“Inizio del regno di Anco Marzio”

Post Tulli regis mortem, ut a patribus institutum iam inde ab initio erat, patres interregem nominaverant. Cum comitia haberentur, Ancum Marcium regem populus creavit; patres fuerunt auctores. Numae Pompili regis nepos, filia genitus, Ancus Marcius erat. Avitae gloriae memor, quia Tulli regnum, cetera egregium, ab una parte haud satis prosperum fuerat, cum neglectae religiones essent aut prave cultae essent, longe antiquum sacra publica facere quae ab Numa instituta erant putavit er pontificem omnia ea ex Numae regis commentariis in album elata in publico proponere iubet.

Dopo la morte del re Tullio, come era già stato deciso dai padri dall’inizio, essi avevano nominato un successore. Quando si riunirono, il popolo scelse Anco Marzio; come avevano designato i padri. Anco Marzio era nipote del re Numa Pompilio, nato dalla figlia. Memore dell’avidità della gloria, poiché il regno di Tullio, buono per gli altri, era stato da una parte prospero, però carente o mal rispettoso della religione, si facevano da quel tempo tantissime manifestazioni pubbliche a sfondo sacro istituite da Numa, che propose di raccoglierle su di un libricino da esporre in pubblico.

“Sfarzosi costumi indiani”

Indi corpora usque ad pedes carbaso velant, capita linteis vinciunt. Lapilli ex eorum aueibus pendent; brachia quoque et lacertos auro ornant, capillos non tondent sed pectunt. Mentum eorum semper intonsum est, reliqua vultus pars rasa. Regum luxus superat omnium gentium vitia. cum rex in publicum procedit, ministri cum turibulis argenteis antecedunt ut totum iter eius odoribus compleant. Rex in aurea lectica recubat; undique aves doctae cantu regem delectant. Regia domus vastas porticus et auratas columnas habet et vitis aurea cum racemis argenteis totas columnas complet. Dum legationum mandata exaudit, rex capillos pectit et ornat. Eius maximus labor in venatu est at, dum inclusa animalia in vivario figit, pelices cantu et motibus eum et eius comites delectant.

Gli Indiani si coprono il corpo con una veste lunga fino ai piedi; legano delle bende di lino al capo; pietre preziose pendono dai loro orecchi, le braccia e gli avambracci ornano con oro, non tagliano ma pettinano i loro capelli; il loro mento è sempre non rasato; rendono liscia ed uniforme la restante pelle della faccia. Tuttavia il lusso dei re, supera i vizi di tutti i popoli. Quando il re acconsente ad apparire in pubblico, i servi portano dei turiboli d’argento, e riempiono di effluvi tutto il percorso attraverso il quale il re ha stabilito esser trasportato. Egli è sdraiato su una lettiga d’oro attorno alla quale donne ammaestrate al canto dilettano il re. La casa regale ha vasti portici e colonne di oro e riempi tutte le colonne di oro con grappoli d’uva di argento. Mentre ascolta i mandati delle legazioni, il re pettina e sistema i capelli. Il suo grande lavoro è nella caccia ma, mentre appende nel vivaio gli animali, odalische con il canto e danze dilettano quello e i suoi compagni.

De Coniuratione Catilinae, 54 (“Cesare e Catone”)

Igitur iis genus aetas eloquentia prope aequalia fuere, magnitudo animi par, item gloria, sed alia alii. Caesar beneficiis ac munificentia magnus habebatur, integritate vitae Cato. Ille mansuetudine et misericordia clarus factus, huic seueritas dignitatem addiderat. Caesar dando subleuando ignoscendo, Cato nihil largiendo gloriam adeptus est. In altero miseris perfugium erat, in altero malis pernicies. Illius facilitas, huius constantia laudabatur. Postremo Caesar in animum induxerat laborare, vigilare; negotiis amicorum intentus sua neglegere, nihil denegare quod dono dignum esset; sibi magnum imperium, exercitum, bellum novum exoptabat, ubi virtus enitescere posset. At Catoni studium modestiae, decoris, sed maxime seueritatis erat; non divitiis cum divite neque factione cum factioso, sed cum strenuo virtute, cum modesto pudore, cum innocente abstinentia certabat; esse quam videri bonus malebat: ita, quo minus petebat gloriam, eo magis illum assequebatur.

Dunque, essi, furono pressoché uguali per età, nascita e eloquenza, pari per grandezza d’animo, parimenti per fama ma era diversa per ciascuno dei due. Cesare era considerato grande per i suoi privilegi e la sua generosità, Catone per la sua integrità di vita. Quello fu reso famoso dalla mitezza e generosità, a questo aveva aggiunto dignità il rigore morale. Cesare conseguì la gloria con la prodigalità, con il soccorso prestato ad altri, con il perdono, Catone non elargendo niente. Nell’uno c’era rifugio per i miseri, nell’altro la rovina per i malvagi. Di quello era lodata la condiscendenza, dell’altro la tenacia. Insomma, Cesare si era proposto di lavorare, vegliare e di trascurare i propri interessi per gli affari degli amici, non rifiutava niente che fosse adatto per essere dato in dono. Per sé desiderava un grande potere, un esercito, una nuova guerra in cui il suo valore avesse la possibilità di risplendere. Catone, invece, aveva amore per la modestia, la dignità e la severità. Non lottava col ricco per la ricchezza, né col fazioso per gli intrighi; ma con il valoroso per la virtù, con il modesto per il pudore, con l’onesto per l’integrità. Preferiva essere retto più che sembrarlo, così che egli quanto meno inseguiva la fama, tanto più se la guadagnava.

Noctes Atticae, IX, 11

De Maximo Valerio, qui Corvinus appellatus est ob auxilium propugnationemque corvi alitis, haut quisquam est nobilium scriptorum, qui secus dixerit. Ea res prorsus admiranda sic profecto est in libris annalibus memorata. Adulescens tali genere editus L. Furio Claudio Appio consulibus fit tribunus militaris. Atque in eo tempore copiae Gallorum ingentes agrum Pomptinum insederant, instruebanturque acies a consulibus de vi ac multitudine hostium satis agentibus. Dux interea Gallorum vasta et ardua proceritate armisque auro praefulgentibus grandia ingrediens et manu telum reciprocans incedebat perque contemptum et superbiam circumspiciens despiciensque omnia venire iubet et congredi, si quis pugnare secum ex omni Romano exercitu auderet. Tum Valerius tribunus ceteris inter metum pudoremque ambiguis impetrato prius a consulibus ut in Gallum tam inmaniter adrogantem pugnare sese permitterent, progreditur intrepide modesteque obviam; et congrediuntur et consistunt, et conserebantur iam manus, atque ibi vis quaedam divina fit: corvus repente inprovisus advolat et super galeam tribuni insistit atque inde in adversari os atque oculos pugnare incipit; insilibat, obturbabat et unguibus manum laniabat et prospectum alis arcebat atque, ubi satis saevierat, revolabat in galeam tribuni. Sic tribunus spectante utroque exercitu et sua virtute nixus et opera alitis propugnatus ducem hostium ferocissimum vicit interfecitque atque ob hanc causam cognomen habuit Corvinus. Id factum est annis quadringentis quinque post Romam conditam. 10 Statuam Corvino isti divus Augustus in foro suo statuendam curavit. In eius statuae capite corvi simulacrum est rei pugnaeque, quam diximus, monimentum.

Di Valerio Massimo, soprannominato Corvino per l’aiuto e la difesa datagli da un corvo, nessuno dei più noti scrittori ha narrato diversamente tale vicenda. Quel fatto davvero singolare è così ricordato dagli Annali. Un giovane uscito da quella famiglia fu nominato tribuno militare sotto il consolato di Lucio Furio e Claudio Appio. In quel tempo grandi forze dei Galli avevano invaso la Pontinia e i consoli, preoccupati dal numero e dalla forza dei nemici, schiereranno le proprie truppe in battaglia. Allora il capo dei Galli, che si distingueva per la corporatura grossa e alta e per il luccicare delle armi dorate, avanzò a grandi passi, e facendo mulinare con la mano l’asta e guardando tutt’intorno con altezzosa superbia, ordinò con aria di disprezzo che avanzasse e si presentasse se v’era qualcuno in tutto l’esercito romano che osasse combattere con lui. Allora il tribuno Valerio, di fronte agli altri che esitavano per timore e vergogna dopo aver chiesto ai consoli che gli consentissero di combattere con quel gallo così vanamente arrogante, si fece innanzi con coraggio e ritegno; i due combattenti si fan sotto, s’arrestarono e già hanno messo mano alle armi quando avviene un fatto miracoloso: d’improvviso un corvo giunge in volo, si posa sull’elmo del tribuno e poi comincia a colpire il viso e gli occhi dell’avversario; lo sorprende, lo turba, gli graffia le mani con le unghie, lo acceca con lo sbattere delle ali e, quando gli par di avere infierito a sufficienza, ritorna sull’elmo del tribuno. Allora questi, dinanzi ad ambedue le schiere, facendo assegnamento sul proprio coraggio e sull’aiuto dell’uccello, atterra quel ferocissimo capo dei nemici, lo uccide e per questo fatto assume il cognome di Corvino. Ciò avvenne nell’anno 405 dalla fondazione di Roma. Il divo Augusto fece erigere nel suo Foro una statua a questo Corvino. Sulla testa di tale statua v’è l’effigie di un corvo, il ricordo del combattimento che ho descritto.

“Il corvo divino che risolse il duello”

Dux interea Gallorum, vasta et ardua proceritate, grandia ingrediens et manu telum reciprocans despiciensque omnia, iubet congredi, si quis proeliari secum ex omni Romano exercitu auderet. Tum Valerius tribunus, cum ceteri inter metum pudoremque ambigui essent, progreditur intrepide modesteque obviam. Congrediuntur et consistunt et conserebantur iam manus: atque ibi vis quaedam divina fuit. Corvus repente advolat et super galeam tribuni moratur, atque inde in avversarii os atque oculos proeliatur. Ubi satis saevierat, revolabat in galeam tribuni. Sic tribunus, et sua virtute nixus et opera alitis propugnatus, ducem hostium ferocissimum vicit et interfecit atque ob hanc causam congnomen habuit Corvinum.

Intanto il comandante dei Galli, di altezza smisurata ed impressionante, avanzando a grandi passi e facendo mulinare con la mano l’asta e guardando dall’alto in basso ogni cosa, ordinò di avvicinarsi, se qualcuno fra tutto l’esercito romano aveva il coraggio di duellare con lui. Allora il tribuno Valerio, mentre tutti gli altri erano incerti tra il timore e la vergogna, gli si avanzò incontro intrepidamente e con calma. Si avvicinarono e si arrestarono e ormai stavano venendo alle mani: e là ci fu una specie di forza divina. Improvvisamente un corvo arrivò in volo e si fermò sull’elmo del tribuno, e quindi si avventò contro il viso e gli occhi del nemico. Quando gli pareva di avere infierito a sufficienza, tornava all’elmo del tribuno. Così il tribuno, facendo assegnamento sul proprio coraggio e sull’aiuto dell’uccello, vinse e uccise il ferocissimo comandante dei nemici e per questo motivo ebbe il soprannome di Corvino.

De Oratore, I, 16

Etenim si constat inter doctos, hominem ignarum astrologiae ornatissimis atque optimis versibus Aratum de caelo stellisque dixisse; si de rebus rusticis hominem ab agro remotissimum Nicandrum Colophonium poetica quadam facultate, non rustica, scripsisse praeclare, quid est cur non orator de rebus eis eloquentissime dicat, quas ad certam causam tempusque cognorit? Est enim finitimus oratori poeta, numeris astrictior paulo, verborum autem licentia liberior, multis vero ornandi generibus socius ac paene par; in hoc quidem certe prope idem, nullis ut terminis circumscribat aut definiat ius suum, quo minus ei liceat eadem illa facultate et copia vagari qua velit. Nam quod illud, Scaevola, negasti te fuisse laturum, nisi in meo regno esses, quod in omni genere sermonis, in omni parte humanitatis dixerim oratorem perfectum esse debere: numquam me hercule hoc dicerem, si eum, quem fingo, me ipsum esse arbitrarer. Sed, ut solebat C. Lucilius saepe dicere, homo tibi subiratus, mihi propter eam ipsam causam minus quam volebat familiaris, sed tamen et doctus et perurbanus, sic sentio neminem esse in oratorum numero habendum, qui non sit omnibus eis artibus, quae sunt libero dignae, perpolitus; quibus ipsis si in dicendo non utimur, tamen apparet atque exstat, utrum simus earum rudes an didicerimus: ut qui pila ludunt, non utuntur in ipsa lusione artificio proprio palaestrae, sed indicat ipse motus, didicerintne palaestram an nesciant, et qui aliquid fingunt, etsi tum pictura nihil utuntur, tamen, utrum sciant pingere an nesciant, non obscurum est; sic in orationibus hisce ipsis iudiciorum, contionum, senatus, etiam si proprie ceterae non adhibeantur artes, tamen facile declaratur, utrum is, qui dicat, tantum modo in hoc declamatorio sit opere iactatus an ad dicendum omnibus ingenuis artibus instructus accesserit.

Infatti poichè è noto fra i dotti che un uomo ignaro di astrologia, Arato, trattò del cielo e delle stelle con versi ottimi e molto eleganti; che un uomo, lontanissimo dalla campagna, Nicandro di Colofone, scrisse mirabilmente con una certa capacità poetica, non rustica, sull’agricoltura, perchè l’oratore non deve poter trattare con molta eloquenza di quegli argomenti, che avrà conosciuto per una determinata questione e occasione? Infatti il poeta è affine all’oratore, un poco più vincolato alle leggi ritmiche, ma più libero nell’uso delle parole, certamente compagno e quasi alla pari in molte specie di ornamenti; certamente quasi uguale almento in questo, perchè non circoscrive nei termini nè limita la sua giurisdizione, in modo che non gli sia lecito aggirarsi dove voglia con quel medesimo ingegno e facondia. Quanto poi a ciò che tu, Scevola, dicevi che non avresti potuto tollerare quella mia affermazione, se non fossi nel mio territorio, perchè avevo detto che l’oratore deve essere perfetto in ogni tema di conversazione, in ogni ramo di cultura: giammai in fede mia direi una tale cosa, se ritenessi che io stesso sono quell’oratore che mi fingo. Ma, come spesso soleva dire C. Lucilio, un po’ in collera con te, e proprio per quella ragione mio amico meno di quanto avrebbe voluto, ma tuttavia erudito e di molto buon gusto, così giudico che nessuno sia da annoverare fra gli oratori, se non sia raffinato in tutte quelle dottrine, che sono degne di un uomo libero; e anche se non usiamo di esse nel parlare, tuttavia è evidente e spicca che siamo ignari o che non le abbiamo studiate. Come quelli che giocano a palla non si servono nello stesso gioco delle regole della palestra, ma gli stessi movimenti indicano se hanno imparato la ginnastica o se non la sanno, e coloro che plasmano qualche cosa, benchè non usino per nulla il disegno, pur tuttavia si vede bene se sanno o non sanno disegnare, così in questi stessi discorsi dei tribunali, delle concioni, del senato, anche se di proposito non sono usate le rimanenti discipline, tuttavia senza dubbio si capisce se l’oratore si sia esercitato in questo lavoro di declamazione o se si sia accostato all’eloquenza nutrito di tutte le dottrine liberali.

“Plinio il giovane ricorda una sua orazione in difesa di Giulio Basso”

Causam per hos dies dixit Iulius Bassus, homo laboriosus et adversis suis clarus. Sortitusque Bithyniam rediit reus, accusatus non minus acriter quam fideliter defensus. Egit contra eum Pomponius Rufus, vir paratus et vehemens; Rufo successit Theophanes, unus ex legatis, fax accusationis et origo. Respondi ego. Nam mihi Bassus iniunxerat, totius defensionis fundamenta iacerem, Eundem me voluerat occurrere crimini quo maxime premebatur. Hoc illum onerabat quod homo simplex et incautus quaedam a provincialibus ut amicus acceperat – nam fuerat in eadem provincia quaestor -. Haec accusatores furta ac rapinas, ipse munera vocabat. Sed lex munera quoque accipi vetat. Hic ego quid agerem, quod iter defensionis ingrederer? Negarem? Verebar ne plane furtum videretur, quod confiteri timerem. Praeterea rem manifestam infitiari augentis erat crimen non diluentis, praesertim cum reus ipse nihil integrum advocatis reliquisset. Multis enim atque etiam principi dixerat, sola se munuscula dumtaxat natali suo aut Saturnalibus accepisse et plerisque misisse. Veniam ergo peterem? Iugulassem reum, quem ita deliquisse concederem, ut servari nisi venia non posset. Tamquam recte factum tuerer? Non illi profuissem, sed ipse impudens exstitissem. In hac difficultate placuit medium quiddam tenere: videor tenuisse. Actionem meam, ut proelia solet, nox diremit.

Giulio Basso, personaggio tormentato e noto per le sue disavventure, in questi giorni ha presentato la sua difesa in tribunale. E, ottenuta in sorte la Bitinia, ne ritornò sotto accusa, ed è stato accusato con accanimento non minore della lealtà con cui è stato difeso. Sostenne l’accusa contro di lui Pomponio Rufo, uomo preparato e vigoroso; prese il posto di Rufo Teofane, uno dei legati, istigatore ed origine dell’accusa. Ribattei io: infatti Basso mi aveva conferito l’incarico di gettare le fondamenta dell’intera difesa. Aveva poi voluto che io medesimo affrontassi l’accusa che maggiormente l’opprimeva. Questo pesava su di lui, che cioè, da persona semplice ed incauta, aveva accettato dai provinciali alcuni regali, come (loro) amico: infatti nella medesima provincia era stato questore. Gli accusatori (chiamavano) queste cose furti e rapine, egli le definiva doni. Ma la legge proibisce di accettare anche i doni. A questo punto, che cosa avrei potuto fare? Quale linea difensiva avrei dovuto adottare? Dovevo negare? Avevo il timore che ciò che esitavo ad ammettere apparisse fuor di dubbio una ruberia. Oltre a ciò contestare un fatto manifesto era piuttosto proprio di chi aggrava un’accusa che di chi cerca di sminuirla, tanto più che l’accusato stesso non aveva lasciato ai (suoi) difensori nulla di concreto. Infatti egli aveva raccontato a molti, ed anche all’imperatore, di avere accettato unicamente dei piccoli doni, e unicamente al compleanno o ai Saturnali, e di averne inviati ai più. Avrei dovuto chiedere perdono? Avrei tagliato la gola all’imputato, che avrei ammesso aver commesso colpe tali da non poter essere salvato che dal perdono. Dovevo difenderlo come se si fosse comportato legittimamente? Non gli avrei giovato, ed sarei risultato io stesso impudente. In questa difficoltà, decisi di tenermi in un certo modo nel mezzo: mi pare di essermici tenuto.
La notte interruppe il mio discorso, come suole (interrompere) le battaglie

Historiarum Alexandri Magni, III, 9

Acies autem hoc modo stetit. Nabarzanes equitatu dextrum cornu tuebatur additis funditorum sagittariorumque viginti fere milibus. In eodem Thimodes erat, Graecis peditibus mercede conductis triginta milibus praepositus. Hoc erat haud dubium robur exercitus, par Macedonicae phalangi acies. In laevo cornu Aristomedes Thessalus XX milia barbarorum peditum habebat. In subsidiis pugnacissimas locaverat gentes. Ipsum regem in eodem cornu dimicaturum tria milia delectorum equitum, adsueta corporis custodia, et pedestris acies, quadraginta milia, sequebantur; Hyrcani deinde Medique equites, his proximi ceterarum gentium, ultra eos dextra laevaque dispositi. Hoc agmen, sicut dictum est, instructum VI milia iaculatorum funditorumque antecedebant. Quidquid in aliis angustiis adiri poterat inpleverant copiae, cornuaque hinc a iugo, illinc a mari stabant: uxorem matremque regis et alium feminarum gregem in medium agmen acceperant. Alexander phalangem, qua nihil apud Macedonas validius erat, in fronte constituit. Dextrum cornu Nicanor, Parmenionis filius, tuebatur: huic proximi stabant Coenos et Perdiccas et Meleager et Ptolomaeus et Amyntas, sui quisque agminis duces. In laevo, quod a mare pertinebat, Craterus et Parmenio erant, sed Craterus Parmenioni parere iussus. Equites ab utroque cornu locati: dextrum Macedones Thessalis adiunctis, laevum Peloponnesii tuebantur. Ante hanc aciem posuerat funditorum manum sagittariis admixtis. Thraces quoque et Cretenses ante agmen ibant, et ipsi leviter armati. At his, qui praemissi a Dareo iugum montis insederant, Agrianos opposuit ex Graecia nuper advectos. Parmenioni autem praeceperat, ut, quantum posset, agmen ad mare extenderet, quo longius abesset acies montibus, quos occupaverant Barbari. At illi neque obstare venientibus nec circumire praetergressos ausi funditorum maxime aspectu territi profugerant, eaque res Alexandro tutum agminis latus, quod ne superne incesseretur timuerat, praestitit. XXX et duo armatorum ordines ibant: neque enim latius extendi aciem patiebantur angustiae. Paulatim deinde et laxare se sinus montium et maius spatium aperire coeperant, ita ut non pedes solum ordine incedere, sed etiam lateribus circumfundi posset equitatus.

L’esercito allora si schierò in quest’ordine di battaglia. Nabarzane proteggeva l’ala destra con la cavalleria, in aggiunta a quasi ventimila arcieri e frombolieri. Nel medesimo posto vi era Timode, a capo di trentamila fanti mercenari greci. Questo era senza dubbio il nerbo dell’esercito, uno schieramento pari alla falange macedone. All’ala sinistra il tessalo Aristomede era a capo di ventimila fanti barbari. Aveva schierato come truppe di sostegno i popoli più bellicosi. Tremila cavalieri scelti, consueta guardia del corpo, e un corpo di fanteria di quarantamila uomini, tenevano dietro al re in persona, pronto a combattere all’ala sinistra. Quindi seguivano i cavalieri Ircani e i Medi: vicino ad essi la cavalleria delle altre popolazioni, disposta a destra e a sinistra dopo di essi. Seimila uomini armati di giavellotti e di fionde, come si è detto, precedevano questo esercito così schierato. Le truppe avevano occupato ogni luogo accessibile in quelle strettoie, e le ali stavano l’una ai piedi della montagna, l’altra alla riva del mare. La moglie e la madre del re e tutte le altre donne erano state sistemate al centro dello schieramento. Alessandro schierò di fronte la falange, formazione della quale nessun’altra era più efficiente tra i Macedoni. L’ala destra la presidiava Nicanore, figlio di Parmenione: vicino a lui c’erano Ceno, Perdicca, Meleagro, Tolomeo ed Aminta, ognuno a capo dei propri uomini. All’ala sinistra, che si estendeva verso il mare, si trovavano Cratero e Parmenione, con Cratero agli ordini di Parmenione. La cavalleria era schierata ad entrambe le ali: a destra i Macedoni, appoggiati dai Tessali, a sinistra i Peloponnesiaci. Davanti a questo schieramento aveva disposto un manipolo di frombolieri misti ad arcieri. L’avanguardia era costituita da Traci e Cretesi armati alla leggera. Inoltre oppose a coloro che, mandati da Dario, avevano preso possesso della parte alta della montagna, gli Agriani, da poco arrivati dalla Tracia. Inoltre aveva ordinato a Parmenione di estendere per quanto possibile l’esercito fino al mare, in modo che lo schieramento fosse il più distante possibile dai monti che avevano occupato i barbari. Ma questi ultimi, non osando né opporsi alle truppe che avanzavano verso di loro né circondare quelle che li avevano oltrepassati, e soprattutto spaventati alla vista dei frombolieri, erano scappati e ciò rese sicuro ad Alessandro il lato dello schieramento che lui aveva temuto che fosse assalito dall’alto. I ranghi avevano un fronte costituito da trentadue uomini: infatti le strettoie non permettevano che lo schieramento si estendesse più in largo. Poco a poco quindi gli spazi montani cominciavano a divenire più larghi e ad offrire maggior spazio, in modo che non solo i fanti potevano incrementare il fronte, ma anche i cavalieri dispiegarsi sui fianchi.

“L’India”

Alexander, ne otium aleret, in Indiam movit, semper bello quam post victoriam clarior. India tota ferme spectat orientem. Ex amnibus, indus gelidior est quam ceteri; aquas vehit a colore maris haud multum abhorrentes. Ganges a meridiana regione decurrit, et magnorum montium iuga recto alveo stringit. Uterque Rubro mari accipitur. Indus, ubi mollius solum reperit, stagnat insulasque format. Alia flumina, quia per ultimas Indiae terras currunt, minus clara sunt; ceterum nn solum crocodilos, ut Nilus, sed etiam delphinos ingnotasque beluas alunt. In illa plaga mundus temporum vices mutat: sic, cum alia fervore solis exaestuant, Indiam nives obruunt, rursusque, ubi cetera rigent, in India intolerandus aestus existit.

Alessandro, per non alimentare l’ozio, si mosse verso l’India, sempre più famoso per la guerra che dopo la vittoria. Quasi tutta l’India è rivolta a oriente. Tra i fiumi l’Indo è più gelido di tutti gli altri; trasporta le acque non molto dissimili dal colore del mare. Il Gange scorre dalla regione meridionale e taglia le cime di grandi montagne con un alveo diritto. Ciascuno dei due (fiumi) è ricevuto dal mar Rosso. L’Indo, dove trova un suolo più molle, ristagna e forma isole. Altri fiumi, poiché scorrono attraverso le estreme terre dell’India, sono meno famosi; del resto nutrono non solo coccodrilli, come il Nilo, ma anche delfini e bestie sconosciute. In quella zona il cielo muta l’alternarsi delle stagioni: così quando le altre terre sono roventi per il calore del sole, le nevi ricoprono l’India e al contrario, dove le altre regioni sono gelate, in India c’è un caldo insopportabile.

“Il sacrificio del re Codro”

Inter Dores et Athenienses cum veteres essent inimicitiae, Dores bellum Atheniensibus paraverant; sed antea oraculum Delphicum de belli exitu rogaverant. Pythia sacerdos legatis haec verba responderat: “Vestra erit victoria, nisi hostium regem necaveritis”. Itaque duces militibus imperaverant, ne Atheniensium regem necarent. Codrus, Atheniensium rex, qui oraculi responsum cognoverat, statim optavit ut morte sua patriam liberaret et populo pararet victoriam. Codrus enim vestem mutavit, ligna in humeros sibi imposuit et, quasi servus esset, in hostium castra intravit. Ibi verbis contumeliosis militis iram excitavit et eum falce vulneravit, tum ille gladio Codrum acriter interfecit. Hoc modo Dores inviti regem hostium necaverunt, qui morte voluntaria rem publicam Atheniensium magno periculo liberavit.

Poiche tra i Dori e gli Ateniesi c’erano antiche inimicizie, i Dori avevano preparato la guerra contro gli Ateniesi; ma prima avevano interrogato l’oracolo di Delfi sull’esito della guerra. La sacerdotessa Pizia aveva risposto ai legati con queste parole: “La vittoria sarà vostra se non ucciderete il re dei nemici”. Così i comandanti avevano ordinato ai soldati di non uccidere il re degli Ateniesi. Codro, re degli Ateniesi, il quale aveva subito conosciuto il responso dell’oracolo scelse di liberare la patria con la sua morte e di preparare la vittoria per il popolo. Infatti Codro cambiò abito, si mise dei legni sulle spalle e, e come se fosse un servo, entrò nell’accampamento dei nemici. In quel luogo provocò l’ira di un soldato con parole offensive e lo ferì con una falce, allora quello uccise barbaramente Codro con la spada. In questo modo i non sconfitti Dori uccisero il re dei nemici, il quale liberò lo stato degli Ateniesi da un grande pericolo con la morte volontaria.

“Gli inizi della guerra gallica”

Caesari nuntiatur Helvetiis esse in animo per agrum Sequanorum et Haeduorum iter in Santonum fines facere, qui non longe a Tolosatium finibus absunt, quae civitas est in provincia. Id putabat magnum periculum provinciae futurum esse, quia homines bellicosos, populi Romani inimicos, locis patentibus maximeque frumentariis finitimos habebat. Ob eas causas ei munitioni, quam fecerat, T. Labienum legatum praefecit; Caesar in Italiam magnis itineribus contendit duasque ibi legiones conscribit et tres, quae circum Aquileiam hiemabant, ex hibernis educit et, qua proximum iter in ulteriorem Galliam per Alpes erat, cum eis quinque legionibus contendit.

A Cesare venne riferito che gli Elvezi avevano intenzione di passare, attraverso le terre dei Sequani e degli Edui, nella regione dei Santoni, confinanti con i Tolosati, popolo compreso nella Provincia. Capiva che, se ciò fosse avvenuto, sarebbe stato molto pericoloso per la Provincia avere per vicini, in regioni piane e fertilissime, genti bellicose e nemiche dei Romani. Per questa ragione diede al legato T. Labieno il comando della linea fortificata che aveva costruito e a grandi giornate tornò in Italia, vi arruolò due legioni, fece uscire dai quartieri d’inverno le tre che erano nei pressi di Aquileia, e con queste cinque legioni ritornò in Gallia, passando per la strada più breve, attraverso le Alpi.

“Azioni e reazioni durante un assedio”

Magnus fons aquae sub ipsius oppidi muro prorumpebat. Itaque a nostris extruitur agger, in quo alta turris collocatur, non quidem quae menibus adaequet sed quae fontis fastigium superet. Ex qua cum tela tormentis iacerenturad fontis aditum, oppidani a fonte removebantur: qua re non solum homines, sed pecora atqu iumenta siti consumebantur. Quo malo perterriti, oppidani cupas sevo, pice, scandulis complebant; eas ardentes in opera provolvebant eodemque tempore acerrime pugnabant, ne Romani incendium restringuere possent. Magna repente in ipsis operibus flamma exstitit. Quaecumque enim per locum praecipitem missa erant, ea, vineis et aggere suppressa, incendebant id ipsium quod morabatur. Milites nostri, qui periculoso genere proelii premebantur, tamen omnia fortissimo sustinebant animo; quisquis in operibus erat, telis hostium flammaeque se praebebat.

Una grande fonte sgorgava dal muro della stessa città. E così dai nostri venne costruita una diga, nella quale venne collocata un’alta torre, che doveva non tanto raggiungere l’altezza delle mura ma superare l’altezza della fonte. Dalla torre le macchine da lancio scagliavano dardi verso l’accesso alla fonte e gli abitanti non potevano rifornirsi senza pericolo così non solo il bestiame e i giumenti soffrivano la sete, ma anche la grande massa dei nemici. Atterriti da questo male, gli abitanti riempivano barili di sego, pece, assicelle, gli davano fuoco e li facevano rotolare e nello stesso tempo combattevano strenuamente, perchè i Romani non potessero estinguere l’incendio. All’improvviso nelle stesse opere scoppiò una grande fiamma. Tutte erano mandate in un luogo in discesa, quelle, ostacolate dalle vigne e dal campo, incendiavano ciò stesso che tratteneva. I nostri soldati, che erano premuti dal pericoloso tipo di combattimento, tuttavia sostenevano ogni cosa con grande animo, chiunque era in opera, si offriva ai dardi dei nemici e alle fiamme.

“Gelosia di Dionisio nei confronti di Dione”

Plato autem tantum apud Dionysium auctoritate potuit valuitque eloquentia, ut ei persuaserit tyrannidis facere finem libertatemque reddere Syracusanis; a qua voluntate Philisti consilio deterritus aliquanto crudelior esse coepit. Qui quidem, cum a Dione se superari videret ingenio, auctoritate, amore populi, verens ne, si eum secum haberet, aliquam occasionem sui daret opprimendi, navem ei triremem dedit, qua Corinthum deveheretur, ostendens se id utriusque facere causa, ne, cum inter se timerent, alteruter alterum praeoccuparet. Id cum factum multi indignarentur magnaeque esset invidiae tyranno, Dionysius omnia, quae moveri poterant Dionis, in navis imposuit ad eumque misit. sic enim existimari volebat, id se non odio hominis, sed suae salutis fecisse causa. Postea vero quam audivit eum in Peloponneso manum comparare sibique bellum facere conari, Areten, Dionis uxorem, alii nuptum dedit filiumque eius sic educari iussit, ut indulgendo turpissimis imbueretur cupiditatibus. Nam puero, priusquam pubes esset, scorta adducebantur, vino epulisque obruebatur, neque ullum tempus sobrio relinquebatur.

Ora Platone godette di tanta autorità presso Dionisio e tanto poté con la sua eloquenza che lo persuase a porre fine alla tirannide ed a restituire la libertà ai Siracusani; ma il tiranno fu distolto da questa risoluzione dal consiglio di Filisto e cominciò ad essere ancora più crudele. Questi, in verità si rendeva conto che Dione lo superava in ingegno, prestigio e simpatia popolare e temendo che, se lo tenesse con sé, gli avrebbe offerto una qualche occasione per toglierlo di mezzo, gli dette una trireme, con la quale se ne andasse a Corinto, dicendogli chiaramente che faceva ciò per il bene di tutti e due, perché l’uno dei due, dato il reciproco timore, non sopraffacesse l’altro. Poiché molti erano indignati per questo fatto e c’era un grande risentimento contro il tiranno, Dionisio fece imbarcare su delle navi tutti i beni mobili di Dione e glieli spedì. Voleva infatti che si ritenesse che lui aveva agito così non tanto per odio della persona, ma per la sua propria incolumità. Ma quando venne a sapere che quello preparava nel Peloponneso un esercito e si apprestava a muovergli guerra, dette Areta la moglie di Dione in sposa ad un altro e ordinò che il figlio venisse educato in modo tale che, con l’assecondarlo in tutto, venisse fatto crescere tra i più turpi piaceri. Infatti al ragazzo, prima che diventasse adolescente, si portavano prostitute, si rimpinzava di vino e di cibi e non gli si lasciava alcun tempo per la sua sobrietà.

“Il suicidio di Arria”

Mea dicta erunt tibi legenti tam mirabilia quam mihi audienti fuerunt.
Arria, nobilis mulier, marito et solacium mortis et exemplum fuit. Aegrotabat Caecina Paetus maritus eius, aegrotabat et filius, uterque mortifere. Denique filius eorum decessit eximia pulchritudine, pari verecundia et a parentibus valde amatus. Huic illa funus paravit et exsequias duxit, sed maritum de illius morte non docuit. Immo quotiens cubiculum eius intrabat, vivere filium simulabat, ac persaepe marito de puero interroganti, respondebat: “Bene quievit, libenter cibum sumpsit”. Deinde, cum diu cohibitae lacrimae vincebant prorumpebantque, egrediebatur; tunc se dolori dabat; postea, satiata siccis oculis composito ore redibat. Ita, amisso filio. illa lacrimas abdebat. Postea, quia maritus ob morbum magno dolore conficiebatur, Arria gladium strinxit et suum pectus perfodit; deinde pugionem extraxit, marito porrexit et addidit hanc vocem, immortalem ac paene divinam: “Poete, non dolet”. Sed tamen ista facienti, ista dicenti, gloria et aeternitas ante oculos erant.

Le cose che sono state dette sono state tanto meravigliose a te che le leggevi quanto a me che le ascoltavo. Arria, donna nobile, fu al marito sia consolazione di morte che esempio. Suo marito Peto piangeva Cecina, piangeva il figlio, morti entrambi. Infine il figlio di questi morì di esimia bellezza, di simile verecondia amato fortemente dai genitori. Quella rovina preparò a questo e condusse le esequie, ma non il marito non seppe della morte di quello. Anzi ogni volta che entrava nella sua stanza, fingeva che il figlio vivesse, e spesso al marito che chiedeva del figlio, rispondeva: “Riposa tranquillo, assume tranquillamente il cibo”. Infine, quando a lungo trattenute le lacrime (queste) la vincevano, e quando uscivano (le lacrime) si allontanava; allora si dava al dolore, dopo saziata, asciugati gli occhi, ritornava con volto composto. Così, perso il figlio, nascondeva le lacrime. Dopo, poichè il marito era tormentato con grande sofferenza dalla malattia, Arria strinse la spada e la affondò nel suo petto; infine estrasse il pugnale, si inginocchiò al marito e aggiunse questa voce, immortale e quasi divina: “O Peto, non piangere”. Ma tuttavia queste cose che fai a te, queste cose che dici a te, la gloria e l’eternità saranno davanti ai tuoi occhi.

“La mutilazione delle Erme”

Bello Peloponnesio Alcibiadis consilio atque auctoritate Athenienses bellum Syracusanis indixerunt; ad quod gerendum ipse dux delectus est, duo praeterea collegae dati, Nicia et Lamachus. Id cum appararetur, priusquam classis exiret, accidit ut una nocte omnes Hermae, qui in oppido erant Athenis, deicerentur praeter unum, qui ante ianuam erat Andocidi. Itaque ille postea “Mercurius Andocidi” vocitatus est. Hoc cum appareret non sine magna multorum consensione esse factum, quae non ad privatam, sed publicam rem pertineret, magnus multitudini timor est iniectus, ne qua repentina vis in civitate exsisteret, quae libertatem opprimeret populi. Hoc maxime convenire in Alcibiadem videbatur, quod et potentior et maior quam privatus existimabatur: multos enim liberalitate devinxerat, plures etiam opera forensi suos reddiderat. Qua re fiebat ut omnium oculos, quotienscumque in publicum prodisset, ad se converteret neque ei par quisquam in civitate poneretur. Itaque non solum spem in eo habebant maximam, sed etiam timorem, quod et obesse plurimum et prodesse poterat. Aspergebatur etiam infamia, quod in domo sua facere mysteria dicebatur; quod nefas erat more Atheniensium, idque non ad religionem, sed ad coniurationem pertinere existimabatur.

Durante la guerra del Peloponneso gli Ateniesi, seguendo l’autorevole parere di Alcibiade, dichiararono guerra ai Siracusani; a condurla fu scelto come comandante lui stesso, inoltre (gli) furono assegnati due colleghi, Nicia e Lámaco. Mentre si preparava questa (guerra), prima che la flotta uscisse, accadde che in una sola notte tutte le Erme che c’erano nella città di Atene venissero abbattute, tranne una, che si trovava davanti alla porta (della casa) di Andocide. Perciò quello fu chiamato in seguito “Mercurio di Andocide”. Siccome era evidente che questa (azione) era stata compiuta non senza la massiccia complicità di molti, che non riguardava faccende private, ma pubbliche, nacque nella gente una grande paura che si verificasse nella città un improvviso colpo di Stato per sopprimere la libertà del popolo. Sembrava che questo si addicesse perfettamente ad Alcibiade, dato che era ritenuto troppo potente ed influente per (essere) un privato cittadino: infatti molti aveva legato con la (sua) generosità, più ancora aveva reso suoi (alleati) con la (sua) attività forense. Per questo accadeva che, ogni volta che si presentava in pubblico, attirasse su di sé gli occhi di tutti, e che nessuno in città fosse considerato pari a lui. Perciò non solo riponevano in lui grandissima speranza, ma (ne avevano) anche timore, perché poteva fare moltissimo male e (moltissimo) bene. Era inoltre macchiato da cattiva reputazione perché si diceva che in casa sua praticasse riti misterici, cosa che era vietata secondo la morale degli Ateniesi, e si riteneva che questo fosse in relazione non tanto con la religione, quanto con una congiura.

“Annibale e Flaminio combattono al lago Trasimeno”

Ex hiberis Hannibal per Etruriam ad Trasumenum lacum perverat, ibique in loco aperto castra posuit, pedites post montem locavit equitatumque apud saltus fauces occultavit. Romanorum exercitus quoque, a Flaminio consule ductus, ad lacum pervenit, angustias superavit et, postquam Poenorum castra copiasque in patenti campo conspexerant, ad hostes processit. Forte e lacu densa nebula surrexit atque omnia loca contexit; itaque consul Carthaginiensium indias supra caput inmpendentes non animadverit. Hannibal, ubi clausum lacu ac montibus et circumfusum suis copiis habuit hostem, signum omnibus dat pugnae. Carthaginienses undique in Romanos impetum fecerunt. Romani in fronte, in laevo cornu et post terga hostes habebant, montes lacumque in dextero cornu; prae strepitu ac tumultu consulis imperia non audiebantur. Praeterea visum et prope armorum usum densa caligo eripiebat. Tum terrificus terrae motus multas italicas urbes ac vicos prostravit avertitque cursu rapidos amnes et montes ingenti lapsu proruit, sed nemo pugnantium id sensit, tantus fuit ardor animorum in pugna. In tam atroci tumultu ingens fuit caedes. Hostium ictus multos Romanos obtruncaverunt; pauci per montium saltus evaserunt. Flaminius quoque in proelio strenue pugnans cecidit.

Dai quartieri invernali Annibale attraverso l’Etruria era giunto al lago Trasimeno, e qui in luogo aperto pose l’accampamento, posizionò i fanti alle spalle dei monti e nascose la cavalleria presso dei passaggi stretti della foresta. Anche l’esercito dei Romani, condotto dal console Flaminio, giunse al lago, superò le difficoltà e, dopo che avevano visto in campo aperto l’accampamento e le truppe dei Cartaginesi, avanzò contro i nemici. Per caso dal lago si sollevò una densa nebbia e oscurò ogni luogo; e così il console dei Cartaginesi non si rese contro della (indias) che incombevano sulla testa. Annibale, appena ebbe il nemico chiuso dal lago e dai monti e circondato con le sue truppe, dà a tutti il segnale della battaglia. I Cartaginesi da ogni parte fecero impeto contro i Romani. I Romani di fronte, avevano dal lato sinistro e alle spalle i nemici, e i monti e il lago dal lato destro; non sentirono per lo strepito e il tumulto gli ordini del console. Inoltre la densa nebbia sottraeva la vista e l’uso delle armi. Allora un tremendo terremoto devastò le molte città italiche e i vicoli e allontanò i rapidi fiumi nel corso e fece cadere in un grande crollo i monti, ma nessuno dei combattenti capì ciò, tanto fu l’ardore degli animi in battaglia. Nell’ingente tumulto grande fu la disfatta. I colpi dei nemici massacrarono molti Romani, pochi evasero attraverso i passi dei monti. Anche Flaminio cadde in battaglia combattendo strenuamente.

“L’apologo di Menenio Agrippa”

Cum Romana plebs a patribus in montem Sacrum secessissent, quod tributum et militiam non tolerabat, nec revocari posset, senatui placuit oratorem ad plebem mitti Menenuim Agrippam, facundum virum et, quod inde oriundus erat ei carum. Is in castra intromissus, hanc fabulam populo narravit: “Olim humani artus, cum ventrem otiosum cernerent, eum punire voluerunt et suum ministerium illi negaverunt. Cum eo modo et ipsi deficerent, intellexerunt ventrem in otio non esse sed acceptos cibos per omnia membra dissere, et cum eo in gratiam reverterunt; sic senatus et plebs quasi unum corpus discordia pereunt, concordia valent”. Rerum scriptores Romanam plebem hac fabula flexam in urbem revertisse tradunt.

Essendosi la plebe romana divisa dai senatori sul monte Sacro, perchè non tollerava il tributo e la milizia, nè potendo essere richiamato, il senato decise di mandare alla plebe come oratore Menenio Agrippa, uomo facondo e, perchè era oriundo, a quella caro. Questo entrato nell’accampamento, narrò questa storia al popolo: “Una volta le membra dell’uomo, vedendo il ventre ozioso, erano in dissidio con quello e cospirarono affinchè la mano non portasse il cibo alla bocca, affichè la bocca non prendesse ciò che gli veniva dato e i denti non lo masticassero. Ma mentre vogliono domare il ventre, loro stessi mancarono, e così tutto il corpo arrivò all’estrema consumazione. Così il ventre non sembrò per niente essere una funzione pigra, e che quello distribuiva tutti i cibi assunti attraverso tutte le membra. E così tornarono in pace con quello; così il senato e il popolo, come un corpo solo, periscono con la discordia, acquisiscono forza con la concordia”. Gli storici dicono che la plebe romana piegata da questa storia sia tornata in città.

“Le imprese di Augusto”

Annos undeviginti natus, exercitum privato consilio et privata impensa comparavi et rem publicam, a dominatione factionis oppressam, in libertate vindicavi. Milia
civium romanorum sub sacramento meo fuerunt circiter quingenta. Deduxi in colonias, aut remisi in municipia sua, milia aliquanto plura quamtrecenta et iis omnibus agros adsignavi aut pecuniam pto praemiis militiae dedi. Naves cepi sescentas. Bis ovans triuphavi et tres egi curules triumphos et appellatus sum semel et viciens imperator. Ob meas res terra marique prospere gestas
quinquagiens decrevit senatus dis immortalibus supplicationes. Supplicaverunt autem ex senatus consulto per dies DCCCLXXXX. In triumphis meis fuerunt ante currum meum reges et regum liberi novem. Consul fueram terdeciens cum scribebam haec princeps senatus fui per annos quadraginta.

A diciannove anni costituii un esercito con un’iniziativa e una spesa private; con tale esercito ho restituito la libertà allo Stato, oppresso dal potere delle fazioni. Cinquecentomila cittadini romani circa mi prestarono giuramento militare. Con costoro fondai colonie e, quando ebbero concluso il servizio militare, ne riassegnai ai loro municipi poco più di trecentomila, assegnando a ognuno di loro poderi o offrendo denaro come premio per la milizia. Catturai seicento navi, senza contare quelle più piccole di una trireme. A causa delle mie imprese felicemente portate a termine il senato decretò che si dovessero rivolgere agli dei immortali pubbliche preghiere di ringraziamento per cinquantacinque volte. Poi pregarono per deliberazione del senato per 890 giorni. Nei miei trionfi davanti al mio cocchio c’erano nove re o figli di re. Quando scrivevo queste cose ero stato console per tredici volte e capo del senato per quaranta anni.

“Accorto stratagemma di Scipione”

Scipio Romam rediit et ante legitimam aetatem consul factus est. Ei Sicilia provincia decreta est, permissumque est ut in Africam inde traiceret. Qui, cum vellet ex fortissimis peditibus romanis trecentorum equitum numerum complere, nec posset illos statim armis et equis instruere, id prudenti consilio perfecit. Trecentos iuvenes, ex omni sicilia nobilissimos et ditissimos, elegit, velut eos ad oppugnandam Carthaginem secum ducturus eosque iussit celeriter arma et equos parare. Edicto imperatoris paruerunt iuvenes, sed ne longinquum et grave bellum esset timebant. Tunc Scipio remisit illis istam expeditionem, si arma et equos militibus romanis vellent tradere. Laeti condicionem acceperunt iuvenes siculi. Ita Scipio sine publica impensa suos instruxit equites.

Scipione tornò a Roma e fu fatto console prima dell’età conforme alla legge. A quello venne affidata la provincia della Sicilia, e fu permesso di traghettare fino in Africa. Quello, volendo aumentare da fortissimi fanti romani il numero di trecendo cavalieri, nè potendo quelli subito disporre di armi e cavalli, eseguì ciò con prundente consiglio. Scelse trecento giovani, i più nobili della Sicilia e i più ricchi, per condurli con lui per assediare Cartagine e li comandò di preparare velocemente armi e cavalli. I giovani obbedirono all’editto del generale, ma temevano che la guerra fosse lunga e grave. Allora Scipione rimandò a quelli questa spedizione, se volessero consegnare ai soldati romani armi e cavalli. I giovani siciliani accolsero lieti la condizione. Così Scipione senza spesa pubblica preparò i suoi cavalieri.

“Datame sfugge a un attentato del re Artaserse”

Datames, cum ei nuntiatum esset quosdam sibi insidiari, qui in amicorum erant numero, experiri voluit, verum falsumne sibi esset relatum. Itaque eo profectus est, in quo itinere futuras insidias dixerant. Sed elegit corpore ac statura simillimum sui eique vestitum suum dedit atque eo loco ire, quo ipse consuerat, iussit; ipse autem ornatu vestituque militari inter corporis custodes iter facere coepit. At insidiatores, postquam in eum locum agmen pervenit, decepti ordine atque vestitu impetum in eum faciunt, qui suppositus erat. Praedixerat autem iis Datames, cum quibus iter faciebat, ut parati essent facere, quod ipsum vidissent. Ipse, ut concurrentes insidiatores animum advertit, tela in eos coniecit. Hoc idem cum universi fecissent, priusquam pervenirent ad eum, quem aggredi volebant, confixi conciderunt.

Datame, essendogli stato annunciato che gli tendevano insidie alcuni che erano nel numero dei (suoi) amici, volle sperimentare se gli fosse stato riferito il vero o il falso. Pertanto andò là dove gli era stato detto che ci sarebbe stato l’agguato. Ma scelse uno schiavo di aspetto e di statura molto simile a sé e gli diede il suo vestito e gli ordinò di aggirarsi dove egli stesso era solito (aggirarsi); egli stesso invece, incominciò a marciare con vestito e distintivi di soldato tra le guardie del corpo. Ma gli attentatori, dopo che la schiera giunse in quel luogo, ingannati dalla posizione e dall’abbigliamento, fanno impeto contro colui che era stato messo al posto (di Datame). Datame, però aveva precedentemente detto a coloro con i quali faceva il cammino che fossero pronti a fare ciò che avessero visto fare a lui. Lo stesso (Datame), come vide gli attentatori accorrere, lanciò dardi contro di loro. Avendo fatto questa medesima cosa tutti quanti, (gli attentatori), prima che raggiungessero colui che volevano aggredire, caddero trafitti.

“Serse lascia la Grecia”

Rex Xerxes, etsi apud Salamina male rem gesserat, tamen tantas habebat reliquias copiarum, ut etiam tum his opprimere posset hostes. Iterum ab eodem gradu depulsus est. Nam Themistocles verens, ne bellare perseveraret, certiorem eum fecit id agi, ut pons, quem ille in Hellesponto fecerat, dissolveretur ac reditu in Asiam excluderetur, idque ei persuasit. Itaque qua sex mensibus iter fecerat, eadem minus diebus XXX in Asiam reversus est seque a Themistocle non superatum, sed conservatum iudicavit. Sic unius viri prudentia Graecia liberata est Europaeque succubuit Asia. Haec altera victoria, quae cum Marathonio possit comparari tropaeo. Nam pari modo apud Salamina parvo numero navium maxima post hominum memoriam classis est devicta.

Il Re Serse, anche se presso Salamina non riuscì nell’impresa, tuttavia aveva così tanti avanzi di truppe da poter vincere i nemici con quelle anche allora: di nuovo fu tenuto in sacco dallo stesso generale. Infatti temistocle, temendo che continuasse a combattere, lo informò di essere spinto a ciò, affinchè il ponte che egli aveva fatto nell’Ellesponto, fosse tagliato e fosse impedito il ritorno in Asia, e lo convinse di ciò. Poichè per quella via aveva viaggiato per sei mesi, (per mezzo de) la stessa ritornò in asia in meno di trenta giorni e giudicò di non essere stato vinto da Temistocle, ma di essersi salvato. Così per la saggezza di un solo uomo la Grecia fu liberata e l’Asia fu vinta dall’Europa. Questa fu un’altra vittoria, per la quale con (quella di) Maratona possa essere allestito un trofeo. Poichè allo stesso modo presso Salamina con un piccolo numero di navi a memoria d’uomo la flotta fu sottomessa.

“Tre innocenti condannati a morte”

Cnaeus Piso fuit memoria nostra uir a multis uitiis integer, sed prauus et cui placebat pro constantia rigor. Is cum iratus duci iussisset eum qui ex commeatu sine commilitone redierat, quasi interfecisset quem non exhibebat, roganti tempus aliquid ad conquirendum non dedit. Damnatus extra uallum productus est et iam ceruicem porrigebat, cum subito apparuit ille commilito qui occisus uidebatur. Tunc centurio supplicio praepositus condere gladium speculatorem iubet, damnatum ad Pisonem reducit redditurus Pisoni innocentiam; nam militi fortuna reddiderat. Ingenti concursu deducuntur complexi alter alterum cum magno gaudio castrorum commilitones. Conscendit tribunal furens Piso ac iubet duci utrumque, et eum militem qui non occiderat et eum qui non perierat. Quid hoc indignius? Quia unus innocens apparuerat, duo peribant. Piso adiecit et tertium; nam ipsum centurionem qui damnatum reduxerat duci iussit. Constituti sunt in eodem illo loco perituri tres ob unius innocentiam. O quam sollers est iracundia ad fingendas causas furoris! “Te” inquit “duci iubeo, quia damnatus es; te, quia causa damnationis commilitoni fuisti; te, quia iussus occidere imperatori non paruisti”.

Gneo Pisone, uomo che ricordiamo, fu esente da molti vizi, ma fu un perverso che scambiava per costanza il rigore. Costui, avendo ordinato, in preda all’ira, la pena di morte per un soldato che era tornato da un permesso senza il commilitone, pensando che avesse ucciso colui che non era in grado di presentare, non aderì alla sua richiesta di un breve rinvio per una ricerca. Il condannato fu condotto fuori del recinto e ormai porgeva il collo, quando, all’improvviso, apparve quel commilitone che si pretendeva fosse stato assassinato. Allora il centurione, responsabile dell’esecuzione, comanda all’ordinanza di riporre la spada e riconduce il condannato da Pisone, per restituire a Pisone l’innocenza: al soldato, l’aveva già restituita un colpo di fortuna. Circondati da tutti, vengono condotti, mentre s’abbracciano l’un l’altro tra l’esultanza dell’accampamento, i due compagni d’armi. Pisone, furibondo, sale sul tribunale ed ordina l’esecuzione di tutti e due, tanto del soldato che non aveva ucciso, quanto di quello che non era morto. Poteva esserci iniquità peggiore? Perchè uno s’era dimostrato innocente, ne dovevano morire due. Pisone aggiunse anche il terzo: ordinò infatti addirittura l’esecuzione del centurione che aveva condotto indietro il condannato. Così furono schierati per morire nello stesso posto tre uomini, a causa dell’innocenza di uno. Oh, quanto è avveduta l’iracondia, nell’inventare cause di furore! “Ordino” – disse – “la tua esecuzione, perchè sei stato condannato; la tua, perchè sei stato la causa della condanna del tuo compagno; la tua, perchè, ricevuto l’ordine di uccidere, non hai ubbidito al comandante supremo”.

“Il cane da guardia”

Quis bestiam homini noxiam vel furem clariore voce praedicat quam canis? Quis est famulus amantior dominis? Quis fidelior comes? Quis custos cane incorruptior? Quis excubitor vigilantior? Quis denique ultor constantior? Igitur in primis canem habere et servare debet agricola magna cum diligentia, ut villam et fructus et familiam et stabulum et pecora custodiat.

Chi annuncia all’uomo con il verso più forte la bestia dannosa o il ladro come il cane? Chi è il più affettuoso servitore del padrone? Chi è il compagno più fedele? Chi è il custode più incorruttibile? Chi è il guardiano più attento? Chi è il vendicatore più severo? Perciò il contadino deve possedere e accudire questo animale, perchè protegge la villa, il raccolto, la famiglia la stalla e il gregge.

“Il senato dichiara guerra a Filippo di Macedonia”

Anno quingentesimo quinquagesimo primo ab Urbe condita, bellum cum rege Philippo indictum est, paucis mensibus post pacem Carthaginiensibus datam. Primum eam rem Publius Sulpicius consul ad senatum rettulit, qui decrevit ut consules maioribus hostiis rem divinam facerent et post hanc rem divinam de repubblica deque provinciis senatum consulerent. Per eos dies et litterae ab M. Aurelio legato et M. Valerio Laevino propraetore apportatae sunt et Atheniensium nova legatio venit, quae regem appropinquare finibus suis nuntiaret, brevique non agros modo, sed ipsam urbem in dicionem regis venturam esse. Litterae Aurelii Valerique lectae sunt et legati Atheniensium auditi. Senatus deinde consultum decrevit ut sociis gratiae agerentur, quod ne obsidionis quidem metu decessissent fide. De auxilio mittendo placuit ut Philippo, Macedonum regi, indiceretur bellum.

Nell’anno 551 dalla fondazione di Roma, fu dichiarata guerra contro il re Filippo, pochi mesi dopo che era stata concessa la pace ai Cartaginesi. Dapprima il console Publio Sulpicio riportò questa questione al senato, che stabilì che i consoli facessero un sacrificio con animali adulti e dopo questo sacrificio consultassero il senato sullo stato e sulle provincie. Durante quei giorni fu consegnata una lettera dal legato M. Aurelio e dal propretore M. Valerio Levino e venne una nuova ambasciata degli ateniesi, che annunciava che il re si stava avvicinando ai loro confini, e a breve non solo i campi, ma la stessa città sarebbe caduta sotto il dominio del re. La lettera fu letta da Aurelio e da Valerio e gli altri ambasciatori furono ascoltati. Una decisione del senato decretò che si ringraziassero gli alleati, poichè nemmeno per il timore di un assedio erano mancati di fedeltà. Riguardo a mandare truppe ausiliarie si stabilì di dichiarare guerra a Filippo, re dei macedoni.

“Reazioni diverse alla morte di Alessandro”

Exstincto Alexandro in ipso aetatis flore, triste apud omnes tota Babylonia silentium fuit. Sed devictae gentes fidem nuntio non habuerunt, quod invictum regem immortalem esse credebant, recordantes quotiens praesenti morti ereptus esset, quam saepe, cum mortuus creditus esset, sospitem et victorem se suis obtulisset. Ut vero mortis eius fides adfuit, omnes barbarae gentes, paulo antea ab eo devictae, non ut hostem sed ut parentem luxerunt. Mater quoque Darei regis, quam a fastigio tantae maiestatis in servitutem redactam indulgentia victoris in eam diem vitae non paenituerat, mortem sibi ipsa conscivit, non quod hostem filio praeferret, sed quod pietatem filii in victore experta erat. Macedones contra non ut civem ac tantae maiestatis regem, sed ut hostem amissus gaudebant, et severitatem nimiam et assidua belli pericula exsecrantes.

Quando Alessandro spirò, nel fiore della sua giovinezza, in tutta Babilonia, e da tutti, fu osservato un religioso silenzio. D’altra parte, le popolazioni sconfitte non credettero alla notizia, perchè ritenevano il re – mai sconfitto – immortale, tenendo conto del gran numero di volte in cui egli fosse scampato a pericoli mortali, e di quante volte, creduto morto, si fosse mostrato ai suoi (soldati) sano e salvo e vincitore. Tuttavia, quando la notizia della sua morte fu confermata, tutti i popoli stranieri, precedentemente soggiogati da lui, lo piansero non come un nemico, ma alla stregua di un familiare. La stessa madre del re Dario – che da una posizione di grande prestigio si era ritrovata ad essere schiava, ma che fino a quel giorno non aveva potuto dirsi scontenta, vista la buona disposizione del vincitore – si diede la morte, non perchè prediligesse il nemico al figlio, ma perchè nel vincitore (ovvero in Alessandro) aveva ritrovato la stessa disposizione alla pietà del (proprio) figlio.
I Macedoni, invece, godevano d’aver perso Alessandro, ritenendolo non alla stregua di un concittadino o di un re tanto glorioso, bensì di un nemico, cui rimproveravano sia l’eccessiva severità, sia i continui pericoli bellici.

“Contrastanti reazioni alla notizia della morte di Alessandro Magno”

Extincto in ipso aetatis ac victoriarum flore Alexandro Magno, triste apud amnes tota Babylonia silentium fuit. Sed nec devictae gentes fidem nuntio habuerunt, quod ut invictum regem ita immortalem esse crediderant, recordantes quotiens presenti morte ereptus esset, quam seape pro amisso repente se non sospitem tantum suis, verum etiam victorem obtulisset. Ut vero mortis eius fides adfuit, omnes barbarae gentes paulo ante a beo divictae non ut hostem eum, sed ut parentem luxerunt. Mater quoque Darei regis, quam, amisso filio, a fastigio tantae maiestatis in captivitatem redactam indulgentia victoris in eam diem vitae non paenituerant, aidita morte Alexandri mortem sibi ipsa conscivit, non quod hostem filio praeferret, sed quod pietatem filii in eo, quem ut hostem timuerat, experta esset. Contra Macedones versa vice non ut civem ac tantae maiestatis regem, verum ut hostem amissum gaudebant, et severitatem nimiam et adsidula belli pericula execrantes.

Morto che fu Alessandro Magno proprio nel fiore degli anni e all’apice della vittoria, vi fu un triste silenzio presso ognuno in tutta Babilonia. Ma neppure le popolazioni battute diedero credito alla notizia, poiché essi avevano pensato che come il re era invincibile così fosse immortale, ricordando quante volte fosse stato strappato alla morte imminente, quanto spesso, anziché morto, non solo si fosse mostrato ai suoi improvvisamente sano e salvo, ma anche vincitore. Quando però la notizia della sua morte prese piede, tutte le genti barbare poco prima sconfitte da lui non lo piansero come un nemico, ma come un genitore. Pure la madre del re Dario, che, perso il figlio, dalla grandezza di tanta maestà ridotta in prigionia, fino a quel giorno non aveva avuto motivo di lamentarsi della vita per la generosità del vincitore, saputo della morte di Alessandro lei stessa si diede la morte, non per il fatto che preferisse il nemico al figlio, ma per il fatto che aveva sperimentato la devozione di un figlio in quell’uomo, che aveva temuto in quanto nemico. Al contrario i Macedoni, con atteggiamento opposto, non come concittadino e re di cotanta grandezza, ma in verità si rallegravano come se avessero perso un nemico, maledicendo sia l’eccessiva severità sia i continui pericoli della guerra.

“Le nozze del sole”

Aesopus celebres nuptias furis prope incolentis vidit. Propinqui et amici undique convenerunt et festum agebant. Tota domus cantibus resonabat. Aesopus autem, magna sollicitudine affectus, continuo narrare incepit: “Olim Sol uxorem ducere cupiebat, ideoque ranae magnum strepitum usque ad sidera sustulerunt. Iuppiter, ranarum tumultu vehementer permotus, causam querelae quaesivit. Tunc respondens, stagni habitatrix: “Nunc unus Sol”, inquit, “omnes lacus exurit ideoque miseras ranas demigrare aut in arida sede morti occumbere cogit. Si igitur etiam liberos procreaverit, nulla rana superstes erit”.

Esopo vide le celebri nozze del ladro vicino alle abitazioni. Parenti e amici vennero da ogni parte e facevano festa. Tutta la casa risuonava di canti. Esopo tuttavia, affetto da grande preoccupazione, iniziò a narrare di continuo: “Una volta il sole desiderava sposarsi, e così le rane portarono un grande strepito fino agli astri. Giove, mosso fortemente dal tumulto delle rane, chiese il motivo della lamentela. Allora rispondendo una abitatrice dello stagno disse: “Ora solo il sole inaridisce tutti i laghi e così costringe le povere rane ad andare via o a soccombere alla morte nell’arida sede. Se dunque farà figli, non vi sarà nessuna rana superstite”.

“Le prime guerre dei romani”

Adsidui vero et anniversarii Romanorum hostes ab Etruria fuere Veientes, tamen extraordinariam manum adversus eos promisit privatumque gessit bellum gens una Fabiorum. Caesi sunt apud flumen Cremeram trecenti Fabii, patricius exercitus, sed clades ingentibus victoriis espiata est, postquam robusta oppida capta sunt, vario quidem eventu. Falisci sponte se dediderunt, crematae sunt igne Fidenae, direpti sunt funditus deletique Veientes. Dum Falisci obsiduntur, mira apparuit fides imperatoris, nec immerito, quod ludi magistrum, urbis proditorem, cum discipulis ultro remiserat. Namque vir sanctus et sapiens sciebat veram victoriam salva fide et integra dignitate pari. Fidenates, quia pares non erant ferro, ut terrorem Romanis inicerent, facibus armati et discoloribus serpentium in modum vittis furiali more processerant; sed habitus ille feralis eversionis omen fuit. Veii capti sunt post decennem obsidionem.

Assidui e continui nemici dei romani dall’Etruria furono i Veienti, tuttavia solo la Gens dei Fabi impiegò contro loro uno straordinario manipolo e fece guerra. Trecento Fabi, esercito patrizio, furono uccisi presso il fiume Cremera, ma la disfatta venne vendicata con molte vittorie, dopo che vennere conquistate forti città, con diverso evento. I Falisci si consegnarono spontaneamente, i Fidenati furono dati alle fiamme, i Veienti furono saccheggiati e distrutti totalmente. Mentre i Falisci venivano assediati, la bravura dell’imperatore apparve straordinaria nè senza merito, perchè fece andare dall’altra parte un maestro di scuola, traditore della citta con i discepoli, e infatti l’uomo buono e sapiente sapeva che la vera vittoria viene preparata da una fiducia intatta e da una dignità totale. I Fidenati, poichè non erano armati allo stesso modo, per incutere terrore ai romani, erano avanzati armati di torce e con fasce variopinte di serpenti secondo l’uso, ma quell’abito fu presagio di una tremenda distruzione. I Veienti vennero presi solo dopo dieci anni di assedio.

Ad Lucilium, V, 45, 9(“In che cosa consiste la vera felicità”)

Hoc nos doce, beatum non eum esse quem vulgus appellat, ad quem pecunia magna confluxit, sed illum cui bonum omne in animo est, erectum et excelsum et mirabilia calcantem, qui neminem videt cum quo se commutatum velit, qui hominem ea sola parte aestimat qua homo est, qui natura magistra utitur, ad illius leges componitur, sic vivit quomodo illa praescripsit; cui bona sua nulla vis excutit, qui mala in bonum vertit, certus iudicii, inconcussus, intrepidus; quem aliqua vis movet, nulla perturbat; quem fortuna, cum quod habuit telum nocentissimum vi maxima intorsit, pungit, non vulnerat, et hoc raro; nam cetera eius tela, quibus genus humanum debellatur, grandinis more dissultant, quae incussa tectis sine ullo habitatoris incommodo crepitat ac solvitur.

Insegnaci che non è felice l’uomo definito tale dalla massa, e che dispone di molto denaro, ma quello che possiede ogni suo bene nell’intimo e si erge fiero e nobile calpestando ciò che desta l’ammirazione degli altri; che non trova nessuno con cui vorrebbe cambiarsi; che stima un uomo per quella sola parte per cui è uomo; che si avvale del magistero della natura, si uniforma alle sue leggi e vive secondo le sue regole; l’uomo al quale nessuna forza può strappare i propri beni, che volge il male in bene, sicuro nei giudizi, costante, intrepido; che una qualche forza può scuotere, nessuna può turbare; che la sorte, quando gli scaglia contro la sua arma più micidiale con la massima violenza, riesce a pungere, e raramente, ma non a ferire; le altre armi, con cui la fortuna prostra il genere umano, rimbalzano come la grandine, che battendo sui tetti senza causare danni agli inquilini, crepita e si scioglie.

Ad Lucilium, XV, 95, 51-52-53 (“Filosofia e felicità“)

Ecce altera quaestio, quomodo hominibus sit utendum. Quid agimus? Quae damus praecepta? Ut parcamus sanguini humano? Quantulum est ei non nocere cui debeas prodesse! Magna scilicet laus est si homo mansuetus homini est. Praecipiemus ut naufrago manum porrigat, erranti viam monstret, cum esuriente panem suum dividat? Quare omnia quae praestanda ac vitanda sunt dicam? Cum possim breviter hanc illi formulam humani offici tradere: omne hoc quod vides, quo divina atque humana conclusa sunt, unum est; membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos edidit, cum ex isdem et in eadem gigneret; haec nobis amorem indidit mutuum et sociabiles fecit. Illa aequum iustumque composuit; ex illius constitutione miserius est nocere quam laedi; ex illius imperio paratae sint iuvandis manus. Ille versus et in pectore et in ore sit: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. Habeamus in commune: nati sumus. Societas nostra lapidum fornicationi simillima est, quae, casura nisi in vicem obstarent, hoc ipso sustinetur.

Ecco un altro problema, come dobbiamo comportarci con gli uomini? Che cosa dobbiamo fare? quali precetti dobbiamo dare? E che dobbiamo risparmiare il sangue umano? Che poca cosa è non nuocere a colui tu devi giovare! È davvero grande cosa se un uomo è clemente con un altro uomo. Consiglieremo di porgere la mano al naufrago, di mostrare la via al viaggiatore, di dividere il suo pane con colui che ha fame? Quando dirò tutte le cose che si devono fare e quali si devono evitare? Mentre posso brevemente trasmettergli questa formula dei doveri umani e tutto questo che vedi da cui è racchiuso ogni elemento divino ed umano, è unico e siamo membra di un grande corpo. La natura ci ha creato parenti poiché ci ha generato da quelli e in vista di quelli. Questa ci ha infuso un amore reciproco e ci ha fatto “sociali”. Quella metteva insieme il giusto e l’equo, sulla base delle sue norme è più misero nuocere che ricevere un’offesa: ai suoi comandi le mai siano pronte ad aiutare. Quel verso sia ben radicato nel cuore e sulle labbra: “Sono un uomo, nulla di umano ritengo a me estraneo”. Teniamo presente questo: siamo nati per vivere in comune: la nostra società è molto simile ad una volta di pietre che, è destinata a cadere se non si sorreggessero a vicenda, proprio per questo è sostenuta.