De Brevitate Vitae, 14 (“Solo il sapiens è libero”)

Soli omnium otiosi sunt qui sapientiae vacant soli vivunt; nec enim suam tantum aetatem bene tuentur: omne aevum suo adiciunt; quicquid annorum ante illos actum est illis adquisitum est. Nisi ingratissimi sumus illi clarissimi sacrarum opinionum conditores nobis nati sunt nobis vitam praeparaverunt. Ad res pulcherrimas ex tenebris ad lucem erutas alieno labore deducimur; nullo nobis saeculo interdictum est in omnia admittimur et si magnitudine animi egredi humanae imbecillitatis angustias libet multum per quod spatiemur temporis est. Disputare cum Socrate licet dubitare cum Carneade cum Epicuro quiescere hominis naturam cum Stoicis vincere cum Cynicis excedere. Cum rerum natura in consortium omnis aevi patiatur incedere quidni ab hoc exiguo et caduco temporis transitu in illa toto nos demus animo quae immensa quae aeterna sunt quae cum melioribus communia? Isti qui per officia discursant qui se aliosque inquietant cum bene insanierint cum omnium limina cotidie perambulaverint nec ullas apertas fores praeterierint cum per diversissimas domos meritoriam salutationem circumtulerint quotum quemque ex tam immensa et variis cupiditatibus districta urbe poterunt videre? Quam multi erunt quorum illos aut somnus aut luxuria aut inhumanitas summoveat! Quam multi qui illos cum diu torserint simulata festinatione transcurrant! Quam multi per refertum clientibus atrium prodire vitabunt et per obscuros aedium aditus profugient quasi non inhumanius sit decipere quam excludere! Quam multi hesterna crapula semisomnes et graves illis miseris suum somnum rumpentibus ut alienum exspectent vix allevatis labris insusurratum miliens nomen oscitatione superbissima reddent! Hos in veris officiis morari putamus licet dicant qui Zenonem qui Pythagoran cotidie et Democritum ceterosque antistites bonarum artium qui Aristotelen et Theophrastum volent habere quam familiarissimos. Nemo horum non vacabit nemo non venientem ad se beatiorem amantiorem sui dimittet nemo quemquam vacuis a se manibus abire patietur; nocte conveniri interdiu ab omnibus mortalibus possunt.

Soli tra tutti sono sfaccendati coloro che si dedicano alla saggezza, essi soli vivono; e infatti non solo custodiscono bene la propria vita: aggiungono ogni età alla propria; qualsiasi cosa degli anni prima di essi è stata fatta, per essi è cosa acquisita. Se non siamo persone molto ingrate, quegli illustrissimi fondatori di sacre dottrine sono nati per noi, per noi hanno preparato la vita. Siamo guidati dalla fatica altrui verso nobilissime imprese, fatte uscire fuori dalle tenebre verso la luce; non siamo vietati a nessun secolo, in tutti siamo ammessi e, se ci aggrada di venir fuori con la grandezza dell’animo dalle angustie della debolezza umana, vi è molto tempo attraverso cui potremo spaziare. Possiamo discorrere con Socrate, dubitare con Carneade, riposare con Epicuro, vincere con gli Stoici la natura dell’uomo, andarvi oltre con i Cinici. Permettendoci la natura di estenderci nella partecipazione di ogni tempo, perché non (elevarci) con tutto il nostro spirito da questo esiguo e caduco passar del tempo verso quelle cose che sono immense, eterne e in comune con i migliori? Costoro, che corrono di qua e di là per gli impegni, che non lasciano in pace se stessi e gli altri, quando sono bene impazziti, quando hanno quotidianamente peregrinato per gli usci gli tutti e non hanno trascurato nessuna porta aperta, quando hanno portato per case lontanissime il saluto interessato [del cliente verso il patrono, ricompensato in cibarie], quanto e chi hanno potuto vedere di una città tanto immensa e avvinta in varie passioni? Quanti saranno quelli di cui il sonno o la libidine o la grossolanità li respingerà! Quanti quelli che, dopo averli tormentati a lungo, li trascureranno con finta premura! Quanti eviteranno di mostrarsi per l’atrio zeppo di clienti e fuggiranno via attraverso uscite segrete delle case, come se non fosse più scortese l’inganno che il non lasciarli entrare! Quanti mezzo addormentati e imbolsiti dalla gozzoviglia del giorno precedente, a quei miseri che interrompono il proprio sonno per aspettare quello altrui, a stento sollevando le labbra emetteranno con arroganti sbadigli il nome mille volte sussurrato! Si può ben dire che indugiano in veri impegni coloro che vogliono essere ogni giorno quanto più intimi di Zenone, di Pitagora, di Democrito e degli altri sacerdoti delle buone arti, di Aristotele e di Teofrasto. Nessuno di costoro non avrà tempo, nessuno non accomiaterà chi viene a lui più felice ed affezionato a sé, nessuno permetterà che qualcuno vada via da lui a mani vuote; da tutti i mortali possono essere incontrati, di notte e di giorno.

Satyricon, 42

Excepit Seleucus fabulae partem et: “Ego, inquit, non cotidie lavor; baliscus enim fullo est: aqua dentes habet, et cor nostrum cotidie liquescit. Sed cum mulsi pultarium obduxi, frigori laecasin dico. Nec sane lavare potui; fui enim hodie in funus. Homo bellus, tam bonus Chrysanthus animam ebulliit. Modo, modo me appellavit. Videor mihi cum illo loqui. Heu, eheu, utres inflati ambulamus. Minoris quam muscae sumus. Tamen aliquam virtutem habent; nos non pluris sumus quam bullae. Et quid si non abstinax fuisset! Quinque dies aquam in os suum non coniecit, non micam panis. Tamen abiit ad plures. Medici illum perdiderunt, immo magis malus fatus; medicus enim nihil aliud est quam animi consolatio. Tamen bene elatus est, vitali lecto, stragulis bonis. Planctus est optime – manu misit aliquot – etiam si maligne illum ploravit uxor. Quid si non illam optime accepisset? Sed mulier quae mulier milvinum genus. Neminem nihil boni facere oportet; aeque est enim ac si in puteum conicias. Sed antiquus amor cancer est”.

Seleuco prese parte alla conversazione e disse: “Io non mi faccio il bagno tutti i giorni; il bagno, infatti, è come un lavandaio, l’acqua ha i denti e il nostro cuore (corpo) si decompone giorno per giorno. Ma dopo che ho bevuto una zangola di vino melato, mando il freddo a prostituirsi. E fra l’altro non ho avuto il tempo di lavarmi; infatti oggi sono stato ad un funerale. Un uomo carino, tanto buono, Crisanto ha sputato l’anima. Or ora (prima di morire) mi ha chiamato a sè. Mi sembra di parlarci. Ahimè ahimè, siamo otri gonfi che camminano. Siamo meno delle mosche, quelle tuttavia hanno qualche virtù, noi non siamo più che bolle (di sapone). E cosa ne sarebbe stato se non fosse sempre stato alle regole! Per cinque giorni non ha messo acqua nella sua bocca, né una mollica di pane. Tuttavia è nel mondo dei più. Sono stati i medici a rovinarlo, o meglio il fato avverso; i medici infatti non possono far niente se non consolare l’animo. Tuttavia ha avuto un bel funerale, col suo letto di quando era vivo con belle coperte. È stato compianto ottimamente ““ aveva liberato diversi schiavi – anche se la moglie lo ha pianto malignamente. Cosa avrebbe fatto se no l’avesse trattata ottimamente! Ma una donna è sempre donna, della razza del nibbio (avvoltoio). Non bisognerebbe mai fare del bene a nessuno; infatti è come se lo buttassi in un pozzo. Ma l’amore, a lungo andare, è come un cancro”.

Satyricon, 41

Interim ego, qui privatum habebam secessum, in multas cogitationes diductus sum, quare aper pilleatus intrasset. Postquam itaque omnis bacalusias consumpsi, duravi interrogare illum interpretem meum, quod me torqueret. At ille: “Plane etiam hoc servus tuus indicare potest: non enim aenigma est, sed res aperta. Hic aper, cum heri summa cena eum vindicasset, a conviviis dimissus; itaque hodie tamquam libertus in convivium revertitur”. Damnavi ego stuporem meum et nihil amplius interrogavi, ne viderer nunquam inter honestos cenasse. Dum haec loquimur, puer speciosus, vitibus hederisque redimitus, modo Bromium, interdum Lyaeum Euhiumque confessus, calathisco uvas circumtulit, et poemata domini sui acutissima voce traduxit. Ad quem sonum conversus Trimalchio: “Dionyse, inquit, liber esto”. Puer detraxit pilleum apro capitique suo imposuit. Tum Trimalchio rursus adiecit: “Non negabitis me, inquit, habere Liberum patrem”. Laudamus dictum Trimalchionis, et circumeuntem puerum sane perbasiamus. Ab hoc ferculo Trimalchio ad lasanum surrexit. Nos libertatem sine tyranno nacti coepimus invitare convivarum sermones.

Nel frattempo io, che pensavo e ripensavo, mi arrovellavo il cervello per capire come mai il cinghiale fosse entrato con il cappello. Dopo che, pertanto, avevo esaurito tutte le mie supposizioni, ebbi abbastanza coraggio per chiedere a quel mio interprete su ciò che mi tormentava. Ma quello: “Anche il tuo servo te lo potrebbe dire chiaramente; infatti non è un enigma, ma una cosa lampante. Questo cinghiale, essendo stato servito ieri al culminare della cena, è stato mandato indietro dai commensali; così oggi ritorna in tavola da liberto”. Maledii la mia ingenuità e non feci altre domande, per non dare l’impressione di non aver mai cenato fra gente tanto a modo. Subito dopo Trimalcione si alzò per andare al gabinetto. Noi, lasciati liberi senza la direzione di un tiranno, iniziammo a invitare i discorsi dei commensali. Così Dama, dopo aver chiesto dei boccali, per primo disse: “Il giorno non è niente, mentre ti giri, si fa notte. Per questo niente è meglio che alzati dal letto andare nel triclino. E sì che abbiamo avuto un bel freddo. A malapena il bagno mi ha scaldato. Tuttavia una bevanda calda è il miglior vestito. Ho tirato dietro a me una brocca piena e sono proprio fradicio. Il vino mi è salito al cervello”.

Satyricon, 40

“Sophos!” universi clamamus, et sublatis manibus ad camaram iuramus Hipparchum Aratumque comparandos illi homines non fuisse, donec advenerunt ministri ac toralia praeposuerunt toris, in quibus retia erant picta subsessoresque cum venabulis et totus venationis apparatus. Necdum sciebamus mitteremus suspiciones nostras, cum extra triclinium clamor sublatus est ingens, et ecce canes Laconici etiam circa mensam discurrere coeperunt. Secutum est hos repositorium, in quo positus erat primae magnitudinis aper, et quidem pilleatus, e cuius dentibus sportellae dependebant duae palmulis textae, altera caryatis, altera thebaicis repleta. Circa autem minores porcelli ex coptoplacentis facti, quasi uberibus imminerent, scrofam esse positam significabant. Et hi quidem apophoreti fuerunt. Ceterum ad scindendum aprum non ille Carpus accessit, qui altilia laceraverat, sed barbatus ingens, fasciis cruralibus alligatus et alicula subornatus polymita, strictoque venatorio cultro latus apri vehementer percussit, ex cuius plaga turdi evolaverunt. Parati aucupes cum harundinibus fuerunt, et eos circa triclinium volitantes momento exceperunt. Inde cum suum cuique iussisset referri, Trimalchio adiecit: “Etiam videte, quam porcus ille silvaticus lotam comederit glandem.” Statim pueri ad sportellas accesserunt quae pendebant e dentibus, thebaicasque et caryatas ad numerum divisere cenantibus.

“Stupendo” gridiamo tutti insieme, e alzate le mani al soffitto giuriamo che Ipparco e Arato, non stati uomini da confrontare a lui, finché non arrivarono dei servi che stesero sui tavoli delle tovaglie sulle quali erano dipinte delle reti e dei cacciatori che stavano in guardia con gli spiedi e tutta l’attrezzatura per la caccia. E ancora non sapevamo verso quale direzione indirizzare i nostri sospetti, quando si sollevò un gran fragore da fuori il triclino, ed ecco dei cani spartani cominciarono a correre intorno alla tavola. Questi furono seguiti da un vassoio, nel quale era posto un cinghiale di prima grandezza, e per giunta col cappello, dalle cui zanne pendevano due sportelle di palma intrecciata, ripieni uno di datteri freschi uno di datteri secchi. Intorno a quello dei maialini fatti di pasta frolla, come attaccati alle mammelle, indicavano che era posta una scrofa. E questi per altro, furono i doni da portare a casa. Peraltro a tagliare il cinghiale non venne lo stesso Squarcia, che aveva tagliato il pollame, ma un uno omone barbuto, con le gambe avvolte da fasce e con addosso un mantello damascato afferrato il coltello da caccia inferse un colpo violento ad un fianco del cinghiale, dalla cui ferita volarono dei tordi. Erano lì pronti gli uccellatori con le canne e in un attimo li catturarono mentre volavano intorno al triclino. Quindi, dopo aver ordinato che fosse portato a ciascuno il suo, Trimalcione aggiunse: “Ed ora guardate che ghiande raffinate si mangiava quel maiale selvatico”. Immediatamente i valletti si accostarono alle sportelle, che pendevano dai denti e distribuirono in parti uguali i datteri secchie freschi agli invitati.

Satyricon, 29

Ceterum ego dum omnia stupeo, paene resupinatus crura mea fregi. Ad sinistram enim intrantibus non longe ab ostiarii cella canis ingens, catena vinctus, in pariete erat pictus superque quadrata littera scriptum “cave canem”. Et collegae quidem mei riserunt. Ego autem collecto spiritu non destiti totum parientem persequi. Erat autem venalicium cum titulis pictis, et ipse Trimalchio capillatus caduceum tenebat Minervamque ducente Romam intrabat. Hinc quemadmodum ratiocinari didicisset, deinque dispensator factus esset, omnia diligenter curiosus pictor cum inscriptione reddiderat. In deficiente vero iam porticu levatum mento in tribunal excelsum Mercurius rapiebat. Praesto erat Fortuna cornu abundanti copiosa et tres Parcae aurea pensa torquentes. Notavi etiam in porticu gregem cursorum cum magistro se exercentem. Praeterea grande armarium in angulo vidi, in cuius aedicula erant Lares argentei positi Venerisque signum marmoreum et pyxis aurea non pusilla, in qua barbam ipsius conditam esse dicebant. Interrogare ergo atriensem coepi, quas in medio picturas haberent. “Iliada et Odyssian, inquit, ac Laenatis gladiatorium munus”.

Mentre, a bocca aperta, guardavo tutte queste meraviglie, casco lì lungo rovescio e poco manca che non mi spezzi le gambe, perchè un cane enorme, sulla sinistra di chi entrava, non lungi dallo sgabuzzino del portiere, legato alla catena, era dipinto sulla parete e sopra a lettere cubitali vi era tanto di scritta: “Attenti al cane”. E i miei compagni ebbero sì di che ridere, mentre io, ripreso fiato, non lasciai di trascorrere con lo sguardo tutta la parete. Vi era, infatti, dipinto un mercato di schiavi con le sue brave scritte, ed ecco il nostro Trimalchione ancora zazzeruto, che reggeva il caduceo e sotto la guida di Minerva entrava in Roma. E poi come aveva imparato a fare i conti e infine come era stato nominato tesoriere: ogni cosa con cura l’attento pittore, colle rispettive scritte, aveva voluto rappresentare. Quando poi si era all’estremità della parete, presolo per il mento, lo sollevava sull’alto di una tribuna proprio Mercurio, e gli si faceva accosto la fortuna, pronta a profondere dal suo corno ogni abbondanza, e v’erano le tre Parche, che volgevano una conocchia d’oro. Intanto scorsi sotto il portico una schiera di corrieri che si esercitavano con il loro bravo allenatore. Notai, inoltre, in un angolo, un grande armadio con una bacheca sistemata in alto, che aveva dentro ben disposti dei Lari di argento e una statuetta marmorea di Venere, nonchè una pisside d’oro, non certo piccina, in cui badavano a dire che fosse conservata la prima barba di lui, il padrone di casa. Chiesi quindi al portiere che cosa rappresentassero le pitture della parete di centro: “L’Iliade e L’Odissea – rispose – e le gare dei gladiatori offerte da Lenate”.

Saturae, Prologus

Nec fonte labra prolui caballino
nec in bicipiti somniasse Parnaso
memini ut repente sic poeta prodirem
Heliconidasque pallidamque Pirenen
illis remitto quorum imagines lambunt
hederae sequaces ipse semipaganus
ad sacra vatum carmen adfero nostrum
quis expedivit psittaco suum chaere
picamque docuit nostra verba conari
magister artis ingenique largitor
venter negatas artifex sequi voces
quod si dolosi spes refulserit nummi
corvos poetas et poetridas picas
cantare credas Pegaseium nectar.

Non ricordo di avere bagnato le labbra
nella fonte del cavallo né di avere sognato sul Parnaso
dalla doppia cima, cosi da diventare all’improvviso
poeta; le dèe dell’Elicona e la pallida Pirene
lascio a coloro le cui immagini lambiscono
attorte edere; io, mezzo paesano,
porto da me stesso i miei versi alla sagra dei vati.
Chi suggerì al pappagallo quel suo “Salve”,
e insegnò alle gazze a tentare le nostre parole?
Maestro d’arte e largitore d’ingegno il ventre,
un artista nell’imitare voci innaturali.
Poiché se brilli speranza del danaro ingannatore,
ti potrà capitare di credere che poeti corvi
e poetesse gazze stiano cantando il nettare di Pegaso.

Carmina, I, 1,

Maecenas atavis edite regibus,
o et praesidium et dulce decus meum:
sunt quos curriculo pulverem Olympicum
collegisse iuvat metaque fervidis

5
evitata rotis palmaque nobilis
terrarum dominos evehit ad deos;
hunc, si mobilium turba Quiritium
certat tergeminis tollere honoribus;
illum, si proprio condidit horreo

10
quidquid de Libycis verritur areis.
gaudentem patrios findere sarculo
agros Attalicis condicionibus
numquam demoveas, ut trabe Cypria
Myrtoum pavidus nauta secet mare;

15
luctantem Icariis fluctibus Africum
mercator metuens otium et oppidi
laudat rura sui: mox reficit rates
quassas indocilis pauperiem pati.
est qui nec veteris pocula Massici

20
nec partem solido demere de die
spernit, nunc viridi membra sub arbuto
stratus, nunc ad aquae lene caput sacrae;
multos castra iuvant et lituo tubae
permixtus sonitus bellaque matribus

25
detestata; manet sub Iove frigido
venator tenerae coniugis inmemor,
seu visa est catulis cerva fidelibus,
seu rupit teretes Marsus aper plagas.
me doctarum hederae praemia frontium

30
dis miscent superis, me gelidum nemus
Nympharumque leves cum Satyris chori
secernunt populo, si neque tibias
Euterpe cohibet nec Polyhymnia
Lesboum refugit tendere barbiton.

35
quodsi me lyricis vatibus inseres,
sublimi feriam sidera vertice.

O Mecenate disceso da antenati regali, o tu che sei mia difesa e mio dolce onore, ci sono alcuni a cui piace aver raccolto con il carro da gara la polvere di Olimpia e la meta evitata dalle ruote roventi e la nobile palma li innalzano fino agli dei, signori della terra; a questo piace se la folla degli incostanti Quiriti gareggia ad elevarlo alle tre maggiori magistrature; a quello piace se ha accumulato nel proprio granaio tutto il frumento che viene spazzato dalle aie libiche. Non potresti mai smuovere, neppure alle condizioni di Attalo quello a cui piace lavorare i campi paterni con la zappa in modo da spingerlo a solcare il mare Mirtoo, pavido marinaio, con una nave costruita a Cipro. Il mercante che teme l’Africo in lotta con le onde del mare Icario elogia il riposo e la campagna del suo paese; ma subito fa restaurare le navi sconquassate incapace di sopportare una vita modesta. C’è chi non disprezza nè le coppe di Massico invecchiato, nè di sottrarre una parte dall’intero giorno, ora con le membra distese sotto un verde corbezzolo, ora presso una dolce sorgente di acqua sacra. A molti piacciono la vita militare e il suono della tromba mescolato a quello del corno e le guerre detestate dalle madri. Si apposta sotto un cielo gelido il cacciatore immemore della dolce consorte sia che una cerva sia stata avvistata dai cani fedeli, sia che un cinghiale marsico abbia rotto le reti ritorte. Ma l’edera premio delle menti dotte unisce agli dei saperi, ma un fresco bosco e le danze leggere delle Ninfe con i Satiri tengono lontano dal popolo, se nè Euterpe mi impedisce di suonare il faluto nè Polimnia di accordare la Lira di Lesbo. Se mi comprenderai tra i poeti lirici, con il capo altolevato toccherò le stelle.

“La favola di Gige”

Gyges, cum terra discessisset magnis quibusdam imbribus, descendit in illum hiatum aeneumque equum, ut ferunt fabulae, animadvertit, cuius in lateribus fores essent; quibus aperit, corpus hominis mortui vidit magnitudine inusitata anulumque aureum in digito. Quem ut detraxit, ipse induit; (erat autem regius pastor) tum in concilium se pastorum recepit. Ibi, cum palam eius anuli ad palmam converterat, a nullo videbatur, ipse autem omnia videbat; idem rursus videbatur, cum in locum anulum inverterat. Itaque hac opportunitate anuli usus, regem dominum interemit, sustuli quos obstare arbitrabatur, nec in his eum facinoribus quisquam potuit videre. Sic repente anuli beneficio rex exortus est Lydiae.

Gige, essendo caduto in terra un violento nubifragio, scese in quella voragine e scorse, come dicono le leggende, un cavallo di bronzo, con un anello d’oro al dito; glielo tolse e se lo mise, poi si recò all’adunanza dei pastori (era, infatti, pastore del re); lì, ogni volta che volgeva il castone dell’anello verso la palma della mano, diveniva invisibile a tutti, mentre egli era in grado di veder tutto; ritornava nuovamente visibile quando rimetteva l’anello al suo posto. E così, servendosi dei poteri concessigli dall’anello, fece violenza alla regina e col suo aiuto uccise il re suo padrone, tolse di mezzo chi, a parer suo, gli si opponeva, e nessuno potè scorgerlo mentre compiva questi delitti; così, tutto ad un tratto, grazie all’anello divenne re della Lidia.

“Il fanciullo e il delfino”

Delphinus hominem non expavescit ut alienum, obviam navigiis venit, alludit exsultans, certat etiam, et quamvis plena praeterit vela. Divo Augusto principe, delphinus, Lucrinum lacum invectus, miro amore dilexit pauperis cuiusdam puerum, ex Baiano Puteolos in ludum litterarium itantem, cum meridiano (tempore) immorans, appellatum eum Simonis nomine, saepius fragmentis panis, quem ob id ferebat, allexisset. Quocumque diei tempore inclamatus a puero, quamvis occultus atque abditus, ex imo advolabat, pastusque e manu, praebebat ascensuro (puero) dorsum, pinnae aculeos velut vagina condens, puerumque Puteolos, per magnum aequor, in ludum ferebat, simili modo revehens plurimis annis; donec morbo extincto puero, subinde ad consuetum locum ventitans, tristis et maerenti similis, ipse quoque – quod nemo dubitaret – desiderio expiravit.

Il delfino non teme l’uomo come un estraneo, va incontro alle navi, gioca saltando, gareggia anche, e supera le vele anche se molto gonfie. Un delfino, portato nel lago Lucrino durante il principato del divino Augusto, amò un giovane figlio di un povero, che da Baio si recava nella scuola di scrittura a Pozzuoli, che lo chiamò con il nome di Simone, e che si tratteneva nel mezzogiorno (per ore), dopo averlo attirato a sè abbastanza spesso con briciole di pane che gli portava. In qualsiasi ora del giorno chiamato dal ragazzo, sebbene nascosto e nelle profondita, correva dal fondo, e mangiato dalla mano porgeva il dorso (al ragazzo) affinchè salisse, nascondendo per così dire le punte della pinna in una fodera, e portava il ragazzo a Pozzuoli a scuola attraverso l’alto mare, e riportandolo per moltissimi anni nello stesso modo; fino a quando morto il giovane per una malattia, continuando comunque a venire nel luogo consueto, per la tristezza e per dolori simili, esso stesso – come nessuno potrebbe dubitare – morì di rimpianto.

Epistularum Libri Decem, IX, 33, 2-5

Est in Africa Hipponensis colonia mari proxima. Adiacet navigabile stagnum; ex hoc in modum fluminis aestuarium emergit, quod vice alterna, prout aestus aut repressit aut impulit, nunc infertur mari,nunc redditur stagno. Omnis hic aetas piscandi, navigandi atque etiam natandi studio tenetur, maxime pueri, quos otium lususque sollicitat. His gloria et virtus altissime provehi: victor ille, qui longissime ut litus ita simul natantes reliquit. Hos certamine puer quidam audentior ceteris in ulteriora tendebat. Delphinus occurrit, et nunc praecedere puerum, nunc sequi, nunc circumire, postremo subire, deponere, iterum subire, trepidantemque perferre primum in altum, mox flectit ad litus, redditque terrae et aequalibus. Serpit per coloniam fama; concurrere omnes, ipsum puerum tamquam miraculum adspicere, interrogare, audire, narrare. Postero die obsident litus, prospectant mare et si quid est mari simile. Natant pueri, inter hos ille, sed cautius.

In Africa si trova una colonia, Ippona, vicina al mare; vicino ad essa, si distende uno stagno navigabile: da quest’ultimo sbocca in mare una specie di fiume, che, con moto alternato, la marea ora trattiene ora sospinge, (tal che) ora sgorga nel mare ora rientra nello stagno. Gente di ogni età vi giunge per pescare, andare in barca e anche nuotare, soprattutto i ragazzi, attratti dall’ozio e dal desiderio di divertirsi. Per costoro è vanto e prodezza spingersi in alto mare: vince colui che si è maggiormente allontanato dalla spiaggia e dagli (altri) nuotatori. Durante questa gara, un ragazzo più ardimentoso degli altri cercava di spingersi più lontano possibile. Gli venne incontro un delfino che si mise ora a precedere ora a seguire il ragazzo, ora a girargli attorno, infine ad andargli sotto, a sollevarlo, a deporlo, a risollevarlo e, tutto tremante, dapprima lo porta verso l’alto mare, poi ritorna verso la spiaggia e lo riconsegna alla riva e ai suoi compagni.
La notizia (di tale vicenda) si diffonde per tutta la colonia: accorre molta gente, per vedere quel ragazzo, come un essere miracoloso, per porgli delle domande, ascoltarlo, raccontare (il fatto ad altri). Il giorno successivo, affollano la spiaggia, e scrutano il mare e tutto ciò che è simile al mare. I ragazzi nuotano e fra loro quello (il giovane di cui sopra), ma in modo più prudente.

De Spectaculis, 1

Barbara pyramidum sileat miracula Memphis,
Assyrius iactet nec Babylona labor;
nec Triuiae templo molles laudentur Iones,
dissimulet Delon cornibus ara frequens
5 aere nec uacuo pendentia Mausolea
laudibus inmodicis Cares in astra ferant.
Omnis Caesareo cedit labor Amphitheatro,
unum pro cunctis fama loquetur opus.

La barbara Memfi non stia ad esaltare il miracolo delle piramidi; il lavoro assirio non vanti Babilonia; i molli Ioni non siano lodati per il tempio di Diana l’altare costruito con corna di capra non procuri gloria a Delo ; i Cari non por¬tino alle stelle con lodi esagerate la tomba di Mausolo che si libra nella vuota aria. Tutti i monumenti restano inferiori all’anfiteatro di Cesare : la fama celebrerà questo solo per tutti.

De Rerum Natura, I, 1-49

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis:
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent.
quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.
effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant;
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reiicit aeterno devictus vulnere amoris,
atque ita suspiciens tereti cervice reposta
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circum fusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem;
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.
omnis enim per se divum natura necessest
immortali aevo summa cum pace fruatur
semota ab nostris rebus seiunctaque longe;
nam privata dolore omni, privata periclis,
ipsa suis pollens opibus, nihil indiga nostri,
nec bene promeritis capitur nec tangitur ira.

Progenitrice degli Eneadi, delizia degli uomini e degli dei,
madre Venere, che sotto lo scorrere degli astri celesti
inondi di vita il mare navigabile e le terre fruttifere,
grazie a te si perpetua ogni specie d’esseri animati
e il neonato è condotto a vedere la luce del sole:
dinanzi a te, dea, e alla tua presenza fuggono i venti
e i nembi del cielo, al tuo passaggio la laboriosa terra
fa sorgere i fiori profumati, ti sorride la distesa del mare
e risplende di luce diffusa il cielo rasserenato.
Non appena si svela la bellezza dei giorni primaverili
e prende apertamente vigore il soffio vitale dello zefiro,
per primi gli uccelli dell’aria annunciano te, diva,
e il tuo avvento, colpiti al cuore dalla tua potenza.
E poi gli animali selvatici saltellano sui pascoli ridenti
e guadano fiumi impetuosi: così, presi dal diletto,
ti seguono bramosamente dovunque continui a guidarli.
Alfine, per mari e per monti, e per fiumi voraci,
e sui frondosi nidi degli uccelli, e nei campi rigogliosi,
instillando a ciascuno nel petto il delicato amore
fai che per ogni razza le generazioni si riproducano bramose.
Poiché tu sola governi la natura d’ogni cosa
e nulla senza te può innalzarsi alle divine sorgenti
di luce, come nulla ci sarà gradito né amabile,
desidero che tu mi sia compagna nel comporre i versi
che io mi affanno a plasmare sulla natura del mondo
in onore del caro Memmiade, che tu, dea, hai voluto
che, provvisto di ogni virtù, eccellesse in ogni frangente.
Perciò tanto più, diva, concedi alle mie parole eterna bellezza.
Fa’ che nel frattempo le crudeli opere di guerra
tutte assopite per mare e per terra si plachino.
Ché tu sola puoi rinfrancare i mortali con pace serena,
dal momento che Marte, il signore dell’armi, che pur guida
le forze spietate di guerra, così spesso sul tuo grembo
s’abbandona, sconfitto dall’eterna ferita d’amore,
e con lo sguardo all’insù, rovesciato all’indietro il bel collo,
ciba d’amore i suoi occhi avidi, anelante d’amore per te, dea,
e, così supino, il suo spirito pende dalle tue labbra.
Tu, divina, abbracciando dall’alto col tuo sacro corpo
il suo che si trova riverso, effondi di bocca soavi parole
chiedendo, illustrissima, per i Romani una pace tranquilla.
Ché non possiamo, in un momento tanto avverso per la patria,
attendere con animo sereno a questi versi, né la gloriosa stirpe
di Memmio può in tal frangente distrarsi dal bene comune.
Ché di per sé ogni natura divina ha bisogno
di godere vita immortale nell’eccelsa quiete,
separata e parecchio distante dalle umane vicende.
Priva di qualsiasi dolore, lontana dai pericoli, infatti,
potente per le sue facoltà, per nulla di noi bisognosa,
non è attirata dai nostri meriti né sfiorata dalla nostra ira.

Epistularum Libri Decem, VII, 20 (“Plinio e Tacito: due grandi amici”)

Librum tuum legi et, quam diligentissime potui, adnotavi quae commutanda, quae eximenda arbitrarer. Nam et ego verum dicere adsuevi, et tu libenter audire. Neque enim ulli patientius reprehenduntur, quam qui maxime laudari merentur. Nunc a te librum meum cum adnotationibus tuis exspecto. O iucundas, o pulchras vices! Quam me delectat quod, si qua posteris cura nostri, usquequaque narrabitur qua concordia, simplicitate, fide vixerimus! Erit rarum et insigne, duos homines aetate dignitate propemodum aequales, non nullius in litteris nominis, alterum alterius studia fovisse. Equidem adulescentulus, cum iam tu fama gloriaque floreres, te sequi, tibi “longo sed proximus intervallo” et esse et haberi concupiscebam. Quo magis gaudeo, quod si quis de studiis sermo, una nominamur, quod de te loquentibus statim occurro. Nec desunt qui utrique nostrum praeferantur. Sed nos, nihil interest mea quo loco, iungimur; nam mihi primus, qui a te proximus. Vale.

Ho letto il tuo libro e, più attentamente che ho potuto, ho annotato i passi che pensavo si dovessero cambiare e quelle che si dovessero togliere. Io infatti sono abituato a dire la verità e tu ad ascoltar(la) volentieri. Nessuno, infatti, accetta di essere criticato con più pazienza di quelli che meritano di più di essere lodati. Adesso aspetto da te il mio libro con le tue annotazioni. O stupendo e felice scambio! Quanto mi fa piacere che, se i posteri avranno qualche cura di noi, sempre si racconterà con quale concordia, semplicità e lealtà siamo vissuti! Sarà cosa rara e straordinaria che due uomini quasi uguali per età (e) livello sociale, di una qualche notorietà nelle lettere, abbiano incoraggiato l’uno gli studi dell’altro. In realtà, (quando ero un) giovinetto, mentre tu ormai ti distinguevi per fama e gloria, desideravo ardentemente seguire te; (desideravo) essere ed essere ritenuto (rispetto a te) il secondo (anche se) a grande distanza da te. Per questo mi fa più piacere che, se (nasce) qualche discorso sugli studi, siamo nominati insieme (e) che a coloro che parlano di te vengo in mente subito io. E non mancano (letterati) che vengono preferiti a entrambi noi. Ma non mi importa nulla in quale posizione noi siamo uniti; infatti per me (è) il primo colui che viene subito dopo di te.

Epitomae, XXXIII, 2 (“Eroismo del figlio di Catone il Censore”)

In ea pugna M. Cato, Catonis oratoris filius, dum inter confertissimos hostes insigniter dimicat, equo delapsus, pedestre proelium adgreditur. Nam cedentem manipulus hostium cum horrido clamore, veluti iacentem obtruncaturus, circumsteterat; at ille citius, corpore collecto, magnas strages edidit. Cum ad unum opprimendum undique hostes convolarent, dum procerum quondam petit, gladius ei e manu elapsus in mediam cohortem hostium decidit; ad quem reciperandum, umbone se protegens, inspectante utroque exercitu, inter hostium mucrones sese immersit, recollectoque gladio, multis vulneribus exceptis, ad suos cum clamore hostium revertitur. Huius audaciam ceteri imitati, victoriam peperere.

Durante la battaglia, M. Catone – figlio dell’oratore Catone – mentre combatte, mostrando straordinario valore, tra i nemici serrati (intorno a lui), caduto da cavallo, si trova ad affrontare lo scontro a mo’ di fante. Infatti, un manipolo di nemici – con terribile urlo (di guerra) – l’aveva circondato mentre egli cadeva, con l’intenzione di sgozzarlo mentre era a terra. Ma egli, rialzatosi molto in fretta, fece una strage. Mentre da ogni parte piombavano nemici per far fuori uno solo, egli si getta all’attacco di un (soldato) di notevole stazza; la spada, sfuggitagli di mano, cadde in mezzo alla schiera nemica; al fine di recuperarla, (Catone) – proteggendosi con lo scudo – sotto gli occhi di entrambi gli eserciti, si gettò tra le armi nemiche e, recuperata la spada, a costo di molteplici ferite, rientra tra i suoi (soldati), tra le grida di rabbia dei nemici. Gli altri (soldati), spinti ad emulare il suo coraggio, conquistarono la vittoria.

“Tito, amore e delizia del genere umano”

Huic Titus filius successit, qui et ipse Vespasianus est dictus, vir omnium virtutum genere mirabilis adeo, ut amor et deliciae humani generis diceretur, facundissimus, bellicosissimus, moderatissimus. Causas Latine egit, poemata et tragoedias Graece composuit. In oppugnatione Hierosolymorum sub patre militans duodecim propugnatores duodecim sagittarum confixit ictibus. Romae tantae civilitatis in imperio fuit, ut nullum omnino punierit, convictos adversum se coniurationis dimiserit, vel in eadem familiaritate, qua antea, habuerit. Facilitatis et liberalitatis tantae fuit ut, cum nulli quidquam negaret et ab amicis reprehenderetur, responderit nullum tristem debere ab imperatore discedere, praeterea cum quadam die in cena recordatus fuisset nihil se illo die cuiquam praestitisse, dixerit: “Amici, hodie diem perdidi”. Hic Romae amphitheatrum aedificavit et quinque milia ferarum in dedicatione eius occidit. Per haec inusitato favore dilectus morbo periit in ea, qua pater, villa post biennium et menses octo, dies viginti, quam imperator erat factus, aetatis anno altero et quadragesimo.

A costui (Vespasiano) succedette il figlio Tito, che fu chiamato anch’egli Vespasiano, uomo straordinario per ogni genere di virtù, al punto che veniva chiamato amore e delizia del genere umano, molto eloquente, abile guerriero, molto equilibrato. Trattò cause in latino, compose poemi e tragedie in greco. Nell’assedio di Gerusalemme, prestando il servizio militare sotto il padre, trafisse dodici nemici con dodici frecce. A Roma, durante il (suo) impero, fu di tanta mitezza che non punì assolutamente nessuno, lasciò andare i colpevoli di una congiura contro di lui, anzi li considerò amici come prima. Fu di tanta indulgenza e generosità che, non negando nulla a nessuno ed essendo rimproverato dagli amici, rispose che nessuno doveva allontanarsi triste dall’imperatore; inoltre, essendosi un giorno ricordato durante la cena che in quel giorno non aveva fatto nulla per nessuno, disse: “Amici, oggi ho sprecato un giorno”. Costui a Roma fece costruire un anfiteatro e fece uccidere cinquemila fiere nell’inaugurazione. Amato di non comune amore per (tutti) questi motivi, morì di malattia in quella villa in cui (era morto) il padre, due anni, otto mesi (e) venti giorni dopo che era diventato imperatore, a quarantadue anni d’età.

Pharsalia, I, 1, 596-695

Turba minor ritu sequitur succincta Gabino,
Vestalemque chorum ducit vittata sacerdos
Troianam soli cui fas vidisse Minervam.
tum, qui fata deum secretaque carmina servant

600
et lotam parvo revocant Almone Cybeben,
et doctus volucres augur servare sinistras
septemvirque epulis festus Titiique sodales
et Salius laeto portans ancilia collo
et tollens apicem generoso vertice flamen.

605
dumque illi effusam longis anfractibus urbem
circumeunt Arruns dispersos fulminis ignes
colligit et terrae maesto cum murmure condit
datque locis numen; sacris tunc admovet aris
electa cervice marem. iam fundere Bacchum

610
coeperat obliquoque molas inducere cultro,
inpatiensque diu non grati victima sacri,
cornua succincti premerent cum torva ministri,
deposito victum praebebat poplite collum.
nec cruor emicuit solitus, sed volnere laxo

615
diffusum rutilo dirum pro sanguine virus.
palluit attonitus sacris feralibus Arruns
atque iram superum raptis quaesivit in extis.
terruit ipse color vatem; nam pallida taetris
viscera tincta notis gelidoque infecta cruore

620
plurimus asperso variabat sanguine livor.
cernit tabe iecur madidum, venasque minaces
hostili de parte videt. pulmonis anheli
fibra latet, parvusque secat vitalia limes.
cor iacet, et saniem per hiantis viscera rimas

625
emittunt, produntque suas omenta latebras.
quodque nefas nullis inpune apparuit extis,
ecce, videt capiti fibrarum increscere molem
alterius capitis. pars aegra et marcida pendet,
pars micat et celeri venas movet inproba pulsu.

630
his ubi concepit magnorum fata malorum
exclamat ‘vix fas, superi, quaecumque movetis,
prodere me populis; nec enim tibi, summe, litavi,
Iuppiter, hoc sacrum, caesique in pectora tauri
inferni venere dei. non fanda timemus,

635
sed venient maiora metu. di visa secundent,
et fibris sit nulla fides, sed conditor artis
finxerit ista Tages.’ flexa sic omina Tuscus
involvens multaque tegens ambage canebat.

at Figulus, cui cura deos secretaque caeli

640
nosse fuit, quem non stellarum Aegyptia Memphis
aequaret visu numerisque ntibus astra,
‘aut hic errat’ ait ‘nulla cum lege per aevum
mundus et incerto discurrunt sidera motu,
aut, si fata movent, urbi generique paratur

645
humano matura lues. terraene dehiscent
subsidentque urbes, an tollet fervidus aer
temperiem? segetes tellus infida negabit,
omnis an infusis miscebitur unda venenis?
quod cladis genus, o superi, qua peste paratis

650
saevitiam? extremi multorum tempus in unum
convenere dies. summo si frigida caelo
stella nocens nigros Saturni accenderet ignis,
Deucalioneos fudisset Aquarius imbres
totaque diffuso latuisset in aequore tellus.

655
si saevum radiis Nemeaeum, Phoebe, Leonem
nunc premeres, toto fluerent incendia mundo
succensusque tuis flagrasset curribus aether.
hi cessant ignes. tu, qui flagrante minacem
Scorpion incendis cauda chelasque peruris,

660
quid tantum, Gradive, paras? nam mitis in alto
Iuppiter occasu premitur, Venerisque salubre
sidus hebet, motuque celer Cyllenius haeret,
et caelum Mars solus habet. cur signa meatus
deseruere suos mundoque obscura feruntur,

665
ensiferi nimium fulget latus Orionis?
inminet armorum rabies, ferrique potestas
confundet ius omne manu, scelerique nefando
nomen erit virtus, multosque exibit in annos
hic furor. et superos quid prodest poscere finem?

670
cum domino pax ista venit. duc, Roma, malorum
continuam seriem clademque in tempora multa
extrahe civili tantum iam libera bello.’

terruerant satis haec pavidam praesagia plebem,
sed maiora premunt. nam, qualis vertice Pindi

675
Edonis Ogygio decurrit plena Lyaeo,
talis et attonitam rapitur matrona per urbem
vocibus his prodens urguentem pectora Phoebum:
‘quo feror, o Paean? qua me super aethera raptam
constituis terra? video Pangaea nivosis

680
cana iugis latosque Haemi sub rupe Philippos.
quis furor hic, o Phoebe, doce, quo tela manusque
Romanae miscent acies bellumque sine hoste est.
quo diversa feror? primos me ducis in ortus,
qua mare Lagei mutatur gurgite Nili:

685
hunc ego, fluminea deformis truncus harena
qui iacet, agnosco. dubiam super aequora Syrtim
arentemque feror Libyen, quo tristis Enyo
transtulit Emathias acies. nunc desuper Alpis
nubiferae colles atque aeriam Pyrenen

690
abripimur. patriae sedes remeamus in urbis,
inpiaque in medio peraguntur bella senatu.
consurgunt partes iterum, totumque per orbem
rursus eo. nova da mihi cernere litora ponti
telluremque novam: vidi iam, Phoebe, Philippos.’

695
haec ait, et lasso iacuit deserta furore.

Tien dietro il gruppo degli assistenti, succinti secondo l’usanza di Gabii, e a capo del gruppo delle Vestali è la sacerdotessa adorna di bende: a lei soltanto è lecito vedere la troiana Minerva; seguono quelli che custodiscono la volontà degli dèi e i segreti responsi e riconducono il simulacro di Cibèle, dopo averlo bagnato nel piccolo Almone, e l’àugure esperto nell’osservare gli uccelli provenienti da sinistra e il settèmviro, che regola i sacri banchetti, e i Tizii sodali e il Salio che reca lieto sul collo gli scudi sacri e il flàmine con la tiara sul nobile capo. E mentre tutti costoro compiono in processione il giro della città, percorrendola tutta quanta, Arrunte raccoglie i fuochi sparsi di un fulmine e li seppellisce con un mesto mormorio e consacra il luogo alla potenza divina. A questo punto egli fa condurre ai sacri altari un toro dall’alta testa. Già aveva iniziato a versare vino e a spargere farina con il coltello ricurvo e la vittima, a lungo insofferente del temuto sacrificio, mentre gli assistenti succinti la costringevano ad abbassare le corna minacciose, offriva, piegate le ginocchia, il collo domato. Ma non sgorgò il sangue che ci si sarebbe aspettato: dalla ferita aperta colò invece uno spaventoso marciume, in luogo del sangue zampillante. Impallidì Arrunte, sbigottito per il funesto sacrificio, e afferrò le viscere della vittima per ricercarvi l’ira degli dèi. Fu sufficiente il loro colore per atterrire l’indovino: una tinta paonazza molto diffusa chiazzava con macchie di sangue le pallide viscere segnate da note orrende e impregnate di sangue gelido ormai rappreso; l’aruspice scorge il fegato fradicio di putredine ed osserva le vene minacciose dalla parte infausta; non è possibile scorgere la fibra del polmone anelante e una sottile fessura taglia le parti vitali; il cuore è immobile e le viscere emettono putredine attraverso fessure aperte e gli intestini svelano le loro parti più riposte; e – segnale funesto, che mai apparve in alcun sacrificio senza conseguenze – ecco che l’aruspice vede crescere su una protuberanza del fegato un’altra escrescenza: una parte penzola corrotta e putrescente, una parte palpita e muove, incutendo spavento, le vene con rapida pulsazione. Non appena Arrunte colse da tutto ciò il fato di immani sventure, esclamò: «A stento è lecito, o numi, che io possa rivelare al popolo quel che state provocando; infatti io non ho celebrato il sacrificio in tuo onore, o sommo Giove: nel petto del toro ucciso si sono insediati gli dèi infernali. Abbiamo paura di eventi inesprimibili, ma si abbatteranno su noi cose ancora peggiori di quel che possiamo temere. Gli dèi volgano in meglio quel che abbiamo visto e non si presti alcuna fede all’esame delle viscere, ma che piuttosto Tagète, il fondatore di quest’arte, si sia inventato tutte queste cose». Così il vate etrusco vaticinava i suoi responsi, avvolgendoli in lunghi e tortuosi giri di parole.
Ma Fìgulo – che si era dedicato alla conoscenza degli dèi e dei misteri del cielo e che l’egiziana Menfi non sarebbe riuscita ad eguagliare nell’osservazione delle stelle e nello studio del ritmo che muove gli astri – disse: «O questo mondo vaga attraverso il tempo senza alcuna regola e gli astri scorrono con movimenti non prefissati oppure, se sono i fati a muovere ogni cosa, per Roma e per il genere umano si prepara una rovina ormai imminente. La terra si spalancherà e le città sprofonderanno oppure l’aria infuocata distruggerà la zona temperata? L’infida terra negherà i suoi prodotti oppure tutte le acque saranno avvelenate? Qual disastro mai state approntando, o dèi, con quale rovina vi apprestate ad incrudelire? L’estremo giorno di una lunga serie si è raccolto in un momento solo. Se nella parte più alta del cielo il gelido e infausto pianeta Saturno accendesse neri fuochi, l’Acquario verserebbe piogge da diluvio universale e l’intera terra sarebbe sommersa dalle acque. Se ora, o Febo, incalzassi con i tuoi raggi il crudele leone di Nèmea, tutto il mondo sarebbe preda del fuoco e l’etere brucerebbe arso dal tuo carro, che scorre sotto la sua volta. Ma questi fuochi non appaiono. Tu, o Gradìvo, che accendi il minaccioso Scorpione dall’ardente coda e ne infiammi le chele, che cosa appresti di spaventoso? Infatti il mite Giove è nascosto profondamente nella zona occidentale, il favorevole pianeta Venere non brilla più, il veloce Cillènio ferma il suo moto: il solo Marte occupa il cielo. Per quale motivo gli astri hanno abbandonato i loro itinerari e sono trascinati ed errano oscuri per l’universo, mentre brilla in maniera eccessiva il fianco di Oriòne armato di spada? Incombe il furore delle armi e il potere del ferro sconvolgerà ogni diritto con la violenza, sarà considerato un atto di valore il delitto sacrilego e questa follia durerà per molti anni. Che giova invocarne la fine dagli dèi? Codesta pace giunge con un padrone. Porta avanti, o Roma, una serie ininterrotta di mali e continua – libera ormai soltanto per la guerra civile – per lungo tempo la strage!».
Questi presagi avevano sufficientemente atterrito il popolo pauroso, ma altri, ben peggiori, lo incalzano. Infatti, come una baccante, invasata dall’ogìgio Lièo, corre giù dalla vetta del Pindo, così una matrona scorrazza attraverso la città sbigottita, svelando con queste parole Febo che le opprime il petto: «Dove sono trascinata, o Peàn? In quale terra mi deponi dopo avermi rapita in cielo? Scorgo il Pangèo, bianco per le sue vette nevose, e la piana di Filippi sotto le rocce dell’Emo. Dimmi che furore è questo, o Febo, in preda al quale si scontrano le schiere romane, provocando così una guerra senza nemici. In qual luogo lontano sono trasportata? Mi conduci ai limiti orientali, là dove il mare si muta nelle onde del Nilo di Lago: riconosco quel tronco informe, che giace sulla sabbia del fiume. Sono trascinata sopra il mare verso le infide Sirti e l’arida Libia, dove la triste Enìo ha trasferito le truppe, che prima avevano combattuto in Tessaglia. Ora mi trasporti sulle cime nuvolose delle Alpi e sugli alti Pirenei. Ritorno poi nell’Urbe: nel mezzo del Senato si svolgono empie guerre. Risorgono nuovamente i partiti ed io ripercorro ancora una volta il mondo. Concedimi di contemplare nuovi lidi e una nuova terra: io ho già visto Filippi, o Febo». Dopo aver detto ciò, giacque esausta, abbandonata dall’invasamento profetico del dio.

Pharsalia, I, 1, 498-595

Qualis, cum turbidus Auster
reppulit a Libycis inmensum Syrtibus aequor

500
fractaque veliferi sonuerunt pondera mali,
desilit in fluctus deserta puppe magister
navitaque et nondum sparsa conpage carinae
naufragium sibi quisque facit, sic urbe relicta
in bellum fugitur. nullum iam languidus aevo

505
evaluit revocare parens coniunxve maritum
fletibus, aut patrii, dubiae dum vota salutis
conciperent, tenuere lares; nec limine quisquam
haesit et extremo tunc forsitan urbis amatae
plenus abit visu: ruit inrevocabile volgus.

510
o faciles dare summa deos eademque tueri
difficiles! urbem populis victisque frequentem
gentibus et generis, coeat si turba, capacem
humani facilem venturo Caesare praedam
ignavae liquere manus. cum pressus ab hoste

515
clauditur externis miles Romanus in oris,
effugit exiguo nocturna pericula vallo,
et subitus rapti munimine caespitis agger
praebet securos intra tentoria somnos:
tu tantum audito bellorum nomine, Roma,

520
desereris; nox una tuis non credita muris.
danda tamen venia est tantorum danda pavorum:
Pompeio fugiente timent.
tum, nequa futuri
spes saltem trepidas mentes levet, addita fati
peioris manifesta fides, superique minaces

525
prodigiis terras inplerunt, aethera, pontum.
ignota obscurae viderunt sidera noctes
ardentemque polum flammis caeloque volantes
obliquas per inane faces crinemque timendi
sideris et terris mutantem regna cometen.

530
fulgura fallaci micuerunt crebra sereno,
et varias ignis denso dedit aere formas,
nunc iaculum longo, nunc sparso lumine lampas.
emicuit caelo tacitum sine nubibus ullis
fulmen et Arctois rapiens de partibus ignem

535
percussit Latiare caput, stellaeque minores
per vacuum solitae noctis decurrere tempus
in medium venere diem, cornuque coacto
iam Phoebe toto fratrem cum redderet orbe
terrarum subita percussa expalluit umbra.

540
ipse caput medio Titan cum ferret Olympo
condidit ardentis atra caligine currus
involvitque orbem tenebris gentesque coegit
desperare diem; qualem fugiente per ortus
sole Thyesteae noctem duxere Mycenae.

545
ora ferox Siculae laxavit Mulciber Aetnae,
nec tulit in caelum flammas sed vertice prono
ignis in Hesperium cecidit latus. atra Charybdis
sanguineum fundo torsit mare; flebile saevi
latravere canes. Vestali raptus ab ara

550
ignis, et ostendens confectas flamma Latinas
scinditur in partes geminoque cacumine surgit
Thebanos imitata rogos. tum cardine tellus
subsedit, veteremque iugis nutantibus Alpes
discussere nivem. Tethys maioribus undis

555
Hesperiam Calpen summumque inplevit Atlanta.
indigetes flevisse deos, urbisque laborem
testatos sudore Lares, delapsaque templis
dona suis, dirasque diem foedasse volucres
accipimus, silvisque feras sub nocte relictis

560
audaces media posuisse cubilia Roma.
tum pecudum faciles humana ad murmura linguae,
monstrosique hominum partus numeroque modoque
membrorum, matremque suus conterruit infans;
diraque per populum Cumanae carmina vatis

565
volgantur. tum, quos sectis Bellona lacertis
saeva movet, cecinere deos, crinemque rotantes
sanguineum populis ulularunt tristia Galli.
conpositis plenae gemuerunt ossibus urnae.
tum fragor armorum magnaeque per avia voces

570
auditae nemorum et venientes comminus umbrae.
quique colunt iunctos extremis moenibus agros
diffugiunt: ingens urbem cingebat Erinys
excutiens pronam flagranti vertice pinum
stridentisque comas, Thebanam qualis Agaven

575
inpulit aut saevi contorsit tela Lycurgi
Eumenis, aut qualem iussu Iunonis iniquae
horruit Alcides viso iam Dite Megaeram.
insonuere tubae et, quanto clamore cohortes
miscentur, tantum nox atra silentibus auris

580
edidit. e medio visi consurgere Campo
tristia Sullani cecinere oracula manes,
tollentemque caput gelidas Anienis ad undas
agricolae fracto Marium fugere sepulchro.

haec propter placuit Tuscos de more vetusto

585
acciri vates. quorum qui maximus aevo
Arruns incoluit desertae moenia Lucae,
fulminis edoctus motus venasque calentis
fibrarum et monitus errantis in aere pinnae,
monstra iubet primum quae nullo semine discors

590
protulerat natura rapi sterilique nefandos
ex utero fetus infaustis urere flammis.
mox iubet et totam pavidis a civibus urbem
ambiri et festo purgantes moenia lustro
longa per extremos pomeria cingere fines

595
pontifices, sacri quibus est permissa potestas.

Come, allorché il torbido austro respinge dalle libiche Sirti il mare sconfinato e l’albero con le vele, che ormai non regge più, scricchiola sinistramente, il timoniere e i marinai, abbandonata la nave, si gettano in acqua e, pur non essendosi ancora infranta la struttura dell’imbarcazione, ciascuno diviene un naufrago – così lasciano la città e fuggono verso la guerra. Ormai il vecchio padre non riesce a richiamare il figlio né la sposa in pianti il coniuge, né riescono a trattenerli i patri Lari, anche solo per il tempo di far voti per la salvezza che già vedono in forse; nessuno si ferma sulla soglia di casa; si allontanano senza gettare un intenso sguardo, che forse sarebbe stato l’ultimo, all’amata città: si precipita la folla che non può essere trattenuta. O dèi, larghi nel concedere il massimo, ma scarsamente disposti a mantenerlo! Mentre Cesare incombe, vili mani abbandonano, facile preda, una città piena di popolazioni e di genti vinte e in grado di contenere l’intero genere umano, se esso vi si raccogliesse. Allorché il soldato romano si trova chiuso e assediato dal nemico in lande straniere, evita i pericoli notturni con una trincea non grande e un terrapieno messo su alla buona con la difesa di zolle strappate in fretta gli consente di dormire tranquillamente nella sua tenda: tu invece, o Roma, vieni abbandonata, sol che si ascolti la parola guerra: nessuno vuol più trascorrere anche una sola notte fra le tue mura. Bisogna purtuttavia concedere una giustificazione – certamente! – a timori così grandi: essi hanno paura, dal momento che anche Pompeo fugge.
Allora, perché neanche una qualche speranza del futuro potesse essere di sollievo agli spiriti timorosi, si aggiunsero segni inequivocabili di un destino ben più tremendo e gli dèi minacciosi riempirono di prodigi la terra, il cielo, il mare. Le oscure notti scorsero astri sconosciuti e il cielo in fiamme e videro fuochi scorrere obliquamente nell’etere attraverso il vuoto e la coda della stella spaventevole, la cometa, che sovverte i regni sulla terra. Fulmini balenarono frequenti nell’ingannevole sereno e il fuoco disegnò le forme più strane nell’aria densa: ora con una lunga luce comparve un giavellotto, ora, con bagliore diffuso, una lampada. Il fulmine brillò silenziosamente in un cielo privo di nubi e, strappando il fuoco dalle zone nordiche, colpì la cima laziare e stelle più piccole, che solitamente scorrono attraverso il vuoto durante la notte, comparvero in pieno giorno e Febe, mentre, riuniti i corni, rifletteva con l’intero suo disco la luce del sole, si oscurò improvvisamente, colpita dall’ombra della terra. Il sole stesso, nel momento in cui sollevava il capo nel mezzo del cielo, nascose il suo carro fiammeggiante con un’oscura nebbia, avvolse di tenebre il mondo e costrinse gli uomini a disperare del giorno, come quando la Micene di Tieste, mentre l’astro fuggiva a ritroso, piombò nel buio della notte. Vulcano aprì con violenza le fauci del siculo Etna, ma non fece innalzare le fiamme verso il cielo: il fuoco, volgendosi verso il basso, si riversò sul fianco del vulcano dalla parte dell’Italia. La fosca Cariddi emise dal fondo del mare flutti sanguigni; i crudeli cani abbaiarono sinistramente. Il fuoco di Vesta si spense e la fiamma, che indicava la conclusione delle Ferie latine, si divise in due parti e si innalzò con una doppia punta, imitando i roghi di Tebe. Allora la terra si abbassò sul suo asse e le Alpi scossero via dai gioghi frementi le nevi eterne. Il mare sommerse con onde gigantesche l’occidentale Calpe e la sommità dell’Atlante. Si narra che gli dèi del luogo piansero ed i Lari testimoniarono, con il loro sudore, il travaglio della città; i doni votivi caddero giù dalle pareti dei templi, orrendi uccelli contaminarono la luce del giorno e le bestie feroci, abbandonate le selve, posero audacemente i loro giacigli nel centro della città. Allora la lingua delle bestie articolò con facilità parole umane, tra gli uomini si verificarono nascite mostruose per il numero e per la forma delle membra e il neonato atterrì la propria madre; tra la gente si diffusero i tristi responsi della Sibilla cumana. Allora coloro che sono eccitati dalla crudele Bellona e si feriscono le braccia proclamarono il volere degli dèi e i Galli, scuotendo i capelli insanguinati, annunciarono lugubremente sciagure alle genti. Le tombe, contenenti i corpi che vi erano stati composti, gemettero. Allora si udirono, nei luoghi più impenetrabili delle selve, clangore di armi e voci possenti: fantasmi si avvicinarono rapidamente e coloro che coltivavano i campi del suburbio fuggirono in preda al terrore. Un’immane Erinni circondava la città, agitando un pino rovesciato con la punta in fiamme e la chioma sibilante, così come l’Eumènide penetrò nella tebana Agàve o vibrò i dardi del crudele Licurgo o come Ercole, che pur aveva veduto Dite, fu atterrito, per ordine dell’iniqua Giunone, da Megèra. Risuonarono squilli di trombe e la nera notte produsse nell’aria silenziosa il medesimo fragore di due eserciti che si scontrano. Fu visto il fantasma di Silla sorgere dal centro del Campo Marzio e predire sinistri responsi e i contadini fuggirono alla vista di Mario, il quale, infranto il sepolcro, sollevava il capo presso le fredde onde dell’Aniene.
A motivo di tutti questi avvenimenti si decretò di far intervenire, secondo l’antica consuetudine, gli aruspici etruschi. Il più vecchio di essi, Arrunte, che abitava le mura di Lucca deserta, esperto nell’interpretare i movimenti della folgore e le calde vene delle fibre e i presagi degli uccelli erranti nell’aria, ordina per prima cosa di eliminare i parti mostruosi, che la natura, che non seguiva più le sue leggi, aveva generato senza alcun seme, e di bruciare con fiamme funeste gli orrendi prodotti di uteri infecondi. Subito dopo comanda ai cittadini impauriti di fare il giro dell’intera città e ai sacerdoti, cui spettavano i sacrifici, di percorrere il lungo pomèrio agli estremi confini dell’Urbe, purificando le mura con una solenne processione.

Pharsalia, I, 1, 402-498

Solvuntur flavi longa statione Ruteni;
mitis Atax Latias gaudet non ferre carinas
finis et Hesperiae, promoto limite, Varus;

405
quaque sub Herculeo sacratus nomine portus
urguet rupe cava pelagus: non Corus in illum
ius habet aut Zephyrus, solus sua litora turbat
Circius et tuta prohibet statione Monoeci:
quaque iacet litus dubium quod terra fretumque

410
vindicat alternis vicibus, cum funditur ingens
Oceanus vel cum refugis se fluctibus aufert.
ventus ab extremo pelagus sic axe volutet
destituatque ferens, an sidere mota secundo
Tethyos unda vagae lunaribus aestuet horis,

415
flammiger an Titan, ut alentes hauriat undas,
erigat Oceanum fluctusque ad sidera ducat,
quaerite, quos agitat mundi labor; at mihi semper
tu, quaecumque moves tam crebros causa meatus,
ut superi voluere, late. tum rura Nemetis

420
qui tenet et ripas Atyri, qua litore curvo
molliter admissum claudit Tarbellicus aequor,
signa movet, gaudetque amoto Santonus hoste
et Biturix longisque leves Suessones in armis,
optimus excusso Leucus Remusque lacerto,

425
optima gens flexis in gyrum Sequana frenis,
et docilis rector monstrati Belga covinni,
Arvernique, ausi Latio se fingere fratres
sanguine ab Iliaco populi, nimiumque rebellis
Nervius et caesi pollutus foedere Cottae,

430
et qui te laxis imitantur, Sarmata, bracis
Vangiones, Batavique truces, quos aere recurvo
stridentes acuere tubae; qua Cinga pererrat
gurgite, qua Rhodanus raptum velocibus undis
in mare fert Ararim, qua montibus ardua summis

435
gens habitat cana pendentes rupe Cebennas.

441
tu quoque laetatus converti proelia, Trevir,
et nunc tonse Ligur, quondam per colla decore
crinibus effusis toti praelate Comatae,
et quibus inmitis placatur sanguine diro

445
Teutates horrensque feris altaribus Esus
et Taranis Scythicae non mitior ara Dianae.
vos quoque, qui fortes animas belloque peremptas
laudibus in longum vates dimittitis aevum,
plurima securi fudistis carmina, Bardi.

450
et vos barbaricos ritus moremque sinistrum
sacrorum, Dryadae, positis repetistis ab armis.
solis nosse deos et caeli numina vobis
aut solis nescire datum; nemora alta remotis
incolitis lucis; vobis auctoribus umbrae

455
non tacitas Erebi sedes Ditisque profundi
pallida regna petunt: regit idem spiritus artus
orbe alio; longae, canitis si cognita, vitae
mors media est. certe populi quos despicit Arctos
felices errore suo, quos ille timorum

460
maximus haut urguet leti metus. inde ruendi
in ferrum mens prona viris animaeque capaces
mortis, et ignavum rediturae parcere vitae.
et vos, crinigeros Belgis arcere Caycos
oppositi, petitis Romam Rhenique feroces

465
deseritis ripas et apertum gentibus orbem.

Caesar, ut inmensae conlecto robore vires
audendi maiora fidem fecere, per omnem
spargitur Italiam vicinaque moenia conplet.
vana quoque ad veros accessit fama timores

470
inrupitque animos populi clademque futuram
intulit et velox properantis nuntia belli
innumeras solvit falsa in praeconia linguas.
est qui tauriferis ubi se Mevania campis
explicat audaces ruere in certamina turmas

475
adferat, et qua Nar Tiberino inlabitur amni
barbaricas saevi discurrere Caesaris alas;
ipsum omnes aquilas conlataque signa ferentem
agmine non uno densisque incedere castris.
nec qualem meminere vident: maiorque ferusque

480
mentibus occurrit victoque inmanior hoste.
hunc inter Rhenum populos Albimque iacentes
finibus Arctois patriaque a sede revolsos
pone sequi, iussamque feris a gentibus urbem
Romano spectante rapi. sic quisque pavendo

485
dat vires famae, nulloque auctore malorum
quae finxere timent. nec solum volgus inani
percussum terrore pavet, sed curia et ipsi
sedibus exiluere patres, invisaque belli
consulibus fugiens mandat decreta senatus.

490
tum, quae tuta petant et quae metuenda relinquant
incerti, quo quemque fugae tulit impetus urguent
praecipitem populum, serieque haerentia longa
agmina prorumpunt. credas aut tecta nefandas
corripuisse faces aut iam quatiente ruina

495
nutantes pendere domos, sic turba per urbem
praecipiti lymphata gradu, velut unica rebus
spes foret adflictis patrios excedere muros,
inconsulta ruit.

I biondi Ruteni vengono liberati dal presidio romano, che da lungo tempo risiedeva sul loro territorio. Sono lieti di non dover più sopportare le navi latine il mite Àtace e il Varo, divenuto frontiera d’Italia per l’avanzamento dei confini; ci si rallegra dove il porto consacrato sotto il nome di Ercole incombe sul mare con le sue cave rupi (né il coro né lo zefiro possono qualcosa su di esso: soltanto il circio sconvolge le sue spiagge e tien lontane le navi dal sicuro approdo a Monaco) e dove si trova l’incerto lido, che la terra e il mare rivendicano a sé con successione alterna, quando il grande Oceano avanza o indietreggia con i flutti che si ritirano. Se si tratti di un vento che, soffiando dall’estremo orizzonte, sconvolga il mare e poi lo abbandoni o se sia il flutto della vagante superficie, spinto da un corpo celeste, a gonfiarsi durante il periodo lunare o se sia l’infuocato sole, per assorbire le onde che gli servono di nutrimento, a far innalzare l’Oceano e a portarne i flutti alle stelle -, questo ricercatelo voi, che vi preoccupate di indagare il lavorio del mondo: per me rimani sempre nascosta, o causa, qualunque tu sia, che provochi movimenti così frequenti, seguendo la volontà degli dèi. Allora muovono le insegne i soldati che occupavano la zona dei Nemèti e le rive dell’Atùrio, là dove la curva spiaggia dei Tarbelli racchiude il mare che vi si insinua dolcemente, e sono felici per l’allontanamento del nemico i Sàntoni, i Biturìgi e gli agili Suessiòni dalle lunghe armi, i Lèuci e i Remi abilissimi nello scagliare i giavellotti, i Sèquani espertissimi nel maneggio e nelle evoluzioni a cavallo e i Belgi che hanno imparato molto bene a guidare il carro da guerra escogitato dai Britanni e gli Arverni che ebbero l’ardire di definirsi fratelli dei Latini, come gente discesa dalla medesima stirpe troiana, e i Nervii spesso ribelli e coloro che si macchiarono del massacro di Cotta, infrangendo il patto, e i Vangìoni che ti imitano, o Sàrmata, con le larghe brache, e i truci Batàvi, che sono eccitati dal suono stridulo della tromba dal bronzo ricurvo; e là dove scorre il Cinga, dove il Rodano con veloci onde trascina in mare l’Àrari e dove una popolazione, alta sui monti, abita le impervie Cevenne, bianche di neve.
[I Pìttoni esenti da tributi coltivano i loro campi e gli accampamenti romani non circondano più gli erranti Tùroni. Gli Andi, stanchi di ammuffire fra le tue nebbie, o Meduana, ormai riprendono lena nei placidi flutti della Lòira. L’illustre Gènabo si libera delle truppe di Cesare]. Anche voi, o Trèviri, siete lieti che la guerra vada da un’altra parte e voi, Liguri, ora rasati e che eravate un tempo i guerrieri forniti di più abbondante capigliatura in tutta la Gallia chiomata, e quelli che placano con orrendi sacrifici di sangue il crudele Teutàte e il tremendo Eso sugli spaventevoli altari e Tàrani, il cui culto non è meno orribile di quello tributato alla scitica Diana. Anche voi, bardi, poeti che con le vostre lodi tramandate nei secoli le anime degli eroi caduti in guerra, recitaste, resi più sicuri, i vostri carmi, sempre più numerosi, e voi, o druidi, tornaste a ripetere i vostri riti barbarici e la sinistra consuetudine dei sacrifici, abbandonati al momento in cui avevate deposto le armi. A voi soltanto è concesso di conoscere gli dèi e le potenze del cielo o affermarle inconoscibili; voi abitate boschi profondi in remote foreste sacre. Secondo quanto voi sostenete, le ombre non scendono nelle silenziose sedi dell’Èrebo e nei pallidi dominî del profondo Dite: il medesimo spirito governa il nostro corpo in un altro mondo; se voi esprimete cose di cui siete ben sicuri, la morte rappresenta il punto mediano di una lunga vita. Popolazioni, queste, che vivono nel nord, felici della loro illusione, che non sono angosciate dalla paura della morte, il più grande dei timori: di qui la totale disponibilità per quegli uomini a gettarsi sul ferro nemico e gli spiriti disposti ad accogliere la morte e il ritenere viltà far grazia ad una vita che dovrà tornare. Anche voi, posti a tener lontani dalla guerra i Caìci zazzeruti, vi dirigete alla volta di Roma ed abbandonate le selvagge rive del Reno e un mondo ormai aperto alle incursioni.
Cesare, non appena il suo immenso esercito, fusosi in un sol blocco, gli infonde l’ardire di osare imprese maggiori, penetra attraverso l’intera Italia e ne occupa le città più prossime. Inoltre una falsa diceria si aggiunge ai timori reali e fa breccia nell’animo della gente, arrecando il presagio della disfatta futura e, rapida messaggera della guerra incombente, spinge innumerevoli voci ad annunci menzogneri. C’è chi riferisce che – là dove si estende la piana di Mevània produttrice di tori – squadroni di cavalleria si precipitano audacemente in battaglia e che, alla confluenza del Nera con il Tevere, reparti cesariani a cavallo scorrazzano barbaramente; e che lo stesso Cesare, trascinando tutte le aquile e le insegne, avanza con numerose schiere a marce forzate. Non lo scorgono come lo ricordavano: si presenta ai loro spiriti più grande, più feroce e più crudele del nemico vinto. Si mormora che gli tengan dietro, strappati alle terre nordiche e alle patrie sedi, i popoli stanziati fra il Reno e le Alpi: a quelle feroci popolazioni è stato ordinato di saccheggiare l’Urbe sotto gli occhi degli stessi Romani. Così ciascuno alimenta con il suo timore le dicerie e tutti temono quel che hanno inventato, senza che vi sia alcunché di vero. E non soltanto il volgo è in preda ad un violento, quanto ingiustificato, terrore, ma anche la curia e gli stessi senatori saltano giù dai loro scanni ed il Senato in fuga affida ai consoli gli ingrati provvedimenti concernenti la guerra. Allora, incerti verso quali luoghi sicuri dirigersi e quali invece, ritenuti pericolosi, evitare, incalzano la turba che fugge disordinatamente là dove l’impeto della rotta spinge ognuno: traboccano lunghe, ininterrotte schiere di cittadini. Crederesti o che sacrileghe fiaccole abbiano appiccato fuoco alle case o che gli edifici, sotto una squassante percossa, siano sul punto di crollare: così la folla, fuggendo come impazzita a precipizio attraverso la città, si precipita fuori sconsideratamente come se l’unica via di scampo alla situazione perigliosa fosse quella di uscire dalle patrie mura.

Pharsalia, I, 1, 296-401

Convocat armatos extemplo ad signa maniplos,
utque satis trepidum turba coeunte tumultum
conposuit voltu dextraque silentia iussit
‘bellorum o socii, qui mille pericula Martis

300
mecum’ ait ‘experti decimo iam vincitis anno,
hoc cruor Arctois meruit diffusus in arvis
volneraque et mortes hiemesque sub Alpibus actae?
non secus ingenti bellorum Roma tumultu
concutitur, quam si Poenus transcenderit Alpes

305
Hannibal: inplentur validae tirone cohortes,
in classem cadit omne nemus, terraque marique
iussus Caesar agi. quid, si mihi signa iacerent
Marte sub adverso ruerentque in terga feroces
Gallorum populi? nunc, cum fortuna secundis

310
mecum rebus agat superique ad summa vocantes,
temptamur. veniat longa dux pace solutus
milite cum subito partesque in bella togatae
Marcellusque loquax et nomina vana Catones.
scilicet extremi Pompeium emptique clientes

315
continuo per tot satiabunt tempora regno?
ille reget currus nondum patientibus annis,
ille semel raptos numquam dimittet honores?
quid iam rura querar totum suppressa per orbem
ac iussam servire famem? quis castra timenti

320
nescit mixta foro, gladii cum triste micantes
iudicium insolita trepidum cinxere corona
atque auso medias perrumpere milite leges
Pompeiana reum clauserunt signa Milonem?
nunc quoque, ne lassum teneat privata senectus,

325
bella nefanda parat suetus civilibus armis
et docilis Sullam scelerum vicisse magistrum.
utque ferae tigres numquam posuere furorem,
quas, nemore Hyrcano matrum dum lustra secuntur,
altus caesorum pavit cruor armentorum,

330
sic et Sullanum solito tibi lambere ferrum
durat, magne, sitis. nullus semel ore receptus
pollutas patitur sanguis mansuescere fauces.
quem tamen inveniet tam longa potentia finem?
quis scelerum modus est? ex hoc iam te, inprobe, regno

335
ille tuus saltem doceat descendere Sulla.
post Cilicasne vagos et lassi Pontica regis
proelia barbarico vix consummata veneno
ultima Pompeio dabitur provincia Caesar,
quod non victrices aquilas deponere iussus

340
paruerim? mihi si merces erepta laborum est,
his saltem longi non cum duce praemia belli
reddantur; miles sub quolibet iste triumphet.
conferet exanguis quo se post bella senectus?
quae sedes erit emeritis? quae rura dabuntur

345
quae noster veteranus aret, quae moenia fessis?
an melius fient piratae, Magne, coloni?
tollite iam pridem victricia tollite signa:
viribus utendum est quas fecimus. arma tenenti
omnia dat, qui iusta negat. nec numina derunt;

350
nam neque praeda meis neque regnum quaeritur armis:
detrahimus dominos urbi servire paratae.’

dixerat; at dubium non claro murmure volgus
secum incerta fremit. pietas patriique penates
quamquam caede feras mentes animosque tumentes

355
frangunt; sed diro ferri revocantur amore
ductorisque metu. summi tum munera pili
Laelius emeritique gerens insignia doni,
servati civis referentem praemia quercum,
‘si licet,’ exclamat ‘Romani maxime rector

360
nominis, et ius est veras expromere voces,
quod tam lenta tuas tenuit patientia vires
conquerimur. deratne tibi fiducia nostri?
dum movet haec calidus spirantia corpora sanguis
et dum pila valent fortes torquere lacerti,

365
degenerem patiere togam regnumque senatus?
usque adeo miserum est civili vincere bello?
duc age per Scythiae populos, per inhospita Syrtis
litora, per calidas Libyae sitientis harenas:
haec manus, ut victum post terga relinqueret orbem,

370
Oceani tumidas remo conpescuit undas
fregit et Arctoo spumantem vertice Rhenum:
iussa sequi tam posse mihi quam velle necesse est.
nec civis meus est, in quem tua classica, Caesar,
audiero. per signa decem felicia castris

375
perque tuos iuro quocumque ex hoste triumphos,
pectore si fratris gladium iuguloque parentis
condere me iubeas plenaeque in viscera partu
coniugis, invita peragam tamen omnia dextra;
si spoliare deos ignemque inmittere templis,

380
numina miscebit castrensis flamma monetae;
castra super Tusci si ponere Thybridis undas,
Hesperios audax veniam metator in agros.
tu quoscumque voles in planum effundere muros,
his aries actus disperget saxa lacertis,

385
illa licet, penitus tolli quam iusseris urbem,
Roma sit.’ his cunctae simul adsensere cohortes
elatasque alte, quaecumque ad bella vocaret,
promisere manus. it tantus ad aethera clamor,
quantus, piniferae Boreas cum Thracius Ossae

390
rupibus incubuit, curvato robore pressae
fit sonus aut rursus redeuntis in aethera silvae.

Caesar, ut acceptum tam prono milite bellum
fataque ferre videt, nequo languore moretur
fortunam, sparsas per Gallica rura cohortes

395
evocat et Romam motis petit undique signis.
deseruere cavo tentoria fixa Lemanno
castraque quae Vosegi curvam super ardua ripam
pugnaces pictis cohibebant Lingonas armis.
hi vada liquerunt Isarae, qui, gurgite ductus

400
per tam multa suo, famae maioris in amnem
lapsus ad aequoreas nomen non pertulit undas.

Immediatamente Cesare adunò presso le insegne i manipoli armati e, come riuscì a placare con l’espressione del suo volto il tumulto ansioso della truppa che si raccoglieva e riuscì ad imporre il silenzio con la destra, così parlò: «O compagni di lotta, che, sperimentando con me i mille pericoli del combattimento, vincete ormai da dieci anni, questo ha meritato il sangue sparso nei campi settentrionali e le ferite e le morti e gli inverni trascorsi ai piedi delle Alpi? Roma è squassata da un grande sommovimento di guerra, non diversamente che se il cartaginese Annibale avesse superato le Alpi: le coorti vengono rese più forti con l’aggiunta di reclute, il legno di tutti i boschi viene utilizzato per costruire una flotta e si comanda di incalzare Cesare per terra e per mare. Che cosa accadrebbe se le mie insegne fossero travolte da una sconfitta e le feroci popolazioni galliche mi assalissero alle spalle? Proprio adesso siamo attaccati, ora che la Fortuna mi è favorevole e che gli dèi ci chiamano a cose altissime. Venga al combattimento quel condottiero infrollito da un lungo periodo di pace con truppe raccogliticce e il suo partito in toga e il loquace Marcello e, vuoti nomi, i Catoni. Senza alcun dubbio saranno i clienti più infimi e prezzolati a saziare per tanto tempo la brama pompeiana di potere ininterrotto! Egli guiderà il carro del trionfo pur senza avere l’età prevista dalla legge e, una volta strappato il potere, non lo abbandonerà più! Perché piangere sulle campagne devastate in tutto il mondo e sul popolo affamato costretto a divenire schiavo? Chi non sa delle truppe installatesi nel foro impaurito, quando le spade, con un luccichio sinistro, circondarono con un insolito cordone protettivo un tribunale terrorizzato, e, allorché i soldati osarono irrompere nel bel mezzo del processo, le insegne di Pompeo si strinsero intorno al colpevole Milone? Anche ora, affinché la vecchiaia non lo renda un cittadino stanco ed appartato, egli, ormai abituato ai conflitti civili, appresta guerre nefande, egli che ha ben imparato a superare Silla, maestro di scelleratezze; e come sono sempre in preda al furore le feroci tigri, che nelle selve di Ircània, mentre cercano rifugio nelle tane delle madri, si nutrono abbondantemente del sangue degli armenti scannati, così anche a te rimane la sete, o Grande, abituato a leccare il ferro di Silla: il sangue, una volta che la bocca lo abbia gustato, non consente che le fauci, lordatesene, si ammansiscano. Purtuttavia qual fine avrà un così lungo strapotere? Quale sarà il limite dei delitti? Almeno, o empio, il tuo Silla ti insegni ormai a discendere da codesto tuo potere. Dopo i Cìlici erranti e le battaglie sostenute con lo stanco re del Ponto e che ebbero a stento termine grazie al veleno barbarico, io, Cesare, sarò dato come ultima provincia a Pompeo, poiché non avrò obbedito all’ordine di deporre le aquile vittoriose? Se mi è stata strappata la ricompensa delle mie fatiche, si concedano almeno a costoro, pur senza che io sia più il loro capo, il premio di una lunga guerra: questi soldati ottengano il trionfo sotto qualsiasi guida. Dove si ritirerà, terminate le guerre, la loro esausta vecchiaia? Quale sede essi, una volta congedati, occuperanno? Quali campi saranno dati da arare ai nostri veterani, quali mura a loro ormai stanchi? O forse, ancor meglio, i pirati diverranno coloni? Sollevate, sollevate le insegne, ormai da tempo vittoriose; è necessario servirsi delle forze, che siamo riusciti ad acquisire: colui che nega il dovuto concede tutto a chi impugna le armi. Né verrà meno l’assistenza celeste, dal momento che non cerco con le mie armi né preda né dominio: sottraiamo i tiranni alla città già pronta a divenir schiava».
Così parlò. La truppa dubbiosa si agitava, con un sordo brusio, in preda all’incertezza: la devozione per la famiglia faceva breccia negli animi, per quanto resi feroci dalle stragi, e negli spiriti orgogliosi, ma d’altra parte essi erano trascinati dal crudele amore delle armi e dal timore che provavano nei confronti del loro condottiero. A questo punto Lelio, che recava i gradi di primipìlo ed era insignito delle fronde di quercia, che si riferivano al salvataggio di un cittadino, esclamò: «Se è consentito e conforme al diritto, o massimo reggitore del nome romano, esprimere con sincerità quel che penso, noi ci lamentiamo del fatto che la tua pazienza ha tenuto ferme per tanto tempo le tue forze. Ti era forse venuta meno la fiducia in noi? Mentre il caldo sangue muove questi nostri corpi pronti ad agire e le nostre forti braccia sono in grado di scagliare giavellotti, sopporterai uno che indossa la toga in maniera indegna della propria origine e lo strapotere del Senato? È dunque meschino fino a questo punto vincere in un conflitto civile? Orsù, guidaci attraverso le popolazioni della Scizia, attraverso i guadi infidi delle Sirti, attraverso le torride sabbie della Libia assetata: questo braccio, per lasciarsi dietro il mondo sottomesso, ha tenuto a freno con il remo le gonfie onde dell’Oceano ed ha infranto la violenza del Reno spumeggiante sotto il cielo del nord: è necessario che per me sia la medesima cosa potere e voler eseguire i tuoi comandi. Né è un mio concittadino colui contro il quale udrò squillare la tua tromba, o Cesare. Per le tue insegne vittoriose in dieci campagne e per i tuoi trionfi conseguiti su ogni tipo di nemico, io proferisco questo giuramento: se tu mi ordinassi di immergere la spada nel petto del fratello o nella gola del padre o nelle viscere della moglie gravida, eseguirei accuratamente i tuoi ordini, pur con la destra riluttante; se mi comandassi di spogliare gli dèi e di appiccar fuoco ai templi, la fiamma della zecca castrense fonderebbe le statue delle divinità; se mi ordinassi di porre l’accampamento nei pressi dell’etrusco Tevere, andrei avanti, audace misuratore di confini, nei campi italici. L’ariete, sospinto da queste mie braccia, abbatterà i massi di tutte quelle mura che tu vorrai radere al suolo, anche se dovesse essere Roma la città, che tu avrai deciso di scalzare dalle fondamenta». A queste parole diedero il loro immediato assenso tutte le coorti e, alzate le mani, le promisero a qualunque guerra egli le avesse chiamate. Tale si innalza al cielo un clamore, quale – allorché il tracio borea si abbatte sulle rocce dell’Ossa pieno di pini – il rumore con cui gli alberi della selva si piegano e nuovamente si innalzano verso il cielo.
Cesare, non appena si accorge che i soldati sono totalmente disposti alla guerra e che i fati incalzano, – per non trattenere con un qualche indugio la Fortuna – richiama le coorti sparse per le terre di Gallia e, tolte le insegne, converge da ogni parte su Roma. I soldati Romani abbandonano le tende piantate nell’insenatura del Lemanno e gli accampamenti che, innalzantisi sul curvo fianco dei Vosgi, tenevano a bada i bellicosi Lìngoni dalle armi variopinte. Altri lasciano i guadi dell’ÃŒsara, che, scorrendo per un lungo percorso con acque sue, confluisce in un fiume molto più conosciuto e non mantiene fino allo sbocco in mare il suo nome.

Pharsalia, I, 1, 200-295

Non te furialibus armis
persequor: en, adsum victor terraque marique
Caesar, ubique tuus (liceat modo, nunc quoque) miles.
ille erit ille nocens, qui me tibi fecerit hostem.’

inde moras solvit belli tumidumque per amnem

205
signa tulit propere: sicut squalentibus arvis
aestiferae Libyes viso leo comminus hoste
subsedit dubius, totam dum colligit iram;
mox, ubi se saevae stimulavit verbere caudae
erexitque iubam et vasto grave murmur hiatu

210
infremuit, tum torta levis si lancea Mauri
haereat aut latum subeant venabula pectus,
per ferrum tanti securus volneris exit.
fonte cadit modico parvisque inpellitur undis
puniceus Rubicon, cum fervida canduit aestas,

215
perque imas serpit valles et Gallica certus
limes ab Ausoniis disterminat arva colonis.
tum vires praebebat hiemps atque auxerat undas
tertia iam gravido pluvialis Cynthia cornu
et madidis Euri resolutae flatibus Alpes.

220
primus in obliquum sonipes opponitur amnem
excepturus aquas; molli tum cetera rumpit
turba vado faciles iam fracti fluminis undas.

Caesar, ut adversam superato gurgite ripam
attigit, Hesperiae vetitis et constitit arvis,

225
‘hic’ ait ‘hic pacem temerataque iura relinquo;
te, Fortuna, sequor. procul hinc iam foedera sunto;
credidimus satis , utendum est iudice bello.’
sic fatus noctis tenebris rapit agmina ductor
inpiger, et torto Balearis verbere fundae

230
ocior et missa Parthi post terga sagitta,
vicinumque minax invadit Ariminum, et ignes
solis Lucifero fugiebant astra relicto.
iamque dies primos belli visura tumultus
exoritur; sed sponte deum, seu turbidus Auster

235
inpulerat, maestam tenuerunt nubila lucem.
constitit ut capto iussus deponere miles
signa foro, stridor lituum clangorque tubarum
non pia concinuit cum rauco classica cornu.
rupta quies populi, stratisque excita iuventus

240
deripuit sacris adfixa penatibus arma
quae pax longa dabat: nuda iam crate fluentis
invadunt clipeos curvataque cuspide pila
et scabros nigrae morsu robiginis enses.
ut notae fulsere aquilae Romanaque signa

245
et celsus medio conspectus in agmine Caesar,
deriguere metu, gelidos pavor occupat artus,
et tacito mutos volvunt in pectore questus.
‘o male vicinis haec moenia condita Gallis,
o tristi damnata loco! pax alta per omnes

250
et tranquilla quies populos: nos praeda furentum
primaque castra sumus. melius, Fortuna, dedisses
orbe sub Eoo sedem gelidaque sub Arcto
errantisque domos, Latii quam claustra tueri.
nos primi Senonum motus Cimbrumque ruentem

255
vidimus et Martem Libyes cursumque furoris
Teutonici: quotiens Romam fortuna lacessit,
hac iter est bellis.’ gemitu sic quisque latenti,
non ausus timuisse palam: vox nulla dolori
credita, sed quantum, volucres cum bruma coercet,

260
rura silent, mediusque tacet sine murmure pontus,
tanta quies.

noctis gelidas lux solverat umbras:
ecce, faces belli dubiaeque in proelia menti
urguentes addunt stimulos cunctasque pudoris
rumpunt fata moras: iustos Fortuna laborat

265
esse ducis motus et causas invenit armis.
expulit ancipiti discordes urbe tribunos
victo iure minax iactatis curia Gracchis.
hos iam mota ducis vicinaque signa petentes
audax venali comitatur Curio lingua,

270
vox quondam populi libertatemque tueri
ausus et armatos plebi miscere potentes.
utque ducem varias volventem pectore curas
conspexit ‘dum voce tuae potuere iuvari,
Caesar,’ ait ‘partes, quamvis nolente senatu

275
traximus imperium, tum cum mihi rostra tenere
ius erat et dubios in te transferre Quirites.
at postquam leges bello siluere coactae
pellimur e patriis laribus patimurque volentes
exilium: tua nos faciet victoria cives.

280
dum trepidant nullo firmatae robore partes,
tolle moras: semper nocuit differre paratis.
[par labor atque metus pretio maiore petuntur.]
bellantem geminis tenuit te Gallia lustris,
pars quota terrarum! facili si proelia pauca

285
gesseris eventu, tibi Roma subegerit orbem.
nunc neque te longi remeantem pompa triumphi
excipit aut sacras poscunt Capitolia laurus:
livor edax tibi cuncta negat, gentesque subactas
vix inpune feres. socerum depellere regno

290
decretum genero est: partiri non potes orbem,
solus habere potes.’ sic postquam fatus, et ipsi
in bellum prono tantum tamen addidit irae
accenditque ducem, quantum clamore iuvatur
Eleus sonipes, quamvis iam carcere clauso

295
inmineat foribus pronusque repagula laxet.

Non mi lancio contro di te con le armi delle Furie: ecco, io Cesare son qui, vincitore in terra e in mare, dovunque, e anche ora (purché me ne sia data la possibilità), tuo soldato. Il vero colpevole sarà colui, che mi ti renderà nemico». Subito dopo ruppe gli indugi della guerra e fece passare rapidamente le insegne attraverso il fiume gonfio: come, nei desolati campi della Libia infuocata, un leone, scorto un nemico da presso, si ferma incerto, mentre raccoglie tutta la sua ira, e poi, spronandosi con forti colpi di coda, drizza la criniera ed emette dalle grandi fauci un profondo ruggito, allora, anche se una lancia vibrata da un agile Mauro si infigge nel suo corpo o se gli spiedi gli si conficcano nel largo petto, balza, incurante di così vaste ferite, tra le armi.Il rosseggiante Rubicone nasce da una piccola fonte e procede con brevi onde, allorquando brucia la fervida estate, e scorre nel fondo delle valli e si pone, come esatto confine, tra i campi gallici e le terre occupate dai coloni italici. Allora esso era reso più forte dall’inverno e ne avevano accresciuto il corso il terzo giorno del novilunio con la sua falce apportatrice di molta pioggia e la neve delle Alpi che si scioglieva agli umidi soffi dell’euro. Per prima la cavalleria si dispose trasversalmente alla corrente del fiume, pronta a sostenere l’urto delle onde: quindi il resto dell’esercito passò, guadando facilmente le acque del fiume, la cui violenza era stata infranta.
Cesare, non appena, superato il fiume, toccò l’altra riva e si fermò nei campi italici, che gli erano stati interdetti, disse: «Qui, in questo momento, abbandono la pace e il diritto calpestato: seguo te, o Fortuna. Ormai i patti non abbiano più valore: ci siamo affidati al destino; che sia la guerra a giudicare». Detto questo, il condottiero trascina instancabile il suo esercito con il favore delle tenebre, procede più veloce del colpo lanciato dalla fionda baleare e della freccia scagliata dal Parto, che si volge improvvisamente, e incombe minaccioso sulla vicina Rimini. Gli astri, abbandonato Lucìfero, fuggivano i raggi del sole e ormai sorgeva il giorno che avrebbe visto i primi sconvolgimenti della guerra: le nubi si opposero a quella triste luce sia che gli dèi avessero così deciso sia che esse fossero state spinte via dall’austro burrascoso. Non appena i soldati, conquistato il foro, ebbero l’ordine di porvi le insegne, lo stridore dei litui e il clangore delle trombe fecero risuonare, insieme ai rauci corni, l’empio segnale di guerra. La gente ne fu sconvolta e i giovani, balzati giù dai letti, dettero di piglio alle armi appese ai sacri Penati, così come le trovavano dopo un lungo periodo di pace: afferrarono gli scudi, la cui protezione esterna cadde a pezzi, e i giavellotti senza più punta e le spade ruvide per l’effetto della nera ruggine. Allorquando rifulsero le ben note aquile e le insegne romane ed essi scorsero, al centro delle schiere, Cesare in posizione eminente, si irrigidirono per la paura e il terrore si impadronì delle membra divenute fredde; essi allora volsero nel cuore silenziosi lamenti: «O queste nostre mura infelicemente innalzate in prossimità dei Galli e condannate da una infausta localizzazione! Tutti i popoli godono di una pace duratura e di una grande tranquillità: noi invece siamo preda e primo luogo di scontro di avversari impazziti. Meglio, o Fortuna, ci avresti fornito una sede nella zona orientale ed erranti dimore nel gelido nord piuttosto che renderci sorveglianti delle porte del Lazio. Noi per primi abbiamo assistito alle invasioni dei Sènoni, all’irrompere dei Cimbri, alla guerra d’Africa e al dispiegarsi della rabbia teutonica: tutte le volte che la Fortuna ha trascinato Roma in guerra, la via per il conflitto è passata per di qua». Così ciascuno con gemiti nascosti, dal momento che non osò palesare il timore: il dolore non si manifestò e la quiete fu la stessa di quando i campi sono silenziosi, allorché gli uccelli sono muti per il freddo, e di quando il mare tace senza un mormorio.
La luce aveva dissolto le gelide ombre della notte ed ecco che i fati incalzano con le fiamme della guerra, stimolano al combattimento gli animi ancora esitanti e spazzano via ogni scrupolo: la Fortuna si prende cura di giustificare le azioni di Cesare e trova motivi per il suo intervento armato. Infranto il diritto, il Senato, agitando minacciosamente il fantasma dei Gracchi, caccia dalla città ormai divisa nelle opposte fazioni i tribuni dissidenti. Essi, che si dirigono verso le insegne di Cesare, ormai in movimento e vicine, sono accompagnati dall’arrogante Curione, il quale metteva in vendita la sua abilità oratoria e che un tempo era espressione della volontà del popolo ed aveva avuto il coraggio di difendere la libertà e di mettere sullo stesso piano della plebe i potenti in armi. Quando egli scorse il condottiero, che volgeva nel suo cuore diversi pensieri, così lo apostrofò: «Finché il tuo partito, o Cesare, trasse giovamento dalla mia voce, siamo riusciti a prolungare il tuo potere, nonostante l’opposizione del Senato, allorquando mi era possibile parlare dalla tribuna e tirare dalla tua parte i Romani ancora esitanti. Ma da quando le leggi furono messe a tacere, schiacciate dalla guerra, siamo cacciati dalla patria e sopportiamo un esilio volontario: la tua vittoria ci renderà nuovamente cittadini. Mentre il partito contrario ondeggia, non rafforzato da alcun sostegno, rompi gli indugi: a quelli che son pronti ha sempre nuociuto rimandare. Una pari fatica ed un uguale timore sono ripagati con un risultato ben più importante: per dieci anni le tue cure di guerra sono state assorbite dalla Gallia (ben poca parte della terra!): se riuscirai a vincere poche battaglie, Roma avrà sottomesso per te il mondo. Ora, al tuo ritorno, non ti accoglie la pompa di un lungo trionfo né il Campidoglio richiede i sacri allori: una divorante invidia ti nega tutto e con grande difficoltà ti si riuscirà a perdonare di aver sottomesso tante popolazioni. Il genero ha stabilito di cacciare il suocero dal dominio: non puoi dividere il mondo, puoi possederlo da solo». Quando ebbe detto queste cose, accese una grande ira in lui, già di per se stesso pronto alla guerra, e lo infiammò così come viene eccitato dal clamore il destriero elèo, che già incalza alle porte dello steccato in cui è rinchiuso e cerca di forzarne le sbarre.

Pharsalia, I, 1, 100-200

Qualiter undas
qui secat et geminum gracilis mare separat Isthmos
nec patitur conferre fretum, si terra recedat,
Ionium Aegaeo frangat mare, sic, ubi saeva
arma ducum dirimens miserando funere Crassus

105
Assyrias Latio maculavit sanguine Carrhas,
Parthica Romanos solverunt damna furores.
plus illa vobis acie, quam creditis, actum est,
Arsacidae: bellum victis civile dedistis.
dividitur ferro regnum, populique potentis,

110
quae mare, quae terras, quae totum possidet orbem,
non cepit fortuna duos. nam pignora iuncti
sanguinis et diro ferales omine taedas
abstulit ad manes Parcarum Iulia saeva
intercepta manu. quod si tibi fata dedissent

115
maiores in luce moras, tu sola furentem
inde virum poteras atque hinc retinere parentem
armatasque manus excusso iungere ferro,
ut generos soceris mediae iunxere Sabinae.
morte tua discussa fides bellumque movere

120
permissum ducibus. stimulos dedit aemula virtus.
tu, nova ne veteres obscurent acta triumphos
et victis cedat piratica laurea Gallis,
Magne, times; te iam series ususque laborum
erigit inpatiensque loci fortuna secundi;

125
nec quemquam iam ferre potest Caesarve priorem
Pompeiusve parem. quis iustius induit arma
scire nefas: magno se iudice quisque tuetur;
victrix causa deis placuit sed victa Catoni.
nec coiere pares. alter vergentibus annis

130
in senium longoque togae tranquillior usu
dedidicit iam pace ducem, famaeque petitor
multa dare in volgus, totus popularibus auris
inpelli plausuque sui gaudere theatri,
nec reparare novas vires, multumque priori

135
credere fortunae. stat magni nominis umbra,
qualis frugifero quercus sublimis in agro
exuvias veteris populi sacrataque gestans
dona ducum nec iam validis radicibus haerens
pondere fixa suo est, nudosque per aera ramos

140
effundens trunco, non frondibus, efficit umbram,
et quamvis primo nutet casura sub Euro,
tot circum silvae firmo se robore tollant,
sola tamen colitur. sed non in Caesare tantum
nomen erat nec fama ducis, sed nescia virtus

145
stare loco, solusque pudor non vincere bello.
acer et indomitus, quo spes quoque ira vocasset,
ferre manum et numquam temerando parcere ferro,
successus urguere suos, instare favori
numinis, inpellens quidquid sibi summa petenti

150
obstaret gaudensque viam fecisse ruina,
qualiter expressum ventis per nubila fulmen
aetheris inpulsi sonitu mundique fragore
emicuit rupitque diem populosque paventes
terruit obliqua praestringens lumina flamma:

155
in sua templa furit, nullaque exire vetante
materia magnamque cadens magnamque revertens
dat stragem late sparsosque recolligit ignes.

hae ducibus causae; suberant sed publica belli
semina, quae populos semper mersere potentis.

160
namque, ut opes nimias mundo fortuna subacto
intulit et rebus mores cessere secundis
praedaque et hostiles luxum suasere rapinae,
non auro tectisve modus, mensasque priores
aspernata fames; cultus gestare decoros

165
vix nuribus rapuere mares; fecunda virorum
paupertas fugitur totoque accersitur orbe
quo gens quaeque perit; tum longos iungere fines
agrorum, et quondam duro sulcata Camilli
vomere et antiquos Curiorum passa ligones

170
longa sub ignotis extendere rura colonis.
non erat is populus quem pax tranquilla iuvaret,
quem sua libertas inmotis pasceret armis.
inde irae faciles et, quod suasisset egestas,
vile nefas, magnumque decus ferroque petendum

175
plus patria potuisse sua, mensuraque iuris
vis erat: hinc leges et plebis scita coactae
et cum consulibus turbantes iura tribuni;
hinc rapti fasces pretio sectorque favoris
ipse sui populus letalisque ambitus urbi

180
annua venali referens certamina Campo;
hinc usura vorax avidumque in tempora fenus
et concussa fides et multis utile bellum.

iam gelidas Caesar cursu superaverat Alpes
ingentisque animo motus bellumque futurum

185
ceperat. ut ventum est parvi Rubiconis ad undas,
ingens visa duci patriae trepidantis imago
clara per obscuram voltu maestissima noctem
turrigero canos effundens vertice crines
caesarie lacera nudisque adstare lacertis

190
et gemitu permixta loqui: ‘quo tenditis ultra?
quo fertis mea signa, viri? si iure venitis,
si cives, huc usque licet.’ tum perculit horror
membra ducis, riguere comae gressumque coercens
languor in extrema tenuit vestigia ripa.

195
mox ait ‘o magnae qui moenia prospicis urbis
Tarpeia de rupe Tonans Phrygiique penates
gentis Iuleae et rapti secreta Quirini
et residens celsa Latiaris Iuppiter Alba
Vestalesque foci summique o numinis instar

200
Roma, fave coeptis.

Come il sottile istmo, che taglia le acque e separa i due mari e non consente che i flutti si fondano (se la terra si ritirasse, lascerebbe infrangere il mare Ionio nell’Egeo), così, non appena Crasso – che teneva separate le crudeli armi dei capi – con la sua miseranda morte macchiò di sangue latino l’assiria Carre, il disastro partico scatenò il furore romano. O Arsàcidi, con quella battaglia avete ottenuto più di quanto crediate: avete dato ai vinti la guerra civile. Il dominio è diviso con le armi e la sorte di un popolo potente, che è padrone del mare, della terra e di tutto il mondo, non permise che ci fossero due contendenti. Infatti Giulia, rapita anzi tempo dalla crudele mano delle Parche, recò nel regno dei morti il pegno dell’unione del sangue e le torce nuziali divenute funeste con un sinistro presagio. Che se il destino ti avesse concesso un più lungo periodo di vita, soltanto tu avresti potuto trattenere da un lato il marito, dall’altro il padre, entrambi impazziti, ed unire le loro mani armate, dopo aver strappato ad essi il ferro, come le Sabine, gettatesi nel mezzo della mischia, unirono i generi ai suoceri. Con la tua morte invece la lealtà venne spazzata via e fu consentito ai capi di muover guerra. Il valore, che spingeva a rivaleggiare, fornì la spinta: tu, o Grande, temi che le nuove imprese dell’avversario oscurino i tuoi antichi trionfi e che la gloria conseguita nella guerra contro i pirati sia superata da quella derivante dalla conquista delle Gallie; tu, invece, sei sollecitato dalla lunga consuetudine con le fatiche della guerra e dalla Fortuna che non tollera di occupare il secondo posto: né Cesare può sopportare che qualcuno venga prima di sé né Pompeo che qualcuno gli stia accanto. Non è lecito sapere chi dei due abbia dato di piglio alle armi per motivi più giusti: ciascuno adduce a propria giustificazione un giudice importante: la causa del vincitore piacque agli dèi, quella del vinto a Catone. Né vennero l’un contro l’altro sullo stesso piano: l’uno, mentre gli anni declinavano verso l’età tarda, reso più pacato dalla consuetudine con l’attività civile, aveva disimparato con la pace l’arte del condottiero e, bramoso di fama, dava molto al volgo, si lasciava trascinare completamente dall’umore del popolo e godeva dell’applauso del suo teatro, senza allestire nuove forze, dal momento che faceva invece grande affidamento sulla fortuna di un tempo. S’innalza, ombra di un grande nome, come una quercia imponente in un campo fecondo, recante le spoglie di un popolo antico e i doni sacri dei capi e, non riuscendo più ad aderire con forti radici al terreno, sta in piedi solo con il suo peso: effondendo nell’aria i rami nudi, fa ombra con il tronco, non con le fronde, e, sebbene ondeggi, minacciando di crollare al primo soffio dell’euro e si innalzino intorno tanti alberi dal solido tronco, purtuttavia solo essa è venerata. In Cesare non era soltanto il nome o la fama del condottiero, ma un valore incapace di riposo e la sola vergogna vincere senza combattere: aspro e indomabile, scatenava la sua violenza dovunque lo chiamasse la speranza o l’ira, non risparmiava mai le sue armi impugnate empiamente, incalzava da presso i suoi trionfi, forzava la benevolenza accordatagli dagli dèi, scagliandosi contro tutto ciò che fosse di ostacolo al suo desiderio di dominio totale e soddisfatto di aprirsi la via con la rovina. Così il fulmine, provocato dai venti attraverso le nubi, brilla con il risuonare dell’etere percosso e con il fragore dell’universo, fende il giorno e atterrisce i popoli sgomenti, costringendoli a chiuder gli occhi con la sua fiamma obliqua: infuria nel cielo e, dal momento che nulla è di ostacolo al suo sprigionarsi, provoca, precipitando e risollevandosi, stragi per gran tratto e ricompone gli sparsi fuochi.
Queste le cause per i capi; ma anche fra i cittadini lavoravano nascostamente i germi della guerra, che hanno travolto da sempre i popoli potenti. Infatti – allorquando la Fortuna, sottomesso il mondo, recò eccessive ricchezze e i costumi si corruppero di fronte all’abbondanza e alla prosperità e il bottino di guerra, ottenuto ai danni dei nemici, spinse al lusso – non ci fu più limite all’oro e ai palazzi e la fame disprezzò le mense di un tempo; gli uomini indossarono abbigliamenti, che a stento era ammissibile che portassero le giovani; si fuggì la povertà ricca di eroi e si fece venire da ogni angolo del mondo ciò per cui tutti i popoli periscono. Allora unirono insieme un gran numero di campi ed allargarono, servendosi di coloni stranieri, tutti quei terreni che un tempo erano stati arati dal duro vomere di Camillo e lavorati dalle antiche zappe dei Curii. Non era più quel popolo, che traeva giovamento da una tranquilla pace e che si nutriva della propria libertà, mentre le armi tacevano. Di qui le facili ire; fu ritenuto una leggera infrazione, quello a cui potesse spingere l’indigenza, e un grande onore, da ricercare con le armi, riuscire ad avere un potere superiore a quello della patria: la violenza era ormai la misura del diritto. Di qui i plebisciti e le leggi coartate ed infrante e i tribuni che, insieme con i consoli, sovvertivano la legalità, di qui i fasci ottenuti con la corruzione e il popolo che vendeva all’asta il suo favore e i brogli elettorali, esiziali per Roma, che rinnovavano ogni anno le lotte nel venale Campo. Di qui l’usura divoratrice e l’interesse avido nelle scadenze e la lealtà spazzata via e la guerra vantaggiosa per molti.
Ormai Cesare aveva superato con grande rapidità le gelide Alpi e aveva deciso grandi sommovimenti e la guerra futura. Non appena giunse sulla riva del piccolo Rubicone, apparve al condottiero la grande immagine della Patria in ansia, luminosa nella notte oscura, tristissima nel volto e con i bianchi capelli che cadevano dal capo turrito; essa, con la chioma scarmigliata e le braccia nude, così parlò, mescolando i gemiti alle parole: «Dove procedete ancora? Dove recate le mie insegne, o soldati? Se venite nel rispetto della legge o come cittadini, vi è consentito giungere fin qui». Allora l’orrore scosse le membra del condottiero, gli si drizzarono le chiome e, costretto da un improvviso torpore, ristette sul limitare della riva. Ma subito disse: «O Tonante, che proteggi dall’alto della rupe Tarpea le mura dell’Urbe, o Penati Frigi della stirpe Giulia e mistero di Quirino assunto in cielo e Giove Laziare, che hai la tua sede in Alba alta, e fuochi di Vesta e Roma, somma divinità, favorite la mia impresa!

Pharsalia,I, 1, 1-100

Bella per Emathios plus quam civilia campos
iusque datum sceleri canimus, populumque potentem
in sua victrici conversum viscera dextra
cognatasque acies, et rupto foedere regni

5
certatum totis concussi viribus orbis
in commune nefas, infestisque obvia signis
signa, pares aquilas et pila minantia pilis.

quis furor, o cives, quae tanta licentia ferri?
gentibus invisis Latium praebere cruorem

10
cumque superba foret Babylon spolianda tropaeis
Ausoniis umbraque erraret Crassus inulta
bella geri placuit nullos habitura triumphos?
heu, quantum terrae potuit pelagique parari
hoc quem civiles hauserunt sanguine dextrae,

15
unde venit Titan et nox ubi sidera condit
quaque dies medius flagrantibus aestuat horis
et qua bruma rigens ac nescia vere remitti
astringit Scythico glacialem frigore pontum!
sub iuga iam Seres, iam barbarus isset Araxes

20
et gens siqua iacet nascenti conscia Nilo.
tum, si tantus amor belli tibi, Roma, nefandi,
totum sub Latias leges cum miseris orbem,
in te verte manus: nondum tibi defuit hostis.
at nunc semirutis pendent quod moenia tectis

25
urbibus Italiae lapsisque ingentia muris
saxa iacent nulloque domus custode tenentur
rarus et antiquis habitator in urbibus errat,
horrida quod dumis multosque inarata per annos
Hesperia est desuntque manus poscentibus arvis,

30
non tu, Pyrrhe ferox, nec tantis cladibus auctor
Poenus erit: nulli penitus descendere ferro
contigit; alta sedent civilis volnera dextrae.

quod si non aliam venturo fata Neroni
invenere viam magnoque aeterna parantur

35
regna deis caelumque suo servire Tonanti
non nisi saevorum potuit post bella gigantum,
iam nihil, o superi, querimur; scelera ipsa nefasque
hac mercede placent. diros Pharsalia campos
inpleat et Poeni saturentur sanguine manes,

40
ultima funesta concurrant proelia Munda,
his, Caesar, Perusina fames Mutinaeque labores
accedant fatis et quas premit aspera classes
Leucas et ardenti servilia bella sub Aetna,
multum Roma tamen debet civilibus armis

45
quod tibi res acta est. te, cum statione peracta
astra petes serus, praelati regia caeli
excipiet gaudente polo: seu sceptra tenere
seu te flammigeros Phoebi conscendere currus
telluremque nihil mutato sole timentem

50
igne vago lustrare iuvet, tibi numine ab omni
cedetur, iurisque tui natura relinquet
quis deus esse velis, ubi regnum ponere mundi.
sed neque in Arctoo sedem tibi legeris orbe
nec polus aversi calidus qua vergitur Austri,

55
unde tuam videas obliquo sidere Romam.
aetheris inmensi partem si presseris unam,
sentiet axis onus. librati pondera caeli
orbe tene medio; pars aetheris illa sereni
tota vacet nullaeque obstent a Caesare nubes.

60
tum genus humanum positis sibi consulat armis
inque vicem gens omnis amet; pax missa per orbem
ferrea belligeri conpescat limina Iani.
sed mihi iam numen; nec, si te pectore vates
accipio, Cirrhaea velim secreta moventem

65
sollicitare deum Bacchumque avertere Nysa:
tu satis ad vires Romana in carmina dandas.

fert animus causas tantarum expromere rerum,
inmensumque aperitur opus, quid in arma furentem
inpulerit populum, quid pacem excusserit orbi.

70
invida fatorum series summisque negatum
stare diu nimioque graves sub pondere lapsus
nec se Roma ferens. sic, cum conpage soluta
saecula tot mundi suprema coegerit hora
antiquum repetens iterum chaos, [omnia mixtis

75
sidera sideribus concurrent,] ignea pontum
astra petent, tellus extendere litora nolet
excutietque fretum, fratri contraria Phoebe
ibit et obliquum bigas agitare per orbem
indignata diem poscet sibi, totaque discors

80
machina divolsi turbabit foedera mundi.
in se magna ruunt: laetis hunc numina rebus
crescendi posuere modum. nec gentibus ullis
commodat in populum terrae pelagique potentem
invidiam Fortuna suam. tu causa malorum

85
facta tribus dominis communis, Roma, nec umquam
in turbam missi feralia foedera regni.
o male concordes nimiaque cupidine caeci,
quid miscere iuvat vires orbemque tenere
in medio? dum terra fretum terramque levabit

90
aer et longi volvent Titana labores
noxque diem caelo totidem per signa sequetur,
nulla fides regni sociis, omnisque potestas
inpatiens consortis erit. nec gentibus ullis
credite nec longe fatorum exempla petantur:

95
fraterno primi maduerunt sanguine muri.
nec pretium tanti tellus pontusque furoris
tunc erat: exiguum dominos commisit asylum.

temporis angusti mansit concordia discors
paxque fuit non sponte ducum; nam sola futuri

100
Crassus erat belli medius mora.

Cantiamo guerre più atroci di quelle civili, combattute sui campi d’Emazia, e il delitto divenuto legalità e un popolo potente che si è rivolto contro le sue stesse viscere con la destra vittoriosa e i contrapposti eserciti appartenenti allo stesso sangue e – infranto il patto della tirannia – tutte le energie del mondo sconvolto che lottano per un comune misfatto e le insegne che vanno contro quelle avversarie e le aquile contrarie alle aquile e i giavellotti minacciosi contro i giavellotti.
Quale follia, o cittadini, quale sfrenato abuso delle armi offrire il sangue latino alle genti nemiche? Mentre si sarebbero dovuti strappare alla superba Babilonia i trofei italici e mentre l’ombra di Crasso continuava ad errare invendicata, si decise di intraprendere guerre che
non avrebbero avuto alcun trionfo? Oh, con il sangue che venne versato nei conflitti civili quanto spazio in terra e in mare si sarebbe potuto conquistare, là donde sorge il sole, dove la notte occulta gli astri, dove il mezzogiorno arde di ore infuocate, dove il rigido inverno, incapace di sciogliere il suo freddo anche in primavera, stringe il mare glaciale con freddo scitico: sarebbero già stati sottomessi i Seri, il barbaro Arasse e la popolazione, se esiste, che conosce le sorgenti del Nilo! Allora, o Roma, se brami tanto una guerra empia – una volta che avrai sottomesso l’orbe intero alle leggi latine – rivolgi la mano contro te stessa: fino ad ora non ti sono mancati i nemici. Ma adesso – del fatto che, nelle città d’Italia, le mura delle case diroccate minacciano di cadere e, crollate le pareti, grandi massi giacciono a terra e non c’è più alcuno che custodisca le abitazioni e soltanto qualche raro abitante vaga per le antiche città e, ancora, del fatto che l’Esperia sia irta di rovi, senza che l’aratro, per molti anni, abbia lavorato e che mancano le braccia per i campi che le richiedono – di così grandi sciagure non sei responsabile né tu, o feroce Pirro, né il Cartaginese: a nessuno è toccato in sorte di penetrare così internamente con il ferro: le ferite inferte dalla guerra civile sono le più profonde e inguaribili.
Se poi i fati non hanno trovato altro mezzo per l’avvento di Nerone e a caro prezzo si apprestano gli eterni regni per gli dèi e il cielo poté servire al suo Tonante solo dopo le guerre combattute contro i crudeli Giganti, noi, o numi, non ci lamentiamo più ormai: approviamo questi nefandi delitti, se essi hanno avuto tali conseguenze: Farsàlo sommerga di sangue i campi maledetti e se ne sazino i Mani cartaginesi, gli estremi combattimenti abbiano luogo nella funesta Munda, a questi tristi destini si aggiungano, o Cesare, la fame di Perugia e il travaglio di Modena e le flotte che si trovano sotto la rocciosa Lèucade e le guerre servili sotto l’Etna infuocato: purtuttavia Roma deve molto ai conflitti civili, dal momento che tutto ciò si è realizzato per te. Te – allorquando, completato il periodo del tuo soggiorno terreno, salirai, il più tardi possibile, verso gli astri – accoglierà la reggia del cielo, che avrai scelto, fra il tripudio dell’universo: sia che ti piaccia impugnare lo scettro sia che tu voglia montare sul carro fiammeggiante di Febo e percorrere con il fuoco errante la terra che non avrà timore del nuovo sole, ogni nume si ritirerà dinanzi a te e la natura ti lascerà il diritto di decidere qual dio vorrai essere e dove collocare il tuo regno sull’universo. Ma non scegliere la tua sede nella zona dell’Orsa né in quella opposta, dove si trova il caldo polo australe, donde vedresti la tua Roma con una traiettoria obliqua: se tu graverai su una sola parte dell’etere immenso, l’asse dell’universo sentirà il tuo peso. Equilibra con un’orbita centrale la massa del cielo: quella zona dell’etere sereno sia libera del tutto e nessuna nube sia di ostacolo dalla parte di Cesare. Allora il genere umano, deposte le armi, pensi a se stesso e ogni popolo si ami vicendevolmente: la pace, diffusa per il mondo, chiuda le ferree porte del tempio di Giano apportatore di guerra. Ma tu per me sei fin da ora un dio e se io, accogliendoti nel mio petto, divengo poeta, non vorrei sollecitare il dio che rivela i segreti di Cirra e distogliere Bacco da Nisa: tu basti ad infondere forza e ispirazione per un poema romano.
È mia intenzione portare alla luce i motivi di avvenimenti così importanti: mi si rivela una fatica immane, quella cioè di svelare che cosa abbia spinto il popolo impazzito alle armi, che cosa abbia cacciato via la pace dal mondo: invidiosa è la successione dei fati, non è consentito a ciò che è giunto al culmine di durare a lungo, pesanti sono le cadute sotto un peso troppo gravoso, né Roma è più in grado di sostenersi. Così – allorquando, scardinato il meccanismo che tiene insieme il mondo, l’ora estrema avrà concluso il ciclo di tante generazioni, dando nuovamente luogo all’antico caos – tutti gli astri si mescoleranno e cozzeranno fra loro, le stelle infuocate precipiteranno nel mare, la terra non vorrà estendere le sue spiagge e respingerà le acque, Febe si dirigerà contro il fratello e, sdegnatasi di percorrere l’orbita obliqua, chiederà per sé il giorno e tutta la struttura del mondo, ormai scardinatasi, sconvolgerà le leggi dell’universo. La grandezza precipita su se stessa: gli dèi posero questo limite alla crescita della prosperità. Né la Fortuna offre ad alcuna popolazione straniera la propria invidia contro un popolo potente per terra e per mare: tu, o Roma, sei la causa dei tuoi mali, tu, resa possesso comune di tre padroni, e i patti funesti di un dominio mai prima affidato a tante persone. O malamente concordi e resi ciechi da una eccessiva ingordigia, che giova mescolare le forze e tenere il mondo sotto il vostro dominio? Finché la terra sosterrà il mare e l’aria la terra e il sole continuerà a svolgere la sua lunga fatica e la notte terrà dietro al giorno sempre con le medesime costellazioni, quelli che hanno in comune un dominio non saranno mai leali fra loro e chi detiene il potere non sopporterà di dividerlo con un altro. Non cercate esempi presso altre popolazioni e non ricercate troppo lontano gli esempi di simili destini: le vostre mura furono le prime ad essere macchiate di sangue fraterno. Ed allora la contropartita di una così mostruosa follia non era la terra né il mare: un piccolo rifugio mise di fronte i due contendenti che aspiravano al dominio.
La discorde concordia ebbe breve durata e la pace venne stipulata non per volere dei capi: l’unico ostacolo che si frapponeva alla futura guerra era Crasso.

Prodigiorum liber, 37 (“Una strana morte”)

P. Elvius eques Romanus a ludis Romanis cum in Apuliam reverteretur, in agro Stellati filia eius virgo equo insidens fulmine icta exanimataque, vestimento deducto in inguinibus, exserta lingua, per inferiores locos ut ignis ad os emicuerit. Responsum infamiam virginibus et equestri ordini portendi, quia equi ornamenta dispersa erant. Tres uno tempore virgines Vestales nobilissimae cum aliquot equitibus Romanis incesti poenas subierunt. Aedes Veneri Verticordiae facta.

Mentre il cavaliere romano Publio Elvio, che era stato ai Ludi Romani, ritornava il Puglia, sua figlia vergine fu colpita e uccisa da un fulmine mentre stava a cavallo: i vestiti erano stati portati via dall’inguine, la bocca era spalancata, come se il fuoco fosse passato attraverso le parti inferiori fino alla bocca. Si interpretò il fatto in questo modo: era stata predetta infamia alle vergini e all’ordine equestre, poiché erano stati dispersi gli ornamenti del cavallo. Nello stesso tempo tre nobilissime vergini Vestali con alcuni cavalieri romani subirono le pene per l’incesto. Fu costruito un tempio a Venere Verticordia.

Ab Urbe Condita, XXXIV, 1 (“La legge Oppia”)

Inter bellorum magnorum aut uixdum finitorum aut imminentium curas intercessit res parua dictu sed quae studiis in magnum certamen excesserit. M. Fundanius et L. Ualerius tribuni plebi ad plebem tulerunt de Oppia lege abroganda. Tulerat eam C. Oppius tribunus plebis Q. Fabio Ti. Sempronio consulibus in medio ardore Punici belli, ne qua mulier plus semunciam auri haberet neu uestimento uersicolori uteretur neu iuncto uehiculo in urbe oppidoue aut propius inde mille passus nisi sacrorum publicorum causa ueheretur. M. et P. Iunii Bruti tribuni plebis legem Oppiam tuebantur nec eam se abrogari passuros aiebant; ad suadendum dissuadendumque multi nobiles prodibant; Capitolium turba hominum fauentium aduersantiumque legi complebatur. Matronae nulla nec auctoritate nec uerecundia nec imperio uirorum contineri limine poterant, omnes uias urbis aditusque in forum obsidebant, uiros descendentes ad forum orantes ut florente re publica, crescente in dies priuata omnium fortuna matronis quoque pristinum ornatum reddi paterentur. Augebatur haec frequentia mulierum in dies; nam etiam ex oppidis conciliabulisque conueniebant. Iam et consules praetoresque et alios magistratus adire et rogare audebant; ceterum minime exorabilem alterum utique consulem M. Porcium Catonem habebant, qui pro lege quae abrogabatur ita disseruit.

Tra tutte le preoccupazioni che venivano dalle grandi guerre da cui Roma era appena uscita o che la minacciavano da vicino, si svolse una vicenda certo di non grande rilevanza ai fini del racconto, ma tale da degenerare, con l’accendersi degli animi, in un’aspra contesa. I tribuni della plebe Marco Fundanio e Lucio Valerio presentarono al popolo una legge tesa ad abrogare la legge Oppia. Questa legge era stata proposta dal tribuno della plebe Gaio Oppio, nell’anno in cui erano consoli Quinto Fabio e Tiberio Sempronio, proprio quando più divampava la guerra punica: secondo questa legge nessuna donna poteva possedere più di mezza oncia d’oro, indossare vestiti dai colori appariscenti, farsi portare in carrozza in Roma o in altre città o nel raggio di un miglio da esse se non per motivi legati a cerimonie religiose. I tribuni della plebe Marco e Publio Giunio Bruto difendevano la legge Oppia e proclamavano che non ne avrebbero mai accettato l’abrogazione; molti esponenti della nobiltà si facevano avanti parlando a favore della legge o contro di essa e tutto il Campidoglio era pieno di una folla di favorevoli e contrari alla legge. E le donne: non riuscirono a trattenerle in casa nè l’autorità, nè il senso del pudore, nè le imposizioni dei loro mariti; avevano occupato tutte le strade della città e tutti gli accessi al Foro, chiedendo agli uomini i quali vi si recavano che consentissero, in un momento di grande floridezza della repubblica e di crescita continua e generale della ricchezza privata, che alle donne fossero restituiti i loro antichi ornamenti. Le donne si radunavano, di giorno in giorno, sempre più numerose arrivando perfino dalle città e dai luoghi di mercato dei dintorni. Ormai osavano avvicinare i consoli, i pretori e gli altri magistrati presentando le loro richieste. Tuttavia avevano un implacabile nemico in almeno uno dei consoli, Marco Porcio Catone, il quale così parlò a favore della legge che si voleva abrogare.

“Preziosi consigli di arte militare”

In omnibus proeliis et expeditionibus conditio talis est, ut, quod tibi prodest, adversario noceat, quod illum iuvat, tibi semper officiat. Numquam igitur ad illius arbitrium aliquid facere, aut dissimulare debemus, sed id solum agere, quod nobis utile iudicamus. Aut inopia aut terrore melius est hostem domare quam proelio: in quo amplius solet fortuna potestatis habee quam virtus. Occasio in bello amplius solet iuvare quam virtus. Melius est post aciem plura servare praesidia quam latinus milites exspargere. Difficile vincitur quam multitudo; amplius saepe locus prodest quam virtus. Exercitus labore proficit, otio consenescit. Quio frumentum necessariumque non praeparat, vincitur sine armis.

In tutte le guerre e spedizioni c’è una così grande preparazione dato che ciò che giova a te nuoce all’avversario; ciò che giova a quello, ti danneggia. Mai quindi dobbiamo fare o trascurare qualcosa per sua decisione, ma agire solo per quello che giudichiamo utile per noi. È meglio domare i nemici o per scarsezza o per paura che con la battaglia, nella quale di solito ha più potere la fortuna che la virtù. L’opportunità nelle guerre suole aiutare più della virtù. È meglio oltre le schiere conservare più scorte che sparpagliare i soldati. Difficilmente è sconfitto chi può giudicare sinceramente le truppe sue e degli avversari. Giova più la virtù che la moltitudine: spesso aiuta di più il luogo che la virtù. L’esercito trae vantaggio dal lavoro, con l’ozio si indebolisce. Chi non prepara il grano necessario alla spedizione, è sconfitto senza armi.

“La maga Circe”

Post multos variosque errores Ulixes cum sociis in insulam Aeneriam pervenit, ubi vivebat Circe maga, Solis filia, quae potione homines in feras bestias commutabat. Deinde Eurylochum cum viginti duobos sociis praemisit qui, cum ad pulchras deae aedes accesserunt, leones et lupos non solum minime feroces sed etiam caudas moventes undique viderunt et magam canentem audiverunt. Circe ianuam aperuit et advenas domum invitavit. Postquam omnes Graeci imprudentes intraverant solus Eurylochus dolum timens foris mansit et accubuerant, maga cibos cum potione apposuit et eos in sues convertit. Eurylochus autem qui ut supra diximus, non intraverat, perterritus fugit et rem Ulixi nuntiavit, qui solus ad Circen properavit ensemque stringens magam coegit comitibus speciem humanam reddere.

Dopo molti e diversi vagabondaggi Ulisse con i compagni arrivò all’isola Enaria dove viveva la maga Circe, figlia del Sole, che trasformava gli uomini in bestie per mezzo di una pozione. Poi Euriloco con ventidue compagni, i quali si erano avvicinati al tempio, videro leoni e lupi non solo minimamente feroci, ma anche che muovevano le code da tutte le parti, e sentirono la maga che cantava. Circe apri la porta e invitò in casa i forestieri. Dopodichè tutti i Greci imprudenti entrarono e si sdraiarono, solo Euriloco temendo il tranello stette sulla porta, la maga portò i cibi con la pozione e trasformò quelli in porci. Euriloco invece che come abbiamo detto prima, non era entrato, spaventato fuggi e raccontò il fatto ad Ulisse che da solo si affrettò da Circe e stringendo la spada costrinse la maga a ridare ai compagni la sembianza umana.

“Sconfitta dei Romani al lago Trasimeno”

Romanis nulla spes salutis erat, quia in fronte, in sinistro cornu, a tergo hostes habebant, a dextero cornu lacum et montes; praeterea densa caligo visum et prope armorum usum eripiebat. Romani prae strepitu et clamore consulis tribunorumque imperia iam non audiebant; omnes ad pugnam animos intentos habebant. Tum terrificus terrae motus magnas partes multarum urbium Italiae prostravit, cursu rapidos amnes avertit, lapsu ingenti montes proruit; at pugnantes neque senserunt neque perceperunt: tantus fuit ardor copiarum. In magno tumulto caedes utrimpue ingens fuit: Flaminius consul quoque sub hostium ictibus cecidit strenue pugnans. Pauci per saltus montium evaserunt et sparsa fuga per omnem Etruriam diversis itineribus Romam petiverunt.

Ai Romani non vi era alcuna speranza di salvezza, perchè sia di fronte, sia a sinistra e alle spalle avevano nemici e a destra il lago e i monti, inoltre una densa nebbia toglieva la vista e l’uso delle armi. I Romani per lo strepito e il clamore non sentivano gli ordini del console e dei tribuni, tutti avevano gli animi intenti alla battaglia. Allora un tremendo terremoto prostrò gran parte di molte città, deviò con la corrente i rapidi fiumi, con un ingente frana distrusse i monti, e i combattenti non sentirono nè percepirono: tanto fu l’ardore delle truppe. Nel grande tumulto ingente da ogni parte fu la strage: anche il console Flaminio cadde sotto i colpi dei nemici combattendo strenuamente: alcuni evasero per i passi dei monti e con la fuga sparsa giunsero con diversi itinerai per tutta l’Etruria fino a Roma

“La morte di Codro, leggendario re di Atene”

Antiquitis magnum bellum inter Athenienses et Lacedaemonios fuit. Lacedaemonii ob gravem annoman in Atticam venerunt, incolas pepulerunt et ad urbem castra posuerunt. Tum Athensienses legatos ad oraculum Delphicum miserunt et de eventu belli Apollinem consuluerunt. Pythia, Apollinis sacerdos, interrogata est a legatis et ita respondit: “Victores eritis, Athenienses, si hostes vestrum regem necabunt”. Quare, cum in bellum venerunt, Lacedaemonii ante omnia suis militibus custodiam regis praeceperunt. Tum Atheniensium rex Codrus erat: cum cognovit dei responsum hostiumque praecepta, regiam vestem mutavit et pannosus ac sarmenta collo gerens in hostium castra intravit. Ibi astu Lacedaemonium militem falce vulneravit et miles ira Codrum gladio necavit. Lacedaemonii, cum regis corpus agnoverunt, oraculi memores, sine proelio discesserunt. Atque ita Codrus rex virtute pro patriae salute mortem expetivit et Athenienses bello liberavit.

Anticamente vi fu una grande guerra tra Ateniesi e Spartani. Gli Spartani per la pesante annona, vennero in Attica, cacciarono gli abitanti e posero l’accampamento alla città. Allora gli Ateniesi mandarono ambasciatori per l’oracolo di Delfi e consultarono Apollo sull’esito della guerra. La Pizia, sacerdotessa di Apollo, fu interrogata dagli ambasciatori e così rispose: “Sarete vincitori, Ateniesi, se i nemici uccideranno il vostro re”. Per tale ragione, quando vennero in guerra, gli Spartani prima di ogni cosa raccomandarono ai loro soldati l’incolumità del re. Allora il re degli Ateniesi era Codro: quando seppe il responso del dio e i precetti dei nemici, cambiò la veste regia portando una veste pannosa e sacchi al collo, entrò nell’accampamento dei nemici. Qui intenzionalmente ferì con una falce un soldato degli Spartani e il soldato per l’ira uccise con la spada Codro. I Lacedemoni, quando riconobbero il corpo del re, memori dell’oracolo, se ne andarono senza scontro. E così il re Codro, per virtù andò incontro alla morte per la salvezza della patria e liberò dalla guerra gli Ateniesi.

“Il cavallo di Troia”

Achivi novem annos Troiam oppugnaverunt sed troiani vehementer urbem suam defenderunt. Decimo anno Epeus, Graecarum copiarum peritus faber, equum ligneum aedificavit cum hac inscriptione: “Achivi hunc equum Minervae deae dicant”. Deinde nonnuli strenui graeci viri in equi alvum clam intraverunt, et Graecorum copiae ad proximam insulam castra moverunt. Troiani, inimicorum fugae certi, magno cum gaudio exsultaverunt. Frusta Cassandrae, Priami filia, Troianos monebat: “Mihi credite, vera vobis praedico! Equus Graecorum dolus est! Inimici nostrum oppidum delebunt et nos necabunt aut captivos ducent”.

Gli Achei assediarono Troia per nove anni ma i Troiani difesero fortemente la loro città. Nel decimo anno Epeo, esperto fabbro delle truppe greche, costruì un cavallo di legno con questa iscrizione: gli Achei dedicano questo cavallo alla dea Minerva. Poi alcuni strenui uomini greci entrarono nella pancia del cavallo, e le truppe dei Greci mossero l’accampamento nell’isola più vicina. I Troiani, certi della fuga dei nemici, esultarono con grande gaudio. Inutilmente, Cassandra figlia di Priamo, ammoniva i Troiani: “Credetemi, vi dico cose vere! Il cavallo è un inganno dei Greci! I nemici distruggeranno la nostra città e ci uccideranno e riduranno in prigionieri”.

De amicitia

Amicitiam, o mi dilecte amice, magnum bonum existima. Amicus enim solacium praebet in aerumnis, auxilium in periculis, laetitiam in secunda fortuna. Quare iunge firmas amicitias usque a pueritia, sed elige amicos magna cum prudentia: nam, quia amicitia non solum gaudia parat, sed etiam officia, exsplorare debemus animos amicorum, praecipue in adversa fortuna. In secunda fortuna enim amici abudant, in adversa saepe diffugiunt. Antiqui amicitiam deorum donum putant et mira exempla fidae et firmae amicitiae tradunt. Multi philosophi et docti viri libros de amicitia conscribunt; etiam Marcus Tullius Cicero praeclarum libellum de amicitia componit et mittit ad Titum Pomponium Atticum, amicum suum.

Mio piacevole amico, considera l’amicizia un sommo bene. L’amico infatti offre conforto nei dispiaceri, aiuto nei pericoli, gioia nella sorte favorevole. Per questo unisci ferme amicizie fin dall’adolescenza, ma scegli gli amici con somma prudenza: infatti poichè l’amicizia non solo offre gioie ma anche molti doveri, dobbiamo esplorare gli animi degli amici, specialmente nelle circostanze avverse. Nella fortuna infatti gli amici abbondano, nelle sfortuna spesso fuggono. Gli antichi ritengono la fortuna un dono degli Dei e tramandano meravigliosi esempi di fedeltà e ferma amicizia. Molti filosofi e dotti uomini scrivono libri sull’amicizia, anche Cicerone compone un illustre libro sull’amicizia e lo manda a Tito Pomponio Attico, suo amico.