“Un ritardo fatale”

Erat in Alexandri exercitu vir Perses, nomine Sisenes. Quondam a praetore Aegypti missus erat ad Philippum, Alexandri patrem, et, quod omni honore multisque donis ornatus erat, nova sede patriam suam mutaverat. Deinde in Asiam cum Alexandro transierat et fidem erga imperatorem semper conservaverat. Siseni epistulam miserat Nabarzanes, praetor Darei, qua ad coniurationem contra Alexandrum incitabatur. Sed epistula antea in manus Alexandri pervenerat; rex quoniam fidem barbari aestimare volebat, per militem Cretensem Siseni epistulam tradidit. Perses, ignarus rei et innoxius, ad Alexandrum saepe epistulam deferre temptavit, sed, quod rex multis curis apparatuque belli urguebatur; tempus opportunum exspecatbat. Denique, quoniam complures dies transierant neque licterae traditae erant, Sisenes suspicionem scelesti consilii praebuit et in agmine iussu Alexandri occisus est.

C’era nell’esercito di Alessandro un uomo persiano, di nome Siseno. Una volta mandato dal pretore di Egitto da Filippo, padre di Alessandro, e, poichè era stato ornato di molto onore e doni, aveva cambiato con una nuova sede la sua patria. Infine era andato in Asia con Alessandro e aveva conservato sempre fiducia verso l’imperatore. Nabarzane, pretore di Dario, aveva mandato a Siseno una lettera, con la quale era incitato alla ribellione contro Alessandro. Ma la lettera era giunta prima nelle mani di Alessandro, il re poichè voleva testare la fiducia del barbaro, consegnò a Siseno la lettera per mezzo di un soldato cretese. Il persiano, ignaro del re e onesto, tentò di mostrare ad Alessandro la lettera, ma, poichè il re era indaffarado da molti affanni e dall’allestimento della guerra, aspettava il tempo opportuno. Infine, poichè erano trascorsi molti giorni e la lettera non era stata consegnata, Siseno destò il sospetto dello scellerato piano e fu ucciso per ordine di Alessandro in combattimento.

“L’imperatore Claudio: verità e pregiudizi”

Dum senatus post Caligulae caedem de liberatis restitutione deliberat, tradunt a praetorianis militaribus Claudium, Drusi filium et Caligulae patruum, imperatorem salutatum esse. Antiqui rerum scriptores eum esse virum non indoctum et satis bonae indolis, sed ineptum et vercordem atque libertorum et uxorum imperiis obnoxium. Claudium dicebat se bella in odium habere et litterarum studia tantum diligere. Scimus enim ab eo multos historiarum libros, vel Latino vel Graeco sermone, scriptos esse. Constat autem eum Britannis bellum indixisse et, postquam eos devicit, insulas ultra Britanniam positas, quae Orcades appellantur, Romano imperio addidisse, filioque “Britannicum” nomen imposuisse. Messalina interfecta, Agrippinam uxorem duxit; sed narrant eam, quoniam Neroni, filio suo, imperium conciliare cupiebat, maritum veneno necavisse.

Mentre il senato dopo la morte di Caligola deliberava sulla restituzione della libertà, dicono che dai soldati pretoriani sia stato salutato imperatore Claudio, figlio di Druso e zio paterno di Caligola. Gli antichi storici dicono che fosse un uomo non indotto e di abbastanza buona indole, ma inetto e verecondio e soggetto ai voleri dei servi e della moglie. Claudio diceva di odiare le guerre e di preferire lo studio della letteratura. Sappiamo infatti che da quello siano stati scritti molti libri di storia, o in latino o in greco. E’ noto che tuttavia quello abbia proclamato guerra ai Britanni e dopo che li vinse abbia aggiunto all’impero Romano un’isola oltre la Britannia che è chiamata Orcadi, e che gli abbia imposto il nome di Britannico dal nome del figlio. Messalina uccisa, sposò Agrippina, ma narrano che quella poichè a Nerone, suo figlio, desiderava affidare il potere, abbia ucciso con il veleno il marito.

“L’incendio di Roma”

Nero quasi offensus deformitate veterum aedificorum etangustiis flexurisque vicorum, incendit urbem tam palam, ut plerique consulares cubicularios eius cum stuppa taedaque in praediis suis deprehensos non attigerint, et quaedam horrea circum domum Auream, quorum spatium maxime desiderabat, ut bellicis machinis labefacta atque inflammata sint quod saxeo muro constructa erant. Per sex dies septemque noctes ea clade saevitum est ad monumentorum bustorumque deversoria plebe compulsa. Tunc praeter immensum numerum insularum domus priscorum ducum arserunt hostilibus adhuc spoliis adornatae deorumque aedes ab regibus ac deinde Punicis et Gallicis bellis votae dedicataeque, et quidquid visendum atque memorabile ex antiquitate duraverat. Hoc incendium e turre Maecenantina prospectans laetusque “flammae”, ut aiebat, “pulchritudine” Halosin Ilii in illo suo scaenico habitu decantavit.

Nerone con il pretesto che era disgustato dalla bruttezza degli antichi edifici e dalla strettezza e sinuosità delle strade, incendiò Roma e lo fece così apertamente che molti ex consoli, avendo sorpreso nei loro possedimenti alcuni suoi servi di camera con stoppa e torce tra le mani, non osarono toccarli, mentre alcuni magazzini di grano, che occupavano presso la “Casa dorata” un terreno da lui ardentemente desiderato, furono abbattuti con macchine da guerra e incendiati perché erano stati costruiti con muri di pietra. Il fuoco divampò per sei giorni e sette notti, obbligando la plebe a cercare alloggio nei monumenti pubblici e nelle tombe. Allora, oltre ad un incalcolabile numero di agglomerati di case, il fuoco divorò le abitazioni dei generali di un tempo, ancora adornate delle spoglie dei nemici, i templi degli dei che erano stati votati e consacrati sia al tempo dei re, sia durante le guerre puniche e galliche e infine tutti i monumenti curiosi e memorabili che restavano del passato. Nerone contemplò questo incendio dall’alto della torre di Mecenate e affascinato, come diceva, dalla “bellezza della fiamma”, cantò la a Presa di Troia, indossando il suo vestito da teatro.

“Elogio di Cicerone”

Nam mihi videtur M. Tullius, cum se totum ad imitationem Graecorum contulisset, efffinxisse vim Demosthenis, copiam Platonis, iucunditatem Isocratis. Nec vero quod in quoque optimum fuit, studio consecutus est tantum, sed plurimas vel potius omnes ex se ipsa virtutes extulit immortalis ingenii beatissima ubertas. Non enim “pluvias”, ut ait Pidarus, “aquas colligit, sed vivo gurgite exundat”, dono quodam providentiae genitus, in quo totas vires suas eloquentia experiretur. Nam quis docere diligentius, movere vehementius potest? Cui tanta umquam iucunditas adfuit?

A me pare infatti che Marco Tullio, nel suo dedicarsi interamente all’imitazione dei greci, abbia riprodotto la forza di Demostene, la ricchezza di Platone e l’arrendevolezza di Isocrate. Ma tutti i pregi che si trovano in quegli autori non gli erano giunti soltanto con lo studio: la maggior parte delle sue virtù (o meglio, tutte) le ha prodotte la felicissima ricchezza del suo talento immortale, traendole da se stesso. Non si limita infatti a raccogliere, come dice Pindaro, le acque piovane, ma trabocca con la sua viva corrente: la sua nascita è stato un dono della provvidenza, affinché l’eloquenza potesse mettere alla prova in lui tutte le proprie possibilità. Dovrebbe infatti formare gli ascoltatori con maggior diligenza? Chi ha mai avuto tanto fascino?

“Una contrastata storia d’amore a lieto fine (2a parte)”

Postquam hic me domum ad se deduxit, video amicam mei eri. Sed ea cum me aspexit, oculis mihi signum dedit, ne se appellarem. Deinde, cum occasio est, mulier fortunam suam mecum deplorat; dicit se athenas fugere cupere ex hac domu, sese amare illum, qui athenis meus erus fuerat, neque peius quemquam odisse quam istum militem. Ego, quoniam mulieris sententiam cognovi, epistulam scripsi, consignavi et clam dedi mercatori ut eam deferret ad erum, ut is huc veniret. Is non sprevit nuntium; nam et venit et hic est apud suum paternum hospitem, lepidum senem. Ille nos opera consolioque iuvat. Itaque ego paravi hic intus magnas machinas, ut amantes convenirent.

Dopo che mi condusse da lui, vedo che c’è una mia amica. Ma quella quando mi vide, mi fece segno con gli occhi, affinchè non la chiamassi. Infine, quando vi è l’occasione, la donna si lamenta con me della sua sorte, dice che lei desidera fuggire ad Atene da questa casa, che lei ama quello, che era stato il mio padrone ad Atene, nè che lo odia in maniera peggiore di quando odia questo soldato. Io, poichè ho capito la sentenza della donna, ho scritto una lettera, l’ho consegnata e data di nascosto ad un commerciante affinchè la portasse al padrone in modo che quello venisse qui. Egli non rfiuta il nunzio, infatti sia venne sia si trova qui presso il suo ospite paterno, un simpatico vecchietto. Quello ci aiuta con la sua opera e consiglio. E così io ho preparato grandi macchinazioni, per fare unire gli amanti.

“Una contrastata storia d’amore a lieto fine (1a parte)”

Erat Athenis mihi erus adulescens optimus. Is amabat mulierem et illa illum. Is atheniensium legatus Naupactum missus est, ut de magnis rebus ageret. Interim hic miles forte athenas advenit, insinuat sese ad illam amicam mei eri, sibi conciliat voluntatem eius matris vino, cibo, ornamentis. Sed cum evenit huit militi occasio illam eludit; nam is illius filiam conicit in navem clam matrem suam eamque ephesum invitam advehit. Cum scio illam athenis avectam esse, ego quam celerrime navem paro et in eam inscendo, ut eam rem Naupactum ad erum nuntiem. Sed cum in alto sumus, fit quod di volunt: capiunt praedones navem illam. Ille qui me cepit dat me dono huic militi.

Ad Atene avevo come padrone un giovane bravissimo. Egli amava la sua meretrice, e lei lui. fu mandato a Naupatto come ambasciatore degli Ateniesi, per discutere di affari importanti. Nel frattempo giunge per caso qui ad Atene un soldato, si insinua presso l’amante del mio padrone, si guadagna la condiscendenza di sua madre con vino, cibo e ornamenti. Ma quando a questo soldato si presentò l’occasione, la raggirò; infatti mise la figlia di quella sulla nave di nascosto da sua madre e la portò ad Efeso contro la sua volontà. quando vengo a sapere che quella era stata portata via da Atene, preparo una nave il più velocemente possibile e salpo, per riferire il fatto al mio padrone a Naupatto. ma quando siamo in alto mare, accade ciò che vogliono gli Dei: i pirati prendono quella nave. Colui che mi prese mi dà in dono a questo soldato.

“Una contrastata storia d’amore a lieto fine (1a parte)”

Erat erus meus Athenis iuvenis optimus. Is amabat puellam et illa illum. Is Naupactum missus est Atheniensium legatus, ut de magnis rebus ageret. Interim hic miles forte Athenas advenit, insinut sese ad illam amicam mei eri, incipit eius matri subpalpari vino, cibo ornamentisque variis. Sed cum huic militi evenit occasio, isillam, id est matrem puellae quam erus meus amabat, eludit; nam miles illius filiam conicit in navem clam matrem suam eamque huc Ephesum invitam advehit. Cum scio illam Athenis avectam esse, ego quam celerrime mihi navem paro et in eam inscendo ut id Naupactum ad erum nuntiem. Sed cum in alto sumus, acidit id quod dii volunt: capiunt praedones navem illam ubi vehebar. Ille, qui me cepit, dat me dono huic militi.

Era il mio padrone di Atene un ottimo giovane. Questo amava una fanciulla e quella lui. Questo fu mandato a Naupatto come luogotenente degli Ateniesi per fare grandi cose. Intanto un soldato venne ad Atene, si intrufolò presso quell’amica del mio padrone e iniziò ad arruffianarsene la madre offrendo vino, cibo e ornamenti vari ma quando al soldato venne l’occasione, quello eluse quella che è la madre della fanciulla che il mio padrone amava. Infatti il soldato gettò sua figlia nella nave di nascosto da sua madre e la trascinò lei controvoglia ad Efeso. Quando so che quella è giunta ad Atene, io ho preparato quanto più velocemente la nave e sono salito in quella per recarmi a Naupatto a informare il mio padrone. Ma quando siamo in alto mare, accade quello che gli Dei vogliono: i predoni prendono quella nave in cui ero trasportato. Quello, che mi prende, dà me in dono a questo soldato.

De Senectute, 56

Poteratne tantus animus efficere non iucundam senctutem? Sed venio ad agricolas, ne a me ipso recedam. In agris erant tum senatores, id est senes, siquidem aranti L. Quinctio Cincinnato nuntiatum est eum dictatorem esse factum; cuius dictatoris iussu magister equitum C. Servilius Ahala Sp. Maelium regnum adpetentem occupatum interemit. A villa in senatum arcessebatur et Curius et ceteri senes, ex quo, qui eos arcessebant viatores nominati sunt. Num igitur horum senectus miserabilis fuit, qui se agri cultione oblectabant? Mea quidem sententia haud scio an nulla beatior possit esse, neque solum officio, quod hominum generi universo cultura agrorum est salutaris, sed et delectatione, quam dixi, et saturitate copiaque rerum omnium, quae ad victum hominum, ad cultum etiam deorum pertinent, ut, quoniam haec quidem desiderant, in gratiam iam cum voluptate redeamus. Semper enim boni assiduique domini referta cella vinaria, olearia, etiam penaria est, villaque tota locuples est, abundat porco, haedo, agno, gallina, lacte, caseo, melle. Iam hortum ipsi agricolae succidiam alteram appellant. Conditiora facit haec supervacaneis etiam operis aucupium atque venatio.

Un animo così grande poteva forse non rendergli piacevole la vecchiaia? Ma vengo ai contadini per non allontanarmi da me stesso. In quel tempo i senatori, cioè dei vecchi, passavano la vita in campagna se è vero che Lucio Quinzio Cincinnato stava arando quando ricevette la notizia della sua nomina a dittatore; per ordine di Cincinnato, dittatore, il comandante della cavalleria Caio Servilio Ahala prevenne il complotto di Spurio Melio che aspirava alla tirannide e lo uccise. Curio e gli altri vecchi venivano convocati in senato dalle loro case di campagna; per cui furono detti “corrieri” i messi che li andavano a chiamare. Allora, era forse da compatire la vecchiaia di uomini che passavano il tempo a coltivar la terra? Personalmente, dubito che esista vecchiaia più felice: non solo per la funzione che svolge, in quanto l’agricoltura è utile a tutto il genere umano, ma anche perché procura il diletto, di cui ho parlato, e la profusione di tutto quel che serve al sostentamento degli uomini e anche al culto degli dèi e, dal momento che alcuni non riescono proprio a fare a meno di questi beni, eccoci riconciliati con il piacere. In realtà, un padrone abile e attivo ha sempre rifornite la cantina, l’orciaia e la dispensa, tutta la sua villa è ricca e ha in abbondanza maiali, capretti, agnelli, galline, latte, formaggio e miele. E poi c’è l’orto che i contadini stessi chiamano seconda dispensa. A rendere più piacevole questa vita anche nel tempo libero contribuisce la caccia agli uccelli e all’altra selvaggina.

“La mesopotamia”

Inter Tigrim et Euphratem iacet terra Asiae uberrima et feracissima. Causa fertilitatis est humor, qui ex Tigri et Euphrate manat: humor copiosissimus est et in omne fere solum densissimis aquarum venis promanat. Duo amnes ex altissimis Armeniae montibus scaturiunt. Primo, brevi intervallo procedunt; postremo iter pristinum percurrunt. Cum Mediae et Gordyaeorum terras secant, paulatim artiore intervallo procedunt et angustius inter se spatium terrae relinquunt. Vicinissimi sunt in campis, quos incolae “Mesopotamiam” appellant: nam terra “media” est inter duo flumina. Tandem, Per Babyloniorum fines, in Rubrum mare irrumpunt.

Tra il Tigri e l’Eufrate giace la fertilissima e ricchissima terra dell’Asia. La causa della fertilità è l’acqua, che scorre dal Tigri e l’Eufrate: l’acqua è abbondantissima e scorre nei ruscelli pieni d’acqua di tutte le terre selvagge. Due fiumi scaturiscono dagli altissimi monti dell’Armenia. All’inizio, procedono a breve distanza; infine percorrono il tratto di prima. Quando tagliano le terre della Media e dei Gordici, procedono per un po’ in un percorso più stretto e lasciano il tratto di terra più stretto tra di loro. Sono vicinissimi ai campi, che gli abitanti chiamano “Mesopotamia”: infatti la terra è in mezzo tra i due fiumi. Alla fine, attraverso il confine dei Babilonesi, irrompono nel mare Rosso.

“Dolore per la morte di un giovane amico”

Dolorem ex morte Iunii Aviti gravissimum cepi, quod in primo aetatis flore exstinctus est iuvenis tantae indolis, maxima consecutus, summa consecuturus, si virtutes eius maturescere potuissent. Ille in domo mea latum clavum inderat; me diligebat, me verebatur, me quasi magistro utebatur. Rarum hoc est in adulescentibus nostris; nam quasi cedit vel aetati cuiusdam vel auctoritati? Adulescentes arbitrantur se statim sapere et scire omnia, nec quemquam verentur nec imitantur. Sed non Avitur, qui semper discere volebat et omnes prudentiores quam se arbitrabatur. Semper ille aliquem consulebat aut de studiis aut de officiis vitae. Secutus est ut comes Servianum legatum ex germania en Pannoniam transeuntem. Et labores virtutesque eius et nostri sermones obversantur oculis meis. Afficior magno dolore ob mortem illius nec nunc ullam aliam cogitationem quam de eo habere possum.

Ho provato un dolore grandissimo dalla morte di Giulio Avito, poiché un giovane di cosi straordinaria indole venne a mancare all’inizio della giovinezza dopo avere ottenuto grandissimi onori, destinato ad ottenere cose ancora più grandi se le sue qualità avessero potuto maturare. Egli in casa mia aveva indossato il laticlavio; mi amava, mi rispettava, si serviva di me come di un maestro. Ciò è raro nei nostri adolescenti; infatti chi si sottomette all’età e all’autorità di una persona? Gli adolescenti ritengono di essere subito sapienti e di sapere tutto, e non temono né imitano nessuno. Ma non Avitio, che voleva sempre imparare e riteneva tutti più saggi di lui. Egli consultava sempre qualcuno o sugli studi o sui compiti della vita. Seguì come compagno Serviano che passava dalla Germania alla Pannonia in qualità di ambasciatore. E le sue fatiche e le sue virtù e i nostri discorsi sono presenti davanti i miei occhi. Sono afflitto da un grande dolore a causa della sua morte ed ora non posso avere nessun altro pensiero che di lui.

De Otio, 8

Adice nunc [huc] quod e lege Chrysippi vivere otioso licet: non dico ut otium patiatur, sed ut eligat. Negant nostri sapientem ad quamlibet rem publicam accessurum; quid autem interest quomodo sapiens ad otium veniat, utrum quia res publica illi deest an quia ipse rei publicae, si omnibus defutura res publica est? Semper autem deerit fastidiose quaerentibus.
Interrogo ad quam rem publicam sapiens sit accessurus. Ad Atheniensium, in qua Socrates damnatur, Aristoteles ne damnetur fugit? in qua opprimit invidia virtutes? Negabis mihi accessurum ad hanc rem publicam sapientem. Ad Carthaginiensium ergo rem publicam sapiens accedet, in qua adsidua seditio et optimo cuique infesta libertas est, summa aequi ac boni vilitas, adversus hostes inhumana crudelitas, etiam adversus suos hostilis? Et hanc fugiet.
Si percensere singulas voluero, nullam inveniam quae sapientem aut quam sapiens pati possit. Quodsi non invenitur illa res publica quam nobis fingimus, incipit omnibus esse otium necessarium, quia quod unum praeferri poterat otio nusquam est.
Si quis dicit optimum esse navigare, deinde negat navigandum in eo mari in quo naufragia fieri soleant et frequenter subitae tempestates sint quae rectorem in contrarium rapiant, puto hic me vetat navem solvere, quamquam laudet navigationem.

Aggiungi, a questo punto, adesso, che è ammesso dalla dottrina di Crisippo vivere nell’ozio, non dico che la sopporti, ma che (lo) scelga. I nostri negano che un saggio parteciperà a qualsiasi tipo di vita pubblica; che importa in che modo il saggio vive nell’ozio? Se perchè gli manca uni Stato oppure è lui a mancare allo Stato, sempre, infatti viene meno a coloro che lo cercano con impegno fastidioso.
Domando a che modello di Stato il saggio possa accedere. A quello ateniese dove un Socrate è condannato ed un Aristotele fugge per evitare la condanna? Dove l’invidia opprime la virtù? Dirai che il saggio non accede a questo Stato. Accederà allora a quello cartaginese, dove le sedizioni sono all’ordine del giorno, la libertà è esiziale per tutti i migliori, il bene e la giustizia non valgono assolutamente a nulla, si è disumanamente crudeli con i nemici e si trattano da nemici i concittadini? Fuggirà anche da questo.
Se volessi passarli in rivista ad uno ad uno, non ne troverei nessuno che possa tollerare il saggio o essere da lui tollerato. Ma se quel modello di Stato che noi immaginiamo non esiste, la virtù ritirata incomincia ad essere indispensabile per tutti, perchè la sola cosa che potrebbe essere preferita al ritiro non esiste da nessuna parte.
Se qualcuno mi dice che viaggiare per mare è bellissimo, ma poi aggiunge che non si deve navigare nei mari dove si verificano naufragi e frequenti tempeste improvvise trascinano il pilota contro rotta, io penso che costui mi proibisca di salpare, mentre elogia la navigazione.

“Mi fermerò un giorno a Tiferno, poi ti raggiungerò”

Ea quae de vobis nuntiabantur magnum gaudium nobis attulerunt, praesertim quod cupis post longum tempus neptem tuam meque una videre. Invicem nos incredibili quodam desiderio vestri tenemur, quod non ultra differemus; atque ideo iam sarcinulas alligamus festinaturi, quantum itineris ratio permiserit. Erit una sed brevis mora: deflectemus in Tuscos, non ut oculis subiciamus agros, sed ut fungamur necessario officio. Oppidum est praediis nostris vicinum, cui Tifemum Tiberinum nomen est quod oppidum, omnibus consentientibus, me paene adhuc puerum dignum existimavit qui suus patronus essem. Qua re adventus meos celebrat, profectionibus angitur, honoribus meis gaudet. Et, quoniam sum qui vinci in amore turpissimum esse iudicem, ut gratiam referrem templum pecunia mea exstruxi, cuius dedicationem differre longius irreligiosum est. Erimus ergo ibi dedicationis die, quem epulo celebrare constitui. Postridie, amicis salutatis, rursus itineri nos committemus,viamque ipsam corripiemus. Contingat modo te filiamque tuam fortes invenire! Vale.

Le tue nuove ci hanno riempito di grande gioia, soprattutto perchè desideri, dopo tanto tempo, rivederci, tua nipote e me. Anche noi, dal canto nostro, nutriamo un incredibile, e improrogabile, desiderio di rivederti. Ma già prepariamo i bagagli per la partenza, con l’intenzione di sbrigarci, strade permettendo. Faremo un’unica sosta, ma breve: devieremo alla volta della villa di Toscana, (ma) non per ispezionare i campi, bensì per ottemperare ad un necessario impegno. C’è una cittadina, chiamata Tiferno Tiberino, adiacente alle nostre proprietà, la qual cittadina, all’unanimità, mi stimò degno – ed ero quasi ancora fanciullo – d’essere suo patrono. Per la qual cosa, (la cittadinanza) accoglie in festa i miei arrivi, si duole per le mie partenze, s’inorgoglisce per i miei successi. Ora, poichè sono uno che ritiene molto sgarbato esser vinto in quanto ad affetto, ho fatto costruire, a mie spese, un tempio, a mo’ di ringraziamento, (tempio) la cui inaugurazione sarebbe empio differire ancora. Ci troveremo dunque lì per il giorno dell’inaugurazione, che ho deciso di celebrare con un banchetto. Il giorno seguente, dopo aver salutato gli amici, ci rimetteremo in viaggio lungo il precedente itinerario. Mi auguro di trovare te e tua figlia in buona salute! Stammi bene.

“Le conquiste di Alessandro Magno”

Alexander, Philippi et Olympiadis filius, admodum peritus rei militaris fuit. Ex urbe Pella Macedoniae cum exercitu suo in Asiam venit, ubi aciem contra Darium, regem Persarum, instruixit; primum apud Granicum flumen, deinde apud Issum, in Cilicia, tertio apud Arbela eum vicit: ingentes copias peditatus equitatusque profligavit. Mox regem Indorum et omnes Asiae gentes sub protestate sua redegit et nobiles urbes Asiae cepit, Sardes, Bactra, Susa, Babyloniam; multas tribus barbaras subegit; ad sinum Persicum pervenit.

Alessandro, figlio di Filippo e di Olimpia, fu molto esperto dell’arte militare. Dalla città di Pella in Macedonia venne con il suo esercito in Asia, dove allestì una battaglia contro Dario, re dei Persiani; dapprima vinse presso il fiume Granico, poi presso Isso, in Cilicia, la terza volta presso Arbela: sbaragliò le ingenti milizie della fanteria e della cavalleria. Subito ridusse in suo potere il re degli Indiani e tutte le popolazione dell’Asia e conquistò le famose città dell’Asia, Sardi, Battra, Susa, Babilonia; sottomise molte genti barbare; raggiunse il golfo persico.

Divus Claudius, 2

Claudius natus est Iullo Antonio Fabio Africano conss. Kal. Aug. Luguduni eo ipso die quo primum ara ibi Augusto dedicata est, appellatusque Tiberius Claudius Drusus. Mox fratre maiore in Iuliam familiam adoptato Germanici cognomen assumpsit. Infans autem relictus a patre ac per omne fere pueritiae atque adulescentiae tempus variis et tenacibus morbis conflictatus est, adeo ut animo simul et corpore hebetato ne progressa quidem aetate ulli publico privatoque muneri habilis existimaretur. Diu atque etiam post tutelam receptam alieni arbitrii et sub paedagogo fuit; quem barbarum et olim superiumentarium ex industria sibi appositum, ut se quibuscumque de causis quam saevissime coerceret, ipse quodam libello conqueritur. Ob hanc eandem valitudinem et gladiatorio munere, quod simul cum fratre memoriae patris edebat, palliolatus novo more praesedit; et togae virilis die circa mediam noctem sine sollemni officio lectica in Capitolium latus est.

Claudio nacque durante il consolato di Giulio Antonio e Fabio Africano, a Lione, il primo agosto nello stesso giorno in cui vi si consacrò per la prima volta un altare ad Augusto, e fu chiamato Tiberio Claudio Druso. In seguito, quando suo fratello maggiore entrò a titolo di adozione nella famiglia Giulia, prese il soprannome di Germanico. Perse il padre quando era ancora bambino e per quasi tutta la fanciullezza e l’adolescenza fu tormentato da diverse malattie persistenti, tanto che, debole di spirito come di corpo, lo si giudicò inabile, anche in un’età più avanzata, a tutte le funzioni pubbliche e private. Per parecchio tempo, anche dopo che fu uscito di tutela, rimase sotto il controllo degli altri e sotto la direzione di un precettore: lui stesso, nelle sue memorie, lamenta che quest’uomo, un barbaro a suo tempo sovraintendente di mandrie, gli era stato imposto per castigarlo il più severamente possibile, con il più futile pretesto. Sempre a causa della sua salute, presiedette un combattimento di gladiatori, che aveva organizzato unitamente al fratello in ricordo del padre, con un cappuccio in testa, cosa contraria ad ogni tradizione; e quando prese la toga virile, verso la mezzanotte fu portato in lettiga al Campidoglio, senza nessuna solennità.

“I Romani in gravi difficoltà”

Caesar, cum ad dextrum cornu pervenisset, suos urgeri a gallis vidit, signis in unum locum adductis, quartae cohortis omnibus centurionibus occisis, signo amisso, primipilo P. Sextio Baculo fortissimo viro, multis gravibusque vulneribus confecto. Ubi animadvertit multos suos milites tardiores esse et nonnullos, deserto proelio, loco excedere ut tela vitarent, scuto uni militi detracto, quod ipse sine scuto in pugnam venerat, suorum omnium animos confirmavit. Postea Caesar signa inferre et manipulos laxare iussit. Ducis adventu spe reddita militibus ac redintegrato animo, omnes milites suam virtutem ostendere optabant in imperatoris conspectu etiam in extremis suis rebus, itaque paulum hostium impetus tardatus est.

Cesare, terminato il suo discorso alla decima legione, si diresse verso l’ala destra, dove vide che i suoi erano alle strette e che i soldati della dodicesima legione, vicini l’uno all’altro, si impacciavano a vicenda, perché le insegne erano state raccolte in un sol luogo; tutti i centurioni e un vessillifero della quarta coorte erano caduti, il vessillo perduto, quasi tutti i centurioni delle altre coorti morti o feriti; tra di essi il primipilo P. Sestio Baculo, soldato di grandissimo valore, non riusciva più a reggersi in piedi, sfinito com’era dalle numerose e gravi ferite; gli altri andavano esaurendo le forze e alcuni della retroguardia, rimasti senza comandanti, lasciavano la mischia e si sottraevano ai colpi; il nemico non cessava di avanzare dal basso frontalmente e di premere dai lati. Quando vide che la situazione era critica e che non aveva truppe di rincalzo, prese lo scudo a un soldato della retroguardia (perché era giunto fin lì senza), avanzò in prima linea, si rivolse ai centurioni chiamandoli per nome, uno per uno, arringò i soldati e diede l’ordine di muovere all’attacco e di allargare i manipoli, perché i nostri potessero usare le spade con maggior facilità. Il suo arrivo infuse fiducia nei soldati e restituì loro il coraggio: ciascuno, pur in una situazione di estremo pericolo, voleva dar prova di valore agli occhi del comandante, per cui l’impeto dei nemici per un po’ venne frenato.

“Temistocle scrive ad Artaserse chiedendo ospitalità”

Scio plerosque ita scripsisse, Themistoclem, Xerxe regnante, in Asiam transisse. Sed ego potissimum Thucydidi credo, quod aetate proximus de iis, qui illorum temporum historiam reliquerunt, et eiusdem civitatis fuit. Is autem ait ad Artaxerxen eum venisse atque his verbis epistulam misisse: “Themistocles veni ad te, qui plurima mala in domum tuam intuli, quamdiu mihi necesse fuit adversum patrem tuum bellare patriamque meam defendere. Idem multo plura bona feci, postquam in tuto ipse et ille in periculo esse coepit. Nam cum in Asiam reverti vellet, proelio apud Salamina facto, litteris eum certiorem feci id agi, ut pons, quem in Hellesponto fecerat, dissolveretur atque ab hostibus circumiretur: quo nuntio ille periculo est liberatus. Nunc autem confugi ad te exagitatus a cuncta Graecia, tuam petens amicitiam: quam si ero adeptus, non minus me bonum amicum habebis, quam fortem inimicum ille expertus est”.

So che la maggior parte (degli scrittori) così ha scritto, che Temistocle andò in Asia, sotto il regno di Serse. Ma io credo di più a Tucidide perché fu il più vicino (a lui) di tempo tra coloro che lasciarono un’opera storica di quei tempi, e fu suo concittadino. Egli per altro afferma che Temistocle si recò da Artaserse e (gli) mandò una lettera con queste parole: “Sono giunto da te (io) Temistocle, che ho arrecato moltissimi mali alla (tua) casa, per tutto il tempo che fu necessario per me far guerra contro tuo padre e difendere la mia patria. (Ma) nello stesso tempo (gli) recai molti più beni, dopo che io stesso incominciai ad essere al sicuro ed egli in pericolo. Infatti, allorché (egli), dopo la battaglia di Salamina, voleva ritornare in Asia, lo informai con una lettera che si progettava di distruggere il ponte, che aveva costruito sull’Ellesponto, e di farlo accerchiare dai nemici: e con quella informazione egli fu liberato dal pericolo. Ora, però, mi sono rifugiato da te, perseguitato da tutta la Grecia, chiedendo la tua amicizia: e se la otterrò non avrai (in) me un amico meno valido di quanto forte avversario egli (= tuo padre) mi sperimentò”.

“L’orgogliosa sicurezza di un patrizio”

Hoc superbum Scipionis Nasicae responsum memoriae traditum est. Cum res publica annona laboraret, tribunus plebis quidam consules in contionem convocavit et ab iis postulabat ut referrent de frumento emendo et de legatis mittendis ad id negotium explicandum. Cuius rei, quam inutilem putabat, impediendi causa Scipio Nasica loqui orsus est. Obstrepente plebe: “Tacete – inquit – Romani, plus ego quam vos quid rei publicae prosit intellego”. Qua voce audita, omnes, magna reverentia capti, maiorem respectum auctoritatis eius quam suorum alimentorum egerunt.

Questa orgogliosa risposta di Scipione Nasica è tramandata alla memoria. Lavorando la repubblica sulla raccolta del frumento, il tribuno della plebe convocò qualche console in assemblea e a quelli domandò affinché rispondessero sul frumento da comprare e sui legati da mandare a questo lavoro da sbrigare. Scipio Nasica cominciò a parlare con grazia di impedire quella cosa che riteneva inutile. Allora alla plebe che schiamazzava: “Tacete per favore Romani – disse – che cosa sia a favore dello stato ne so più io che voi”. Tutti sentita quella voce, colti da una grande reverenza, porsero maggior rispetto della sua autorità che dei loro alimenti.

De Coniuratione Catilinae, 14 (“L’ambiente cittadino in cui viveva Catilina”)

In tanta tamque corrupta civitate Catilina, id quod factu facillimum erat, omnium flagitiorum atque facinorum circum se tamquam stipatorum cateruas habebat. Nam quicumque impudicus adulter ganeo manu ventre pene bona patria laceraverat, quique alienum aes grande conflaverat, quo flagitium aut facinus redimeret, praeterea omnes undique parricidae sacrilegi conuicti iudiciis aut pro factis iudicium timentes, ad hoc quos manus atque lingua periurio aut sanguine civili alebat, postremo omnes quos flagitium egestas conscius animus exagitabat, ii Catilinae proximi familiaresque erant. Quod si quis etiam a culpa vacuos in amicitiam eius inciderat, cottidiano usu atque illecebris facile par similisque ceteris efficiebatur. Sed maxime adulescentium familiaritates appetebat: eorum animi molles etiam et [aetate] fluxi dolis haud difficulter capiebantur. Nam ut cuiusque studium ex aetate flagrabat, aliis scorta praebere, aliis canes atque equos mercare; postremo neque sumptui neque modestiae suae parcere, dum illos obnoxios fidosque sibi faceret. Scio fuisse nonnullos, qui ita existimarent iuventutem, quae domum Catilinae frequentabat, parum honeste pudicitiam habuisse; sed ex aliis rebus magis, quam quod cuiquam id compertum foret, haec fama valebat.

In una città così grande e corrotta Catilina, cosa che era facilissima a farsi, aveva attorno a se bande di depravati e di criminali come guardie del corpo. Infatti qualsiasi impudico, adultero, crapulone che aveva scialacquato il patrimonio ereditato con il gioco, con i banchetti e col sesso, e quello che aveva contratto un grande debito, per riscattare una vergogna, un delitto, e inoltre da ogni parte tutti i parricidi, i sacrileghi, i pregiudicati e quelli che temevano un processo per le (loro) azioni, inoltre coloro ai quali davano sostentamento la mano e la lingua con lo spergiuro e con il sangue civile, e infine tutti quelli che il delitto, la povertà, il rimorso tormentava, (tutti) questi erano amici intimi di Catilina. E se qualcuno era caduto nella sua amicizia anche vuoto di colpa, con la frequentazione quotidiana e con le lusinghe facilmente era reso del tutto simile agli altri. Ma desiderava moltissimo la compagnia dei giovani: i loro animi molli e malleabili per l’età erano presi senza difficoltà dalle frodi. Infatti a seconda di come il desiderio di entrambi ardeva a causa dell’età, ad alcuni procurava donne, ad altri comprava cani e cavalli; infine non badava né a spese né alla sua reputazione, purché rendesse quelli obbedienti e fidati verso di lui. So che c’è stato qualcuno, che così pensava, (e cioè) che la gioventù, che frequentava la casa di Catilina, fosse stata sfacciatamente impudica, ma questa voce correva per altri motivi, più perché qualcuno l’avesse accertato.

“Il culto di Cerere e Proserpina in Sicilia”

Vetus est haec opinio, iudices, quae constat ex antiquissimis Graecorum litteris ac monumentis, insulam Siciliam totam esse Cereri et Liberae consecratam. Hoc cum ceterae gentes sic arbitrantur, tum ipsis Siculis ita persuasum est ut in animis eorum insitum atque innatum esse videatur. Nam et natas esse has in his locis deas et fruges in ea terra primum repertas esse arbitrantur, et raptam esse Liberam, quam eandem Proserpinam vocant, ex Hennensium nemore, qui locus, quod in media est insula situs, umbilicus Siciliae nominatur. Quam cum investigare et conquirere Ceres vellet, dicitur inflammasse taedas iis ignibus qui ex Aetnae vertice erumpunt; quas sibi cum ipsa praeferret, orbem omnem peragrasse terrarum.
Henna autem, ubi ea quae dico gesta esse memorantur, est loco perexcelso atque edito, quo in summo est aequata agri planities et aquae perennes, tota vero ab omni aditu circumcisa atque directa est; quam circa lacus lucique sunt plurimi atque laetissimi flores omni tempore anni, locus ut ipse raptum illum virginis, quem iam a pueris accepimus, declarare videatur.

O giudici, è antica tradizione, che si fonda su antichissimi documenti e testimonianze dei Greci, che l’isola di Sicilia sia tutta quanta consacrata a Cerere e a Libera. Mentre, da una parte gli altri popoli pensano così (ovvero che si tratti di una credenza) dall’altra gli stessi Siciliani ne sono convinti a tal punto che ciò sembra essere impresso ed innato nei loro animi. Infatti ritengono che queste dee siano originarie di questi luoghi e ritengono anche che in tale regione si sia stata introdotta per la prima volta la coltivazione dei cereali, e che Libera, che essi chiamano anche Proserpina, sia stata rapita dal bosco di Enna, luogo che, poiché si trova in mezzo all’isola, è chiamato ombelico della Sicilia. Si tramanda che Cerere, volendo mettersi sulle tracce di Proserpina, accese delle fiaccole con le fiamme che erompono dal cratere dell’Etna e, protendendole dinnanzi a sè, attraversò l’intero mondo.
Tornando ad Enna, dove, stando alla leggenda, sono accaduti i fatti che sto raccontando, è collocata in una zona molto alta e dominante, sulla cui sommità si slarga una grande pianura e (scorrono) acque perenni; tuttavia, da tutti i lati di accesso, essa si presenta interamente scoscesa e a picco. Intorno ad essa ci sono moltissimi laghi e boschi e rigogliosissimi fiori in ogni stagione dell’anno, tanto che il luogo stesso sembra testimoniare apertamente quel famoso rapimento della vergine, che fin da fanciulli abbiamo conosciuto.

De Rerum Natura, V, vv. 1379-1411

At liquidas avium voces imitarier ore
ante fuit multo quam levia carmina cantu
concelebrare homines possent aurisque iuvare.
et zephyri cava per calamorum sibila primum
agrestis docuere cavas inflare cicutas.
inde minutatim dulcis didicere querellas,
tibia quas fundit digitis pulsata canentum,
avia per nemora ac silvas saltusque reperta,
per loca pastorum deserta atque otia dia.
[sic unum quicquid paulatim protrahit aetas
in medium ratioque in luminis eruit oras.]
haec animos ollis mulcebant atque iuvabant
cum satiate cibi; nam tum sunt omnia cordi.
saepe itaque inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivom sub ramis arboris altae.
non magnis opibus iucunde corpora habebant,
praesertim cum tempestas ridebat et anni
tempora pingebant viridantis floribus herbas.
tum ioca, tum sermo, tum dulces esse cachinni
consuerant; agrestis enim tum musa vigebat.
tum caput atque umeros plexis redimire coronis
floribus et foliis lascivia laeta movebat,
atque extra numerum procedere membra moventes
duriter et duro terram pede pellere matrem;
unde oriebantur risus dulcesque cachinni,
omnia quod nova tum magis haec et mira vigebant.
et vigilantibus hinc aderant solacia somno
ducere multimodis voces et flectere cantus
et supera calamos unco percurrere labro;
unde etiam vigiles nunc haec accepta tuentur.
et numerum servare genus didicere, neque hilo
maiore interea capiunt dulcedine fructum
quam silvestre genus capiebat terrigenarum.

Ma l’imitare con la bocca le limpide voci degli uccelli
fu molto prima che gli uomini fossero capaci di praticare
il canto di versi armoniosi e dilettare gli orecchi.
E i sibili dello zefiro per le cavità delle canne dapprima
insegnarono ai campagnoli a soffiare entro cave zampogne.
Poi a poco a poco appresero i dolci lamenti
che effonde il flauto toccato dalle dita dei sonatori,
scoperto fra remoti boschi e selve e pascoli,
nei solinghi luoghi dei pastori e negli ozi divini.
[Così gradatamente il tempo rivela ogni cosa,
e la ragione la innalza alle plaghe della luce.]
Questi suoni carezzavano loro gli animi e davano diletto,
quando erano sazi di cibo; allora infatti tutto è caro al cuore.
Spesso, dunque, familiarmente distesi sull’erba morbida,
presso un ruscello, sotto i rami di un albero alto,
con tenui mezzi davano giocondità ai corpi,
soprattutto quando il tempo arrideva e la stagione
dipingeva di fiori le erbe verdeggianti.
Allora solevano esserci gli scherzi, allora i conversari, allora i dolci
scoppi di gaiezza; allora infatti la musa agreste era in rigoglio;
allora una libera allegria li spingeva a ornare il capo
e le spalle con corone intrecciate di fiori e di foglie,
e ad avanzare in danza senza ritmo, duramente movendo
le membra, e a battere con duro piede la madre terra;
di lì nascevano risa e dolci scoppi di gaiezza, perché allora
tutte queste cose, più nuove e meravigliose, erano pregiate.
E se vegliavano, di qui avevano sollievo per il sonno perduto:
far passare la voce per molti toni e modulare il canto,
e correre col labbro incurvato su per le canne del flauto;
donde venne questa usanza che anche ora conservano le scolte,
e hanno imparato a osservare i tipi dei ritmi, ma intanto
non colgono affatto un frutto di dolcezza maggiore di quello
che coglieva la stirpe silvestre dei figli della terra.

“La condizione dell’emigrante”

Liberos coniugesque et graves senio parentes traxerunt. Alii longo errore iactati non iudicio elegerunt locum sed lassitudine proximum occupaverunt, alii armis sibi ius in aliena terra fecerunt; quasdam gentes, cum ignota peterent, mare hausit, quaedam ibi consederunt ubi illas rerum omnium inopia deposuit. Nec omnibus eadem causa relinquendi quaerendique patriam fuit: alios excidia urbium suarum hostilibus armis elapsos in aliena spoliatos suis expulerunt; alios domestica seditio summovit; alios nimia superfluentis populi frequentia ad exonerandas vires emisit; alios pestilentia aut frequentes terrarum hiatus aut aliqua intoleranda infelicis soli vitia eiecerunt; quosdam fertilis orae et in maius laudatae fama corrupit. Alios alia causa excivit domibus suis: illud utique manifestum est, nihil eodem loco mansisse quo genitum est. Adsiduus generis humani discursus est.

Si portano dietro i figli, le mogli, i genitori appesantiti dalla vecchiaia. Alcuni, dopo un lungo errare, non si scelsero deliberatamente una sede, ma per la stanchezza occuparono quella più prossima; altri, con le armi, si conquistarono il diritto di una terra straniera. Alcune popolazioni, avventurandosi verso terre sconosciute, furono inghiottite dal mare, altre si stabilirono là dove la mancanza di tutto le aveva fatte fermare. Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per abbandonare la loro patria e cercarne un’altra: alcuni, sfuggiti alla distruzione della loro città e alle armi nemiche e spogliati dei loro beni, si volsero ai territori altrui; altri furono cacciati da lotte intestine; altri furono costretti a emigrare per alleggerire il peso di un’eccessiva densità di popolazione; altri ancora sono stati cacciati dalla pestilenza o dai frequenti terremoti o da altri intollerabili flagelli di una terra infelice, altri, infine, si sono lasciati attirare dalla notizia di una terra fertile e fin troppo decantata. Ognuno ha lasciato la sua casa per una ragione o per l’altra: questo però è certo, che nessuno è rimasto nel luogo dove è nato. Incessante è il peregrinare dell’uomo.

“Bilancio dopo la battaglia di Farsalo”

In eo proelio Caesar non amplius ducentos milites desideravit, sed centuriones, fortes viros, circiter triginta amisit. Interfectus est etiam, fortissime pugnans, Crastinus, gladio in os adversum coniecto. Neque id fuit falsum quod ille centurio in pugnam proficiscens dixerat. Nam, Caesarem respiciens, se facturum esse promiserat ut imperator sibi aut vivo aut mortuo gratias ageret. Ex Pompeiano exercitu circiter milia quindecim cecidisse dicebantur, sed amplius viginti quattuor milia in deditionem venerunt. At Lucius Domitius,cum eius victoris arbitrio se dedere nollet,ex castris in montem refugit; ibi vero, cum vires eum lassitudine defecissent, ab equitibus Caesaris est interfectus.
Pompeius autem, cum aciem suam iam inclinatam vidisset, equo invectus ad mare advolavit; ibique Lesbum transvehi iussit, in Aegyptum traiecturus.

In quel combattimento Cesare non desiderò più di duecento soldati, ma perse centurioni, uomini forti, circa trecento. Fu ucciso anche, combattendo fortissimamente, Crastino, colpito al volto con la spada. E non questo fu falso perchè quello aveva detto questo al centurione andando in battaglia. Infatti, guardando Cesare, aveva promesso che lui stesso avrebbe fatto in modo che il generale gli rendesse grazie o da vivo o da morto. Si diceva che dell’esercito pompeiano erano caduti circa quindicimila, ma ne vennero di più di ventiquattromila alla resa. Ma Lucio Domizio, non volendo concedersi all’arbitrio del suo vincitore, scappò dall’accampamento al monte: qui in vero, mancandogli le forze per la stanchezza, fu ucciso dai cavalieri di Cesare. Pompeo tuttavia, avendo visto che la sua schiera era piegata, salito a cavallo si diresse verso il mare, e qui ordinò che fosse condotto a Lesbo, per poi dirigersi in Egitto.

“Avidità di Giulio Cesare”

Abstinentiam neque in imperiis neque in magistratibus praestitit. Ut enim quidam monumentis suis testati sunt, in Hispania pro consule et a sociis pecunias accepit emendicatas in auxilium aeris alieni et Lusitanorum quaedam oppida, quanquam nec imperata detrectarent et aduenienti portas patefacerent, diripuit hostiliter. In Gallia fana templaque deum donis referta expilauit, urbes diruit saepius ob praedam quam ob delictum; unde factum, ut auro abundaret ternisque milibus nummum in libras promercale per Italiam prouinciasque diuenderet. In primo consulatu tria milia pondo auri furatus e Capitolio tantundem inaurati aeris reposuit. Societates ac regna pretio dedit, ut qui uni Ptolemaeo prope sex milia talentorum suo Pompeique nomine abstulerit. Postea uero euidentissimis rapinis ac sacrilegis et onera bellorum ciuilium et triumphorum ac munerum sustinuit impendia.

Secondo quanto affermano alcuni autori nei loro scritti, quando era proconsole in Spagna, non si fece riguardo di prendere denaro dai suoi alleati, dopo averlo mendicato, per pagare i suoi debiti, e distrusse, come nemiche, alcune città dei Lusitani, sebbene non si fossero rifiutate di versare i contributi imposti e gli avessero aperto le porte al suo arrivo. In Gallia spogliò le cappelle e i templi degli dei, piene di offerte votive e distrusse città più spesso per far bottino che per rappresaglia. In tal modo arrivò ad essere così pieno d’oro da farlo vendere in Italia e nelle province a tremila sesterzi la libbra. Durante il suo primo consolato sottrasse dal Campidoglio tremila libbre d’oro e le rimpiazzò con un peso uguale di bronzo dorato. Concesse alleanze e regni, dietro versamento di denaro, e al solo Tolomeo estorse, a nome suo e di Pompeo, circa seimila talenti. È chiaro quindi che grazie a queste evidenti rapine e a questi sacrilegi poté sostenere sia gli oneri delle guerre civili, sia le spese dei trionfi e degli spettacoli.

“Bacco, il dio del vino”

Bacchus seu Dionysus iucundus et beneficus deus erat, magnaque beneficia Graecia praesertim incolis praebebat: rubri enim vini ac flavi frumenti dona Graeciae oppidanis agricolisque a deo concedebantur. Ob dei beneficia a viris feminisque multae hostiae ante Bacchi aras immolatae sunt. Grata deo erant sacrificia ferorum aprorum cornigerorumque hircorum. E Graecia per Aegyptum in Asiam processit, cum parvo numero animosorum virorum et effrenatarum feminarum. Bacchus aurem plaustrum habuit, quod non ab equis sed a maculosis pantheris vehebantur. Viri feminaeque non arma, sed tympana at taedas destringebant. Contra stultos superbosque inimicos cruenta bella a Baccho gesta sunt: munita oppida deus expugnavit adversariosque acerbis poenis multavit. In longinqua quoque Indiae loca pervenit: Indiaeque etiam populis grata dona vini ac frumenti concessit.

Bacco o Dioniso era un dio giocoso e benefico, offriva grandi benefici soprattutto agli abitanti della Grecia: infatti venivano concessi dal dio doni di vino rosso e frumento biondo ai cittadini e agli agricoltori della Grecia. Molte vittime sono state immolate da uomini e donne davanti agli altari di Bacco per i benefici del dio. Al dio erano graditi sacrifici di cinghiali feroci, di animali con le corna e capri. Procedette dalla Grecia attraverso l’Egitto verso l’Asia con un piccolo numero di uomini coraggiosi e donne scatenate. Bacco ebbe un carro d’oro che non era trasportato da cavalli, ma da pantere maculate. Gli uomini e le donne non impugnavano armi, ma tamburi e fiaccole. Le guerre sanguinose erano condotte da Bacco contro i nemici stupidi e superbi: il dio espugnò le città fortificate e punì gli avversari con pene crudeli. Giunse anche nelle terre lontane dell’India: e anche ai popoli dell’India concesse doni graditi di vino e frumento.

Adelphoe, Periocha Sulpici Apollinaris (Sommario di Sulpicio Apollinare)

Duos cum haberet Demea adulescentulos,
dat Micioni fratri adoptandum Aeschinum,
sed Ctesiphonem retinet. hunc citharistriae
lepore captum sub duro ac tristi patre
frater celabat Aeschinus; famam rei,
amorem in sese transferebat; denique
fidicinam lenoni eripit. vitiaverat
idem Aeschinus civem Atticam pauperculam
fidemque dederat hanc sibi uxorem fore.
Demea iurgare, graviter ferre; mox tamen,
ut veritas patefacta est, ducit Aeschinus
vitiatam, potitur Ctesipho citharistriam.

Personae

MICIO SENEX
DEMEA SENEX
SANNIO LENO
AESCHINUS ADULESCENS
BACCHIS MERETRIX
PARMENO SERVOS
SYRUS SERVOS
CTESIPHO ADULESCENS
SOSTRATA MATRONA
CANTHARA ANUS
GETA SERVOS
HEGIO SENEX
PAMPHILA VIRGO
DROMO PUER.

Demea, siccome aveva due figlioli,
Eschino lascia al fratello Micione
perché lo adotti, mentre Ctesifone
se lo tiene per sé; ma questi,
benché la tutela paterna sia severa,
preso dai vezzi di una suonatrice,
è salvato da Eschino, il fratello,
che i pettegolezzi nati dagli amori di quello
riversa su di sé, giungendo al punto
di rapire al ruffiano la ragazza.
Il medesimo Eschino, peraltro,
aveva violentato una ragazza
povera ma di Atene cittadina,
cui aveva promesso di sposarla.
Demea s’infuria e se la prende a male;
quando, però, la verità vien fuori,
Eschino prende in moglie la ragazza
e Ctesifone ha la sua suonatrice.

Personaggi

MICIONE VECCHIO
DEMEA VECCHIO
SANNIONE RUFFIANO
ESCHINO GIOVANE
BACCHIDE PROSTITUTA
PARMENONE SCHIAVO
SIRO SCHIAVO
CTESIFONE GIOVANE
SOSTRATA MATRONA
CANTARA VECCHIA
GETA SCHIAVO
EGIONE VECCHIO
DROMONE SCHIAVETTO
STEFANIONE SCHIAVETTO
PANFILA RAGAZZA

Elegie, I, 1

Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis,
contactum nullis ante cupidinibus.
tum mihi constantis deiecit lumina fastus
et caput impositis pressit Amor pedibus,
donec me docuit castas odisse puellas
improbus, et nullo vivere consilio.
et mihi iam toto furor hic non deficit anno,
cum tamen adversos cogor habere deos.
Milanion nullos fugiendo, Tulle, labores
saevitiam durae contudit Iasidos.
nam modo Partheniis amens errabat in antris,
ibat et hirsutas ille videre feras;
ille etiam Hylaei percussus vulnere rami
saucius Arcadiis rupibus ingemuit.
ergo velocem potuit domuisse puellam:
tantum in amore preces et bene facta valent.
in me tardus Amor non ullas cogitat artis,
nec meminit notas, ut prius, ire vias.
at vos, deductae quibus est fallacia lunae
et labor in magicis sacra piare focis,
en agedum dominae mentem convertite nostrae,
et facite illa meo palleat ore magis!
tunc ego crediderim vobis et sidera et amnis
posse Cytaeines ducere carminibus.
et vos, qui sero lapsum revocatis, amici,
quaerite non sani pectoris auxilia.
fortiter et ferrum saevos patiemur et ignis,
sit modo libertas quae velit ira loqui.
ferte per extremas gentis et ferte per undas,
qua non ulla meum femina norit iter:
vos remanete, quibus facili deus annuit aure,
sitis et in tuto semper amore pares.
in me nostra Venus noctes exercet amaras,
et nullo vacuus tempore defit Amor.
hoc, moneo, vitate malum: sua quemque moretur
cura, neque assueto mutet amore locum.
quod si quis monitis tardas adverterit auris,
heu referet quanto verba dolore mea!

Cinzia per prima catturò me misero con i suoi occhi,
me, che prima non ero stato conquistato da nessuna passione.
Allora l’Amore mi fece abbassare gli occhi di solito orgogliosi
e mi premette la testa, con i piedi posti sopra,
finché malvagio mi insegno ad avere a noia le ragazze
virtuose, e a vivere senza alcuna regola.
Così questo furore amoroso non mi abbandona ormai da un intero anno,
nonostante sia costretto ad avere avversi gli dei.
Milanione non sottraendosi ad alcuna fatica, o Tullio,
fiaccò la superbia della crudele figlia di Iaso.
Infatti ora vagava fuori di sé nelle caverne del Partenio,
ora quello andava a trovare le feroci fiere,
persino una volta ferito dal colpo della clava di Ileo
levò il suo lamento sulle rupi dell’Arcadia.
In questa maniera poté quindi domare la veloce fanciulla:
in amore valgono tanto le preghiere e le attenzioni.
Invece per me Amore non escogita nessun espediente,
né si ricorda di percorrere le vie conosciute come una volta.
Mentre voi, che possedete l’ingannevole arte di tirare giù la luna
e che avete l’incarico di fare sacrifici propiziatori,
orsù dunque trasformate i sentimenti della mia signora,
e fate che diventi più pallida del mio viso!
Solo allora potrei credere a voi maghi, che potete muovere stelle
e fiumi con gli incantesimi della Citaina Medea.
E voi, amici, che troppo tardi richiamate me caduto,
cercate invano rimedi per il mio cuore malato.
Sopporterò coraggiosamente sia la lama affilata che il fuoco crudele,
purché abbia la possibilità di dire le cose che la rabbia desidera.
Portatemi per le genti più lontane e per i mari più remoti,
dove nessuna donna possa conoscere il mio itinerario:
rimanete voi, ai quali il dio con orecchio benevolo diede il suo favore,
e siate sempre pari in un amore sempre solido.
Contro di me la nostra dea Venere mette in moto notti amare,
e Amore in nessun momento viene meno.
Vi avverto, evitate questo male: ognuno si tenga stretto
la propria passione, e non si allontani dal consueto amore.
Se poi qualcuno non avrà ascoltato i miei consigli,
con quanto dolore, ahimé, ricorderà le mie parole.

Pro Roscio Amerino, 64-65 (“Un delitto inspiegabile”)

Non ita multis ante annis aiunt T. Caelium quendam Terracinensem, hominem non obscurum, cum cenatus cubitum in idem conclave cum duobus adulescentibus filiis isset, inventum esse mane iugulatum. Cum neque servus quisquam reperiretur neque liber ad quem ea suspicio pertineret, id aetatis autem duo filii propter cubantes ne sensisse quidem se dicerent, nomina filiorum de parricidio delata sunt. Quid poterat tam esse suspiciosum? Neutrumne sensisse? Ausum autem esse quemquam se in id conclave committere eo potissimum tempore cum ibidem essent duo adulescentes filii qui et sentire et defendere facile possent? Erat porro nemo in quem ea suspicio conveniret.
Tamen, cum planum iudicibus esset factum aperto ostio dormientis eos repertos esse, iudicio absoluti adulescentes et suspicione omni liberati sunt. Nemo enim putabat quemquam esse qui, cum omnia divina atque humana iura scelere nefario polluisset, somnum statim capere potuisset, propterea quod qui tantum facinus commiserunt non modo sine cura quiescere sed ne spirare quidem sine metu possunt.

Si racconta che non molti anni fa un certo Tito Celio di Terracina, un personaggio di un certo rilievo, si coricò dopo cena nella stessa stanza con i suoi due giovani figli e che la mattina dopo fu trovato sgozzato. Poiché non si trovava né uno schiavo né un uomo libero che desse adito a sospetti e poiché i due figli di quell’età, che gli dormivano accanto, dicevano di non essersi accorti di nulla, fu mossa contro di loro un’accusa di parricidio. Che cosa ci poteva essere di altrettanto sospetto? Era mai possibile che nessuno dei due avesse sentito nulla? che qualcuno avesse avuto l’audacia di entrare in quella stanza proprio mentre vi si trovavano i due figli, che sarebbero stati facilmente in grado di accorgersene e di difendere il padre? Inoltre non c’era nessuno su cui si potesse appuntare il sospetto di quell’azione.
Ciononostante, siccome i giudici appurarono che, quando fu aperta la porta, i figli erano stati trovati addormentati, i giovani furono assolti con formula piena. Nessuno infatti pensava che ci fosse qualcuno capace di prender sonno subito dopo aver calpestato ogni diritto umano e divino con un delitto infame; perché chi commette un misfatto così grave non è in grado non solo di riposare tranquillamente, ma nemmeno di respirare senza timori.

“La leggenda di Enomao e l’origine delle Olimpiadi”

Oenomaus, rex Elidis, oraculo monitus erat ut generum suum cavaret. Itaque quia equi longe optimi totius Graeciae ei erant, palam edixerat: “Filiam meam Hippodamiam in matrimonium dabo ei qui primus curriculo eqorum me superaverit. Quem superavero, is vitam pessime amittet”. Tamen nonnulli adulescentes maximum periculum audacter neglegentes Hippodamiam sibi petiverunt. Quibus Oenomaus concedebat ut praecurrerent, inde lente currum ascendens equos suos incitabat ut vento celerius currerent; tum proprius accedens, adversarios suos pilo a tergo crudeliter perfodiebat. Olim Pelops, Tantali filius, amore fortissimo in Hoppidamiam captus, auxilium petivit a Neptuno qui equos omnium celerrimos ad iuvenis currum iunxit. Reliqui dei praeterea, ne Pelops necaretur, pessimi regis currum in mare praecipitaverunt. Tum Pelops Hippodamiam in matrimonium duxit et Olympia instituit, ut memoria illius curriculi quam diutissime maneret. Illa autem terra, cuius Elis pars est, a Pelopis nomine Peloponneus appellata est.

Enomao, re dell’Elide, era stato ammonito dall’oracolo a fare attenzione a suo genero. Perciò, poichè egli aveva cavalli migliori fra tutti quelli della Grecia, apertamente dichiarò: “Darò in matrimonio mia figlia Ippodamia a colui che per primo mi avrà superato nella corsa dei cavalli. Colui che mi avrà superato, perderà la vita nel modo peggiore”. Tuttavia alcuni giovani chiesero per se Ippodamia non tenendo conto del grandissimo pericolo. E a quelli Enomao concedeva di correre davanti a lui, quindi con lenti carri ascesero e incitarono i loro cavalli a correre più veloci del vento; allora facendosi più vicino, trafiggeva i suoi avversari alle spalle crudelmente con il giavellotto. Una volta Pelope, figlio di Tantalo, catturato da un fortissimo amore per Ippodamia, chiese aiuto a Nettuno che aggiogò i cavalli più veloci fra tutti al carro del giovane. Gli altri dei inoltre, per non fare uccidere Pelope, fecero precipitare il carro del malvagio re in mare. Allora Pelope condusse in matrimonio Ippodamia e istituì le Olimpiadi, affinchè il ricordo di quella gara rimanesse il più lungo possibile. Poi quella torre di cui l’Elide fa parte, fu chiamata Peloponneso dal nome di Pelope.

“Gli schiavi sono uomini”

Vis tu cogitare istum, quem servum tuum vocas, ex isdem seminibus ortum eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori! Tam tu illum videre ingenuum potes quam ille te servum. Variana clade multos splendidissime natos, senatorium per militiam auspicantes gradum, fortuna depressit, alium ex illis pastorem, alium custodem casae fecit: contemne nunc eius fortunae hominem, in quam transire, dum contemnis, potes. Nolo in ingentem me locum immittere ed de usu servorum disputare, in quos superbissimi, crudelissimi, contumeliosissimi sumus. Haec tamen praecepti mei summa est: sic cum inferiore vivas, quemadmodum tecum superiorem velis vivere. Quotiens in mentem venerit, quantum tibi in servum tuum liceat, veniat in mentem tantumdem in te domino tuo licere. “At ego” inquis “nullum habeo dominum”. Bona aetas est: forsitan habebis. Nescis qua aetate Hecuba servire coeperit, qua Croesus, qua Darei mater, qua Plato, qua Diogenes? Vive cum servo clementer, comiter quoque, et in sermonem illum admitte et in consilium et in convictum.

Considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo. Con la sconfitta di Varo la sorte degradò socialmente molti uomini di nobilissima origine, che attraverso il servizio militare aspiravano al grado di senatori: qualcuno lo fece diventare pastore, qualche altro guardiano di una casa. E ora disprezza pure l’uomo che si trova in uno stato in cui, proprio mentre lo disprezzi, puoi capitare anche tu. Non voglio cacciarmi in un argomento tanto impegnativo e discutere sul trattamento degli schiavi: verso di loro siamo eccessivamente superbi, crudeli e insolenti. Questo è il succo dei miei insegnamenti: comportati con il tuo inferiore come vorresti che il tuo superiore agisse con te. Tutte le volte che ti verrà in mente quanto potere hai sul tuo schiavo, pensa che il tuo padrone ha su di te altrettanto potere. “Ma io”, ribatti, “non ho padrone.” Per adesso ti va bene; forse, però lo avrai. Non sai a che età Ecuba divenne schiava, e Creso, e la madre di Dario, e Platone, e Diogene? Sii clemente con il tuo servo e anche affabile; parla con lui, chiedigli consiglio, mangia insieme a lui.

“Prime imprese di Temistocle”

Primus autem gradus, ut capesseret rem publicam, fuit bello Corcyraeo, ad quod praetor a populo creatus est et non solum praesenti bello, sed etiam reliquo tempore ferociorem reddidit civitatem. Nam cum pecunia publica, quae ex metallis veniebat, largitione magistratuum quotannis consumeretur, ille tam prudenti et eloquenti consilio populum monuit, ut pecunia classis centum navium aedificata sit. Qua classe primum Corcyraeos fregit, deinde maritimos praedones consectatus est et mare tutum reddidit. In quo cum divitiis ornavit, tum etiam peritissimos belli navalis fecit Athenienses.

Il primo passo della sua vita politica fu durante la guerra di Corcira; eletto stratega dal popolo per dirigerla rese la città più fiera non solo durante l’attuale guerra ma anche nei tempi successivi. Infatti con il denaro pubblico, che veniva dalle miniere, che era ogni anno sperperato dalle donazioni dei magistrati, egli ammonì il popolo con un tanto saggio ed eloquente progetto, affinchè fosse costruita, con quel denaro, una flotta di cento navi. Tale flotta in primo luogo distrusse i Corciri, poi perseguitò i pirati e il mare ritornò sicuro. Con che arricchì gli Atenìesi e nel contempo li rese anche espertissimi di battaglie navali.