipientiam propter molestias esse fugiendam?
47 – Eademque ratione ne temperantiam quidem propter se expetendam esse dicemus, sed quia pacem animis afferat et eos quasi concordia quadam placet ac leniat. temperantia est enim, quae in rebus aut expetendis aut fugiendis ut rationem sequamur monet. nec enim satis est iudicare quid faciendum non faciendumve sit, sed stare etiam oportet in eo, quod sit iudicatum. Plerique autem, quod tenere atque servare id, quod ipsi statuerunt, non possunt, victi et debilitati obiecta specie voluptatis.

46 – Se ci rendiamo conto che l’intera esistenza è turbata dall’errore e dall’ignoranza, e che la sapienza è la sola che ci liberi dall’assillo delle passioni e dal terrore delle paure e ci insegni a sopportare, con rassegnazione, le offese dello stesso destino e (ci) mostri tutte le strade che conducono alla pace ed alla tranquillità, che motivo c’è d’esitare a dire che si deve desiderare la sapienza per i piaceri e fuggire l’ignoranza per i dispiaceri?
47 – Secondo lo stesso principio, diremo che neanche la temperanza è desiderabile per se (stessa), ma perché infonde pace all’anima e lo tranquillizza con una sorta, come dire, di concordia. La temperanza, infatti, è (quella virtù) che (ci) ammonisce a seguire la ragione, nelle cose da desiderare o da fuggire. Del resto, non è sufficiente stabilire che cosa si debba fare o non fare: è anche opportuno rimaner fermi in ciò che si è stabilito. I più però non possono attenersi saldamente a ciò che essi stessi hanno stabilito, indeboliti e vinti dal frapporsi dell’apparenza del piacere.

Breviarium, VII, 14 (“L’imperatore Nerone”)

Successit huic Nero, Caligulae, avunculo suo, simillimus, qui Romanum imperium et deformavit et diminuit, inusitatae luxuriae sumptuumque, ut qui exemplo C. Caligulae in calidis et frigidis lavaret unguentis, retibus aureis piscaretur, quae blattinis funibus extrahebat. Infinitam senatus partem interfecit, bonis omnibus hostis fuit. Ad postremum se tanto dedecore prostituit, ut et saltaret et cantaret in scaena citharoedico habitu vel tragico. Parricidia multa commisit, fratre, uxore, sorore, matre interfectis. Urbem Romam incendit, ut spectaculi eius imaginem cerneret, quali olim Troia capta arserat. In re militari nihil omnino ausus Britanniam paene amisit. Nam duo sub eo nobilissima oppida capta illic atque eversa sunt. Armeniam Parthi sustulerunt legionesque Romanas sub iugum miserunt. Duae tamen sub eo provinciae factae sunt, Pontus Polemoniacus concedente rege Polemone et Alpes Cottiae Cottio rege defuncto.

Succedette a lui Nerone, molto simile a suo zio Caligola, il quale e indebolì e sminuì l’impero Romano, d’inaudita lussuria e prodigalità, come quello che sull’esempio di C. Caligola si lavava con profumi caldi e freddi, pescava con reti d’oro, che estraeva con funi di porpora. Mise a morte gran parte del senato, fu nemico di tutti i buoni. Infine si prostituì con tanta vergogna, che e danzava e cantava sulla scena vestito da citarista o da attore tragico. Commise molti parricidii, uccidendo il fratello, la moglie, la sorella, la madre. Incendiò la città di Roma per contemplare l’immagine di quello spettacolo con cui una volta era arsa Troia presa. Non osando nulla del tutto in imprese militari, per poco non perdette la Britannia. Chè ivi sotto di lui le due città più celebri furono prese e abbattute. I Parti gli tolsero l’Armenia e mandarono ld ldgioni Romane sotto il giogo. Sotto di lui però furono create due provincie, il Ponto Polemoniaco per concessione del re Polemone e le Alpi Cozie per la morte del re Cozio.

“Enea sposa Lavinia”

Cum Graeci decimo anno Troiam fraude expugnavissent et urbem delevissent, Aeneas, Anchisae Venerisque filius, propter insignem pietatem multis diis et deabusque carus, cum multitudine Troianorum navibus profugit, ut novas sedes quaereret. Post longos per mare errores multosque casos, Aeneas cum comitibus suis tandem in Italiae litora pervenit et at Laurentium agrum appulit, ubi cum Latino rege bellum gessit. Nam Latinus rex aborigenesque tum ea loca tenebant. Cum proelio victus evasisset, Latinus pacem cum Aenea fecit, filiamque ei Laviniam in matrimonium dedit. Tum troiani oppidum condiderunt quod ab uxoris nomine Lavinium apellatum est.

Avendo con l’inganno i Greci dopo dieci anni espugnato Troia e avendo distrutto la città, Enea, figlio di Anchise e Venere, per l’insigne pietà, caro a molti dei e dee, fuggì con le navi con una moltitudine di troiani, per cercare nuove sedi. Dopo lungo errare per mare e molti eventi, Enea con i suoi compagni giunse nei lidi dell’Italia e approdò presso le campagne di Laurentio, dove fece guerra con il re Latino. Infatti il re Latino e gli Alborigeni tenevano allora quei luoghi. Essendo stato sconfitto nel combattimento, Latino fece pace con Enea, e gli diede in matrimonio la figlia Lavinia. Allora i Troiani fondarono la città che dal nome della donna è chiamata Lavinio.

Breviarium, IV, 10 (“La distruzione di Cartagine”)

Tertium deinde bellum contra Carthaginem suscipitur, sexcentesimo et altero ab urbe condita anno, L. Manlio Censorino et M. Manilio consulibus, anno quinquagesimo primo postquam secundum Punicum transactum erat. Hi profecti Carthaginem oppugnaverunt. Contra eos Hasdrubal, dux Carthaginiensium, dimicabat. Famea, dux alius, equitatui Carthaginiensium praeerat. Scipio tunc, Scipionis Africani nepos, tribunus ibi militabat. Huius apud omnes ingens metus et reverentia erat. Nam et paratissimus ad dimicandum et consultissimus habebatur. Itaque per eum multa a consulibus prospere gesta sunt, neque quicquam magis vel Hasdrubal vel Famea vitabant, quam contra eam Romanorum partem committere, ubi Scipio dimicaret.

Quindi s’intraprese la terza guerra contro Cartagine, l’anno seicento due dalla fondazione della città essendo consoli L. Manlio Censorino e M. Manilio, cinquant’un anno dopochè era finita la seconda querra Punica. Questi, partiti, assalirono Cartagine. Contro di loro combatteva Asdrubale, capitano dei Cartaginesi. Famea, altro capitano, comandava la cavalleria Cartaginese. Allora militava colà Scipione, nipote di Scipione Africano, come tribuno. Di lui tutti avevano grandissimo timore e reverenza. Giacchè era tenuto e preparatissimo al combattere e di grandissimo senno. Così per mezzo di lui molte felici imprese furono compiute dai consoli, e vuoi Asdrubale vuoi Famea niuna cosa più evitavano quanto l’attaccare quella parte dei Romani, dove combattesse Scipione.

Breviarium, V, 1

Dum bellum in Numidia contra Iugurtham geritur, Romani consules M. Manlius et Q. Caepio a Cimbris et Teutonis et Tugurinis et Ambronibus, quae erant Germanorum et Gallorum gentes, victi sunt iuxta flumen Rhodanum et ingenti internicione; etiam castra sua et magnam partem exercitus perdiderunt. Timor Romae grandis fuit, quantus vix Hannibalis tempore Punicis bellis, ne iterum Galli Romam venirent. Ergo Marius post victoriam Iugurthinam secundo consul est factus bellumque ei contra Cimbros et Teutones decretum est. Tertio quoque ei et quarto delatus est consulatus, quia bellum Cimbricum protrahebatur. Sed in quarto consulatu collegam habuit Q. Lutatium Catulum. Cum Cimbris itaque conflixit et duobus proeliis CC milia hostium cecidit, LXXX milia cepit et ducem eorum Teutobodum, propter quod meritum absens quinto consul est factus.

Mentre in Numidia si fa la guerra contro Giugurta, i consoli Romani M. Manlio e Q. Cepione furono vinti con immensa strage presso il fiume Rodano dai Cimbri e Teutoni e Tugurini e Ambroni, che erano popoli della Germania e della Gallia; perdettero anche il loro accampamento e gran parte dell’esercito. Ci fu a Roma gran timore quasi quanto ai tempo di Annibale (nelle guerre puniche) che i Galli non venissero di nuovo a Roma. Dunque Mario dopo la vittoria Giugurtina fu fatto console la seconda volta, e a lui fu affidata la guerra contro i Cimbri e i Teutoni. Per la terza volta pure e per la quarta gli fu conferito il consolato, perchè la guerra Cimbrica tirava in lungo. Ma nel quarto consolato ebbe a collega Q. Lutazio Catulo. E così si scontrò coi Cimbri e in due battaglie tagliò a pezzi duecentomila nemici, ottantamila ne prese e il loro capitano Teutobodo, per il qual merito assente fu fatto console per la quinta volta.

Breviarium, II, 27

C. Lutatio Catulo A. Postumio Albino consulibus, anno belli Punici vicesimo et tertio Catulo bellum contra Afros commissum est. Profectus est cum trecentis navibus in Siciliam; Afri contra ipsum quadringentas paraverunt. Numquam in mari tantis copiis pugnatum est. Lutatius Catulus navem aeger ascendit; vulneratus enim in pugna superiore fuerat. Contra Lilybaeum, civitatem Siciliae, pugnatum est ingenti virtute Romanorum. Nam LXIII Carthaginiensium naves captae sunt, CXXV demersae, XXXII milia hostium capta, XIII milia occisa, infinitum auri, argenti, praedae in potestatem Romanorum redactum. Ex classe Romana XII naves demersae. Pugnatum est VI Idus Martias. Statim pacem Carthaginienses petiverunt tributaque est his pax. Captivi Romanorum, qui tenebantur a Carthaginiensibus, redditi sunt. Etiam Carthaginienses petiverunt, ut redimi eos captivos liceret, quos ex Afris Romani tenebant. Senatus iussit sine pretio eos dari, qui in publica custodia essent; qui autem a privatis tenerentur, ut pretio dominis reddito Carthaginem redirent atque id pretium ex fisco magis quam a Carthaginiensibus solveretur.

Essendo consoli C. Lutazio Catulo e A. Postumio Albino, l’anno ventesimo terzo della guerra Punica fu affidata a Catulo la guerra contro gli Africani. Partì con trecento navi alla volta della Sicilia; gli Africani gliene opposero quattrocento. Mai non si combatté per mare con tante forze. Lutazio Catulo salì sofferente la nave; che era stato ferito nella precedente battaglia. Di faccia a Lilibeo, città della Sicilia, combatterono i Romani con immenso valore. Giacché furono prese sessantatré navi Cartaginesi, centoventicinque sommerse, trentaduemila nemici presi, tredicimila uccisi, un’infinità d’oro, d’argento, di bottino pervenne in potere dei Romani. Della flotta Romana furono sommerse dodici navi. Si combatté l’otto di Marzo. Tosto i Cartaginesi chiesero pace e pace fu loro concessa. I prigionieri Romani posseduti dai Cartaginesi furono restituiti. Anche i Cartaginesi chiesero che potessero essere riscattati i prigionieri che i Romani avevano fatti tra gli Africani. Il senato ordinò che fossero consegnati senza riscatto quelli che erano in pubblica custodia, quelli poi che fossero in mano dei privati, consegnato il prezzo ai padroni, tornassero a Cartagine e tal prezzo fosse pagato dal fisco anziché dai Cartaginesi.

“Le paure di un tiranno crudele”

Dionysus, Syracusanorum tyrannus propter iniustam dominatus cupiditatem in carcerem quodam modo ipse se incluserat. Quin etiam, ne tonsori collum committeret, tondere filias suas docuit. Ita sordido ancillarique artificio regiae virgines ut tonstriculae tondebant barbam et capillum patris. Et tamen ab iis ipsis, cum iam essent adultae, ferrum removit instituitque ut candentibus iuglandium putaminibus barbam sibi et capillum adurerent. Cumque duas uxores haberet, Aristomachen civem suam, Doridem autem Locrensem, sic noctu ad eas ventitabat, ut omnia specularetur et perscrutaretur ante. Et cum fossam latam cubiculari lecto circumdedisset, eiusque fossae transitum ponticulo ligneo coniunxisset, eum ipsum, cum forem cubiculi clauserat, detorquebat.

Dioniso, tiranno di Siracusa per la sua ingiusta sete di potere, in qualche modo si era rinchiuso in prigione da sé. Anzi, per non affidare il collo ad un barbiere, insegnò alle proprie figlie a radere. Così, con un mestiere sordido e servile, delle vergini di sangue reale, come delle apprendiste parrucchiere, tagliavano la barba e i capelli del padre. E tuttavia, quando ormai erano adulte, allontanò il ferro da queste stesse, e stabilì che (gli) bruciassero la barba ed i capelli con gusci di noce ardenti. Ed avendo due mogli, Aristomaca sua concittadina, Doride invece di Locri, di notte soleva recarsi da loro solo dopo aver osservato e perquisito tutto. E poiché aveva fatto circondare il letto della sua stanza con un largo fossato, e (ne) consentiva il passaggio con un ponticello di legno, dopo aver chiuso la porta della camera da letto spostava quello stesso.

Ad Familiares, XIV, 3 (“Dolenti parole di Cicerone”)

Accepi ab Aristocrito tres epistulas, quas ego lacrimis prope delevi; conficior enim maerore, mea Terentia, nec meae me miseriae magis excruciant quam tuae vestraeque, ego autem hoc miserior sum quam tu, quae es miserrima, quod ipsa calamitas communis est utriusque nostrum, sed culpa mea propria est. Meum fuit officium vel legatione vitare periculum vel diligentia et copiis resistere vel cadere fortiter: hoc miserius, turpius, indignius nobis nihil fuit. Quare cum dolore conficior, tum etiam pudore: pudet enim me uxori meae optimae, suavissimis liberis virtutem et diligentiam non praestitisse; nam mihi ante oculos dies noctesque versatur squalor vester et maeror et infirmitas valetudinis tuae, spes autem salutis pertenuis ostenditur. Inimici sunt multi, invidi paene omnes: eiicere nos magnum fuit, excludere facile est; sed tamen, quamdiu vos eritis in spe, non deficiam, ne omnia mea culpa cecidisse videantur. Ut tuto sim, quod laboras, id mihi nunc facillimum est, quem etiam inimici volunt vivere in his tantis miseriis; ego tamen faciam, quae praecipis. Amicis, quibus voluisti, egi gratias et eas litteras Dexippo dedi meque de eorum officio scripsi a te certiorem esse factum. Pisonem nostrum mirifico esse studio in nos et officio et ego perspicio et omnes praedicant: di faxint, ut tali genero mihi praesenti tecum simul et cum liberis nostris frui liceat! Nunc spes reliqua est in novis tribunis pl. et in primis quidem diebus; nam, si inveterarit, actum est. Ea re ad te statim Aristocritum misi, ut ad me continuo initia rerum et rationem totius negotii posses scribere, etsi Dexippo quoque ita imperavi, statim ut recurreret, et ad fratrem misi, ut crebro tabellarios mitteret; nam ego eo nomine sum Dyrrhachii hoc tempore, ut quam celerrime, quid agatur, audiam, et sum tuto; civitas enim haec semper a me defensa est. Cum inimici nostri venire dicentur, tum in Epirum ibo. Quod scribis te, si velim, ad me venturam, ego vero, cum sciam magnam partem istius oneris abs te sustineri, te istic esse volo. Si perficitis, quod agitis, me ad vos venire oportet; sin autem””sed nihil opus est reliqua scribere. Ex primis aut summum secundis litteris tuis constituere poterimus, quid nobis faciendum sit: tu modo ad me velim omnia diligentissime perscribas, etsi magis iam rem quam litteras debeo exspectare. Cura, ut valeas et ita tibi persuadeas, mihi te carius nihil esse nec umquam fuisse. Vale, mea Terentia; quam ego videre videor: itaque debilitor lacrimis. Vale.

Da Aristocrito ho avuto tre lettere e le ho quasi cancellate con le mie lacrime: Terenzia mia, una cupa disperazione mi distrugge e le mie sciagure non danno tanto tormento quanto le tue e le vostre. Ma io mi sento più disgraziato di te, che pure sei al colmo d’ogni male, perché se la sventura di per sé è comune a tutti e due, la colpa è tutta e solo mia. Sarebbe stato compito mio o evitare il pericolo accettando la missione offertami, o resistere predisponendo con ogni cura le difese necessarie, o cadere da forte. Niente è stato più sciagurato, vergognoso, indegno del mio comportamento. Ecco perciò che oltre al dolore mi consuma la cattiva coscienza: mi vergogno di non avere provveduto con energia e sollecitudine ai diritti della migliore delle mogli e a quelli di due figli amorosissimi. Ho davanti agli occhi giorno e notte lo spettacolo della vostra desolazione e della vostra angoscia e la precarietà della tua salute, mentre la speranza di risollevarci si rivela tanto esigua. Molti ci sono ostili, quasi tutti pieni di rancore: cacciarmi via è stata una grossa impresa; tenermi lontano è facile! Ma pure, finché voi avrete un filo di speranza, terrò duro, perché non sembri che tutto sia affondato per colpa mia. Per la mia sopravvivenza, della quale continui a preoccuparti, a questo punto non trovo alcuna difficoltà: i nemici stessi desiderano vedermi vivere in questo panorama di miserie senza fine! Ma seguirò lo stesso i tuoi suggerimenti. Ho ringraziato gli amici che volevi tu e ho affidato le lettere a Dexippo e ho scritto che tu mi avevi informato delle loro premure. Vedo da me stesso e tutti mi raccontano quante care prove di affetto per me stia dando il nostro Pisone. Mi conceda il cielo di godere un giorno di persona insieme con te e con i nostri figlioli delle premure di un simile genero! Ora la speranza residua è nei nuovi tribuni della plebe e nei primissimi giorni della loro attività: se si tirasse per le lunghe, sarebbe la fine. Così ti ho subito rinviato Aristocrito, per darti la possibilità di riferirmi immediatamente sulle prime iniziative e sul taglio che si vuole dare all’intera faccenda; per quanto abbia dato disposizioni anche a Dexippo di rimettersi in moto senza indugio e abbia scritto a mio fratello di intensificare i corrieri. È anche inìatti a questo titolo che in questo momento mi trovo a Durazzo, per essere a giorno il più rapidamente possibile delle ultime novità, e qui sono al sicuro: ho sempre tutelato gli interessi di questa comunità. Quando dovessero giungermi voci di un prossimo arrivo dei nemici nostri, allora passerò in Epiro. Quanto alla tua proposta di venire da me, se voglio, io per me – sapendo che gran parte di quest’onere ricade su di te – preferirei che rimanessi dove sei. Se portate a termine la vostra azione, sono io che dovrò venire da voi; in caso contrario… Ma non c’è bisogno di proseguire oltre. Dalla prima, o al più dalla seconda lettera tua, si potrà decidere il da farsi. Per ora, gradirei che mi ragguagliassi su tutto, senza tralasciare alcun particolare: anche se, in verità, sono fatti più che lettere che oramai devo aspettarmi. Cerca di star bene e credi che niente mi è né mai mi è stato più caro di te. Addio, mia cara Terenzia: mi pare come se ti vedessi ed ecco che mi sento venir meno dalla commozione. Addio.

“Le oche del Campidoglio”

Devictis apud Alliam flumen legionibus et sine praesidio urbe relicta, iuvenes Romani, missi Veium legatibus, se receperunt in Capitolium, Galli autem, obsidone posita, quia vestiga humana conspexerant vel quia sua sponte animadveterunt saxum pervium apud Carmentae templum, nocte sublustri primum exploratores inermes praemiserunt, deinde, traddentes arma et sublevantes in vicem, tacite in summum evaserunt: non custodes solum fefellerunt, sed ne canes quidem, animalia sollicita ad nocturnos strepitus, excitaverunt. Anseres vero in templo Iounonis -quod ad iis in summa inopia cibi tamen abstinebatur- non fefellerunt: alarum crepito excitu est M. Manilius, triennio ante consul et vir bello egregius, qui armis arreptis, ad arma ceteros ciens vadit. Dum ceteri trepidant, ille solus unum hostem iam in summo muro consistentem ambone ictum deturbat, et alios subvenientes in moeniis trucidat. Nacque et alii succurrerunt, telis missilibus saxisque proturbaverentur hostes et Gallos praecipitaverunt. Sedato deinde tumultu reliquum noctis quieti datum est.

Dopo che le legioni erano state sottomesse presso il fiume Allia e poichè avevano lasciato la città senza protezione i giovani romani, che erano stati inviati a Veio in qualità di ambasciatori, ritornarono al campidoglio. I Galli invece che avevano posto l’assedio o perché avevano notato orme umane, o perché si erano resi conto da soli che l’erta nei pressi del tempio di Carmenta poteva essere superata senza difficoltà, una notte debolmente rischiarata inviarono prima in avanscoperta un uomo disarmato per accertare che il passaggio fosse praticabile; poi, passandosi le armi nei punti più difficili, appoggiandosi a vicenda e silenziosamente raggiunsero la cima: non solo riuscirono a passare inosservati alle sentinelle, ma non svegliarono nemmeno i cani che invece sono animali sensibilissimi ai rumori notturni. Non sfuggirono però alle oche nel tempio di Giunone che, nonostante la grande penuria di viveri, erano state risparmiate. Marco Manlio, che era stato console tre anni prima e si era sempre distinto in campo militare, fu svegliato infatti dal verso e dallo starnazzare delle oche e afferrate le armi incoraggiò gli altri ad imitarlo. Mentre i suoi compagni correvano in disordine, con un colpo di scudo ricacciò giù dal pendio un nemico che era già riuscito a raggiungere la sommità dell’erta e travolse quelli che gli venivano dietro. E poichè si aggiunsero gli altri, i nemici vennero allontanati con lancio di frecce e di pietre, i Galli precipitarono. Tornata la calma, il resto della notte venne dedicato al riposo.

Ab urbe condita I, 30 (“Istituzioni politiche e militari di Tullio Ostilio”)

Roma interim crescit Albae ruinis. Duplicatur civium numerus; Caelius additur urbi mons, et quo frequentius habitaretur eam sedem Tullus regiae capit ibique habitavit. Principes Albanorum in patres ut ea quoque pars rei publicae cresceret legit, Iulios, Seruilios, Quinctios, Geganios, Curiatios, Cloelios; templumque ordini ab se aucto curiam fecit quae Hostilia usque ad patrum nostrorum aetatem appellata est. Et ut omnium ordinum viribus aliquid ex novo populo adiceretur equitum decem turmas ex Albanis legit, legiones et veteres eodem supplemento explevit et novas scripsit. Hac fiducia virium Tullus Sabinis bellum indicit, genti ea tempestate secundum Etruscos opulentissimae viris armisque. Vtrimque iniuriae factae ac res nequiquam erant repetitae. Tullus ad Feroniae fanum mercatu frequenti negotiatores Romanos comprehensos querebatur, Sabini suos prius in lucum confugisse ac Romae retentos. Hae causae belli ferebantur. Sabini haud parum memores et suarum virium partem Romae ab Tatio locatam et Romanam rem nuper etiam adiectione populi Albani auctam, circumspicere et ipsi externa auxilia. Etruria erat vicina, proximi Etruscorum Veientes. Inde ob residuas bellorum iras maxime sollicitatis ad defectionem animis voluntarios traxere, et apud vagos quosdam ex inopi plebe etiam merces ualuit: publico auxilio nullo adiuti sunt ualuitque apud Veientes – nam de ceteris minus mirum est – pacta cum Romulo indutiarum fides. Cum bellum utrimque summa ope pararent vertique in eo res videretur utri prius arma inferrent, occupat Tullus in agrum Sabinum transire. Pugna atrox ad siluam Malitiosam fuit, ubi et peditum quidem robore, ceterum equitatu aucto nuper plurimum Romana acies ualuit. Ab equitibus repente inuectis turbati ordines sunt Sabinorum, nec pugna deinde illis constare nec fuga explicari sine magna caede potuit.

Con la distruzione di Alba, Roma si espande, raddoppia la sua popolazione. Il colle Celio viene inserito nella città e, per spingere la gente a sceglierlo come residenza, Tullo lo elegge a sede permanente della reggia da quel momento in poi. La nobiltà albana (Giuli, Servili, Quinzi, Gegani, Curiazi e Cleli) ottenne nomine senatoriali, così che anche quella parte dello Stato potesse avere un incremento numerico. E come sede consacrata per questo strato sociale che egli stesso aveva aumentato di proporzioni creò la curia, che continuava ad avere il nome di Curia Ostilia ancora ai tempi dei nostri padri. E perché tutte le classi potessero crescere numericamente grazie al nuovo popolo, arruolò dieci plotoni di cavalieri, completò i ranghi delle vecchie legioni e ne creò di nuove, sempre attingendo esclusivamente alle forze alleate. Confidando in queste forze, Tullo dichiara guerra ai Sabini che, in quel tempo, eran secondi soltanto agli Etruschi per disponibilità di uomini e di armi. Entrambe le parti avevano causato danni senza poi mai farvi seguire alcuna riparazione. Tullo lamentava la cattura di alcuni mercanti romani nel pieno di una fiera nei pressi del tempio di Feronia. I Sabini sostenevano invece che tempo prima alcuni dei loro concittadini erano andati a rifugiarsi nel bosco sacro del santuario ed erano stati trattenuti a Roma. Questi erano i pretesti addotti per la guerra. I Sabini, però, non trascuravano che parte delle loro forze era stata trasferita a Roma da Tazio e che la potenza romana era cresciuta grazie alla recente annessione del popolo albano. Per questi motivi, cominciarono anch’essi a cercare aiuti dall’estero. Gli Etruschi erano vicini, ma ancora più vicini erano i Veienti. Presso questi ultimi, essendo il rancore dovuto alle recenti guerre un incentivo fortissimo alla rivolta, riuscirono a mettere insieme dei volontari e ad assoldare degli avventurieri senza né arte né parte attratti soltanto dall’opportunità di fare due soldi. Non venne fornito alcun aiuto ufficiale: Veio (e a maggior ragione gli Etruschi) restava fedele al suo trattato concluso con Romolo. Mentre l’una e l’altra parte si preparavano scrupolosamente alla guerra e sembrava che avrebbe avuto la meglio chi avesse aggredito per primo, Tullo anticipa i nemici e invade il territorio dei Sabini. Ci fu uno scontro tremendo presso la selva Maliziosa. I Romani ebbero la meglio grazie sì alla forza d’urto della loro fanteria, ma soprattutto grazie alla recente immissione di effettivi nella cavalleria. Fu proprio una carica improvvisa di cavalieri a seminare il panico tra le fila sabine; da quel momento in poi non furono più in grado né di tenere la propria posizione in battaglia, né di districarsi con la fuga senza incappare in perdite massicce.

Fabulae, 103 – Protesilaus

Achiuis fuit responsum, qui primus litora Troianorum attigisset periturum, cum Achiui classes applicuissent, ceteris cunctantibus Iolaus Iphicli et Diomedeae filius primus e naui prosiluit, qui ab Hectore confestim est interfectus; quem cuncti appellarunt Protesilaum, quoniam primus ex omnibus perierat. Quod uxor Laodamia Acasti filia cum audisset eum perisse, flens petit a diis ut sibi cum eo tres horas colloqui liceret. quo impetrato a Mercurio reductus tres horas cum eo collocuta est; quod iterum cum obisset Protesilaus, dolorem pati non potuit Laodamia.

Venne profetizzato agli Achei che il primo a mettere piede sulla spiaggia di Troia vi avrebbe perso la vita, sicché una volta gettata l’ancora tutti esitavano; allora Iolao, figlio di Ificlo e Diomeda, saltò a terra per primo e venne subito ucciso da Ettore: perciò lo chiamarono Protesilao, perché era stato il primo tra tutti a morire. Quando sua moglie Laodamia, figlia di Acasto, venne a sapere che il marito era morto, supplicò piangendo gli Dèi di concederle un colloquio di tre ore con lui. La preghiera di Laodamia fu esaudita: Protesilao le fu riportato da Mercurio e per tre ore ella s’intrattenne con lui, ma quando poi morì per la seconda volta, Laodamia non resse al dolore.

Cato, 3 (“Nepote ricorda Catone il censore”)

In omnibus rebus singulari fuit industria. Nam et agricola sollers et peritus iuris consultus et magnus imperator et probabilis orator et cupidissimus litterarum fuit. Quarum studium etsi senior arripuerat, tamen tantum progressum fecit, ut non facile reperiri possit neque de Graecis neque de Italicis rebus, quod ei fuerit incognitum. Ab adulescentia confecit orationes. Senex historias scribere instituit. Earum sunt libri VII. Primus continet res gestas regum populi Romani; secundus et tertius unde quaeque civitas orta sit Italica; ob quam rem omnes Origines videtur appellasse. In quarto autem bellum Poenicum est primum, in quinto secundum. Atque haec omnia capitulatim sunt dicta. Reliquaque bella pari modo persecutus est usque ad praeturam Servii Galbae, qui diripuit Lusitanos; atque horum bellorum duces non nominavit, sed sine nominibus res notavit. In eisdem exposuit quae in Italia Hispaniisque aut fierent aut viderentur admiranda. In quibus multa industria et diligentia comparent, nulla doctrina. Huius de vita et moribus plura in eo libro persecuti sumus, quem separatim de eo fecimus rogatu T. Pomponii Attici. Quare studiosos Catonis ad illud volumen delegamus.

Fu di eccezionale operosità in tutti campi. Infatti fu sia un abile agricoltore, sia un esperto nel diritto, sia un grande comandante, sia un gradevole oratore, sia un grande amante degli studi letterari. E nonostante avesse intrapreso questi studi piuttosto vecchio, fece tuttavia tali progressi al punto che era difficile trovare un episodio della storia greca o italica che gli fosse sconosciuto. Compose delle orazioni fin dalla giovinezza. Da vecchio si dedicò a scrivere opere di storia. Di queste vi sono sette libri. Il primo contiene le imprese dei re del popolo Romano; il secondo e il terzo da dove ha avuto origine ciascuna città italica: sembra che egli abbia chiamato tutti i libri Origini per questo motivo. Nel quarto libro, poi, si trova la prima guerra punica, nel quinto la seconda. E tutte queste cose sono narrate per sommi capi. Allo stesso modo continuò a raccontare le altre guerre fino alla pretura di Servio Galba, il quale saccheggiò i Lusitani; e non nominò i comandanti di tali guerre, ma registrò gli avvenimenti senza fare nomi. Negli stessi libri raccontò quegli episodi che in Italia e in Spagna erano o sembravano da ammirare. In questi libri traspaiono molto impegno ed attenzione e nessuna erudizione. A proposito della sua vita e dei suoi costumi ho esposto più cose in quel libro che ho composto su di lui su richiesta di T. Pomponio Attico. Per tale motivo rimando gli studiosi di Catone a quel volume.

“Il Mausoleo di Alicarnasso”

Scopas habuit aemulos eadem aetate Bryaxim et Timotheum et Leocharem, de quibus simul dicendum est, quoniam pariter caelaverunt Mausoleum. Sepulcrum hoc est ab uxore Artemisia factum Mausolo, Cariae regi, qui obiit Olympiadis centesimae septimae anno secundo. Hoc opus antiqui inter septem miracula orbis terrarum posuere. Patet ab Austro et Septentrione sexaginta tres pedes, brevius a frontibus; toto circuitu pedes quadringenti quadraginta sunt; attollitur in altitudinem viginti quinque cubitos, cingitur columnis triginta sex. Ab oriente caelavit Scopas, a septentrione Bryaxis, a meridie Timotheus, ab occasu Leochares. Priusquam opus pergerent artifices, regina Artemisia obiit. Non tamen ab opere recesserunt artifices priusquam absolverunt, iudicantes id futurum esse suae gloriae et artis monumentum. Accessit et quintus artifex, qui in cacumine pyramidis quadrigam marmoream posuit.

(Lo scultore) Scopa ebbe emuli contemporanei in Briasside, Timoteo e Leocare, dei quali si deve trattare insieme, poiché tutti e quattro costruirono il Mausoleo. Questa costruzione è un monumento funerario, (commissionato) dalla moglie Artemisia e costruito in onore di Mausolo, signore della Caria, che morì nel secondo anno della 107esima olimpiade. Gli antichi annoverarono quest’opera tra le 7 meraviglie del mondo. Si estende verso sud (l’Austro è un vento meridionale, usato dagli antichi per indicare il sud) e verso nord per 63 piedi, mentre nelle (altre) facciate è più corto. L’intero perimetro è di 440 piedi; si eleva in altezza di 25 cubiti, ed è cinto da 36 colonne. Scopa scolpì (la parte che volgeva) ad est, Briasside (quella) a nord, Timoteo (quella) a sud, Leocare (quella) a ovest. Prima che i (quattro) costruttori ultimassero l’opera, la regina Artemisia morì. Tuttavia, gli artisti non non tralasciarono la costruzione prima di averla compiuta, ben considerando che essa sarebbe stata simbolo della loro gloria e un’eccezionale opera d’arte. Si aggiunse anche un quinto scultore, il quale – alla punta della costruzione piramidale – pose una quadriga scolpita in marmo.

“La trasformazione di Aracne”

Arachne, virgo ex Lydia oriunda, telas summo artificio texebat atque mirifice acu pingebat. Quia eius peritia magnis laudibus tota Lydia celebrabatur, olim Arachne magna cum superbia coram omnibus cum Minerva, artium dea, se comparaverat. Tum dea, cum rem cognovit, anili habitu in Lydiam ad virginem venit et monuit: “Nulla mortalis mulier artificio te vincit, sed certe Minervae deae impar es!”. Quod Arachne Minervae arroganter responderat: “Quoniam telae meae mirabiles sunt, ego Minervae impar non sum; ne dea quidem Arachnem peritia superat!”, dea irata exclamavit: “Cum poenam ob superbiam tuam cognoveris, frustra veniam mea petes. Semper filo dependebis, fila deduces telasque in aeternum texes!”, statimque miseram virginem in araneam convertit.

Aracne, vergine originaria della Lidia, tesseva le tele con grande arte e ricamava straordinariamente. Poiché si celebrava la sua abilità con grandi lodi in tutta la Lidia, un tempo Aracne con grande superbia si era confrontata davanti a tutti con Minerva, dea delle arti. Allora la dea, quando venne a sapere della situazione, si presentò alla vergine in Lidia sotto le spoglie di una vecchia e l’avvisò: “Nessuna donna mortale ti supera nell’arte, ma senza dubbio sei inferiore alla dea Minerva!”. Poichè Aracne aveva risposto arrogantemente: “Dal momento che le mie tele sono straordinarie, io non sono inferiore a Minerva; nemmeno una dea supera Aracne in quest’abilità!”, la dea esclamò arrabbiata: “Quando avrai conosciuto la pena per la tua superbia, invana chiederai la mia venia. Dipenderai sempre dal filo, filerai e tesserai tele in eterno!”, e immediatamente trasformò la povera vergine in un ragno.