“Spedizione contro i Senoni”

Caesar, nondum hieme confecta, proximis quattuor coactis legionibus, de improviso fines Nerviorum contendit et, prius quam illi aut convenire aut profugere possent, magno pecoris atque hominum numero capto atque praeda militibus concessa vastatisque agris, in deditionem venire atque obsides sibi dare coegit. Celeriter confecto negotio, rursus in hiberna legiones reduxit. Concilio Galliae primo vere, ut instituerat, indicto, quia reliqui praeter Senones, Carnutes, Treverosque venerant, cum initium belli ac defectionis timeret, concilium lutetiam parisiorum traduxit.

Cesare, non appena terminato l’inverno, con le più vicine quattro legioni costrette, si diresse improvvisamente verso i territori dei Nervi e, prima che quelli potessero radunarsi o fuggire, preso un gran numero di uomini e di animali e data ai soldati la possibilità di devastare i territori, li obbligò a trattare ed a dare ostaggi. Concluse velocemente le trattative, ricondusse presto negli accampamenti invernali le legioni. Indetta l’assemblea della Gallia in primavera, poiché, oltre ai Senoni vennero anche i Carnuti ed i Treviri, temendo un inizio di un’altra guerra, spostò il concilio a Lutezia.

“Alessandro e la nobile prigioniera”

Alexander, Dareo proelio superato, assiduis conviviis dies noctesque consumebat. Olim inter epulas captivas Persas suo ritu carmen canere iussit. Inter quas unam rex ipse conspexit maestiorem quam ceteras et producentibus eam verecunde reluctantem. Excellens erat forma et formam pudor honestabat: deiectis in terram oculis et ore velato suspicionem praebuit regi eam nobilissimo genere natam esse. Ergo interrogata quaenam esset, respondit se genitam esse filio Ochi, qui ante Dareum regnaverat apud Persas, et uxorem Hystaspis esse. Hic e propinquis Darei fuerat et ipse magni exercitus dux. Tunc Alexander, et fortunam mulieris, regia stirpe genitae, et tam celebre nomen Ochi reveritus, non dimitti modo captivam, sed etiam restitui ei suas opes iussit, virum quoque requiri, ut ei reperto uxorem redderet.

Alessandro, superato in battaglia Dario, consumava giorni e notti in continui conviti. Un giorno durante il banchetto ordinò alle prigioniere persiane di cantare un canto secondo il loro rito. Tra di loro il re stesso vide una sola più infelice delle altre e riluttante per vergogna davanti a coloro che la portavano avanti. Era eccellente di bellezza e il pudore rendeva onorevole la bellezza: gli occhi fissi a terra e il viso velato, fece sospettare il re che fosse nata da una famiglia assai nobile. Dunque interrogata chi fosse, rispose che era stata generata dal figlio di Oco, che prima di Dario aveva regnato presso i persiani e che era moglie di Istaspe. Egli era stato uno dei parenti di Dario e lui stesso comandante di un grande esercito. Allora Alessandro, avendo avuto riguardo della condizione della donna, nata da stirpe regale, e del nome tanto celebre di Oco, non solo ordinò che la prigioniera fosse rilasciata, ma anche che le fossero restituite le sue ricchezze, che fosse trovato il marito anche, affinché a lui ritrovato rendesse la moglie.

“Il topo di campagna e il topo di città”

Olim mus rusticus urbanum murem, veterem amicum suum, ad cenam in paupere cavo invitavit et hospit in humuli mensa ciceres et uvas aridas et duras vicini memoris glandes apposcuit. Urbanus mus vix vilem cibum dente superbo tangebat et rustica alimenta contemnebat. Tandem sic exclamavit: “Cur, amice, vitam tam miseram ruri agis? Veni nepum in urbem, ubi magnam cibi suavis copiam in venie set beatus sine curis vides”. Consilium placuit muri rustico et is migravit cum comite in domicilium splendidum urbanum; hic dum tranquilli et securi cenante et gustant cibaria soaves, de improvviso, latratus canum resonant et servi irrumpunt. Mures territi fugiunt et vestigant refugium. Tum mus rusticus dixit muri urbano: “Vale amice mie, mane in urbe cum tuis cibis soavibus, ego autem redeo in meam miseram et securam vitam rusticam”.

Una volta, un topo di campagna invitò e ospitò un topo di città, un suo vecchio amico, a pranzo in una misera tana e servì in un’umile tavola ceci, uva secca e aspra e ghiande dal bosco vicino. Il topo di città assaggiava appena quel cibo banale con gusto severo e disprezzava quegli alimenti contadini. Infine così esclamò: “Perché, o amico, conduci una vita talmente misera in campagna? Vieni con me in città, dove troverai abbondante quantità di cibo piacevole e vivrai felice senza preoccupazioni”. Il consiglio piacque al topo di campagna e si trasferì con il compagno nella magnifica casa urbana; qui mentre tranquilli e sicuri cenavano e gustavano le vivande delicate, all’improvviso rimbombano i latrati dei cani e irrompono i servi. I topi spaventati scappano e cercano un rifugio. Allora il topo di campagna disse al topo di città: “Salute amico mio, tu rimani in città con i tuoi cibi squisiti, io invece ritorno alla mia povera e sicura vita di campagna”.

“L’incendio del tempio di Apollo a Dafne”

Imperatore Iuliano regnante, amplissimus Daphnaei Apollonis fanum, quod rex Antiochus condiderat, et simulacrum dei, statuae Iovis Olympiaci magnitudine simile, subita vi flammarum exustum est. Imperator propter atrocem casum tanta ira permotus est ut iuberet quaestions agitari solito acrioreset maiorem ecclesiam Antiochiae claudi. Iulianus enim putabat Christianos incendium excitavisse, invidia stimulatos, quod templum splendidis columnis ornatum videbat. Ferebant autem delubrum conflagravisse, quod Asclepides philosophus,cum ad templum venisset, deae Veneris argentum parvum signum ante pedes simulacri posuerat et ex usu cereos accenderat. Itaque media nocte volitantes scintillae adhaeserunt materiis aridissimis er celerrime omnia concremaverunt.

Sotto l’impero dell”imperatore Giuliano, fu devastato con forza improvvisa delle fiamme il grandissimo tempio di Apollo e Dafne, che il re Antioco aveva eretto, e il simulacro del dio (Apollo), uguale per grandezza alla statua di Giove Olimpico. L’imperatore per il fatto atroce fu scosso da un’ira così forte che ordinò di avviare indagini e di chiudere la più grande chiesa di Antiochia. Giuliano infatti riteneva che i cristiani avessero scatenato l’incendio, spinti dall’invidia perchè vedevano il tempio ornato di splendide colonne. Si diceva che il tempio andò in fiamme poichè il filosofo Asclepiade, essendo giunto al tempio, aveva posto un piccolo segno d’argento della dea Venere ai piedi del tempio e secondo l’uso aveva acceso i ceri. E così in piena notte le fiamme scintillanti presero fuoco con il materiale più secco e arsero velocemente ogni cosa.

“Un ufficiale pericoloso”

Avidius Cassius qui, ut quidam aiunt, ex nobilissima familia Cassiorum per matrem fuit, genitus est Avidio Severo, qui humili loco natus,ad summas dignitates pervenerat. Quadratus in historiis meminit eum et necessarium rei publicae fuisse et apud ipsum imperatorem Marcum Aurelium prevalidum; constat autem, illo imperante, fatali sorte periisse. Hic ergo Cassius, ex familia, ut diximus, Cassiorum, qui in Caesarem conspiraverant, oderat tacite principatum nec ferre poterat imperatorium nomen dicebatque nihil esse gravius nomine “imperio”. Ferunt eum temptavisse in adulescntia extorquere etiam Antonino Pio principatum, sed per patrem, virum sanctum et gravem, affectationem tyrannidis latuisse. Cassium tam semper ducibus suspectus fuit. Imperatori Vero illum paravisse insidias, ipsius Veri epistola ad Marcum Aurelium scripta indicat: Avidius Cassius imperii avidus est, opes magnas parat, omnia nostra ei displicent, imperata haud diligenter facit. Vide quid agentum sit. Ego eum non odi, sed timeo ne miles, qui eum libenter audieunt et libenter vident, corrumpat.

Avidio Cassio che, come dicono alcuni, fu per madre dalla nobilissima famiglia dei Cassi, fu generato da Avidio Severo, che nato da umile stirpe, era giunto a somme dignità. Quadrato ricorda nelle storie che quello sia stato necessario allo Stato e assai valido presso lo stesso imperatore Marco Aurelio, è noto tuttavia, quello imperante, che sia morto per sorte fatale. Questo dunque Cassio, dalla famiglia, come abbiamo detto, dei Cassi, che avevano congiurato contro Cesare, odiava silenziosamente il principato e non poteva sopportare il nome degli imperatori e diceva che niente vi era di più grave del nome “impero”. Dicono che quello abbia provato da giovane ad estorcere anche il principato ad Antonino Pio, ma attraverso il padre, uomo pio e onesto, abbia nascosto la brama della tirannide. Tuttavia Cassio fu sempre in sospetto ai comandanti. All’imperatore Vero abbia preparato insidie come indica la stessa lettera di Vario a Marco Aurelio: Avidio Cassio è avido di potere, prepara grandi imprese, gli dispiacciono tutte le nostre cose, non fa diligentemente le cose ordinate. Considera cosa bisogna fare. Io non lo odio, ma temo che corrompa i soldati che lo ascoltano piacevolmente e lo vedono piacevolmente.

“L’amore per il lusso e il piacere porta alla rovina eserciti e città”

Campana luxuria utilissima nostrae civitati fuit: invictum enim Hannibalem illecebris suis alliciens, debiliorem militibus Romanis tradidit. Nam luxuria Carthaginiensium vigilantissimum ducem et acerrimum exercitum dapibus largis, maxima vini copia, unguentorum fragrantia, amoris consuetudine lasciviore ad desidiam et delicias evocavit. Ac tum demum Punica feritas fracta et contusa est. Nihil ergo foedius est, nihil damnosius vitiis quae virtutem atterunt, sopitam gloriam in infamiam convertunt animique pariter et corporis vires expugnant. Talia vitia etiam Volsiniensium civitatem funditus everterunt. Urbs opulentissima atque morum et legum observantissima erat, Etruriae caput putabatur: sed eius cives, postquam luxuriae stultissime se dederant, tam indulgentes ignavique facti sunt ut servorum insolentissimae dominationi se subicerent.

La lussuria Campana fu utilissima per la nostra Roma: attraendo infatti l’invincibile Annibale con le sue lusinghe, offrì il meglio ai soldati romani. Infatti l’amore per il lusso dei Cartaginesi chiamò all’inoperosità e all’amore per le delizie il più attento comandante dei Cartaginesi e l’esercito più combattivo per mezzo di sontuosi banchetti, abbondanza di vino, fragranze di profumi, con la consuetudine troppo sfrenata dell’amore verso l’ozio e le delizie. E allora la grande ferocia dei Cartaginesi fu precisamente spezzata e confusa. Nulla è dunque così cattivo, nulla più dannoso ai vizi che logorano il valore, trasformano la gloria dell’animo e del corpo. Tali vizi distrussero del tutto anche la città del Volsiniesi. La città era assai ricca e rispettosa delle tradizioni e delle leggi, era ritenuta il capo dell’Etruria: ma i suoi cittadini, dopo che molto stupidamente si diedero alla lussuria, diventarono così indulgenti e pigri che si sottomisero all’insolentissima dominazione della servitù.

“Notizie sulle regioni nordiche”

Ex libris Caesaris et Taciti cognoscere possumus quid veteresde regionibus ad Septentrionemversis senserint. Caelum Germaniae asperius quam nostrum putabant et agros minus fertilies, quia ibi – sic enim in suis libris scripserunt – sol rarius et pallidiore luce splendet, noctes sunt longiores et fridiores, aestas perbrevis, hiems diututnior et asperior quam in nostris regionibus. Itaque incolae natura maestiores videbantur et saepe in miserrima condicione propter frigus acerrimum et molestissimum. Italiae regionibus contra erat caelum purum et tenuius, aer hominibus saluberrimus et frugibus aptissimus, agri fertiliores; quare incolae laetiores et alacriores videbantur. In silvis Germaniae vivebant plurima animalia, Romanis ignota, inter quae Caesar alces et uros posuit. Alces erant figura simillimae capris, sed paulo maioreset mutilae cornibus; crura sine nodis articulisque habebant neuqe procumbebant ut quiscerent, quia, si concidebant, surgere, non poterant. Uri ernat paulo minores slephantis et habebant figuram tauri, sed amplitudo cornuum multo a nostrorum boum cornibus differebant.

Dai libri di Cesare e di Tacito possiamo sapere che cosa gli antichi abbiano pensato delle regioni volte a Settentrione. Reputavano il clima della Germania più rigido del nostro e i campi meno fertili, perché lì – così infatti scrissero nei loro libri – il sole splende più raramente e di luce più pallida, le notti sono più lunghe e più fredde, l’estate brevissima, l’inverno più lungo e più aspro che nelle nostre regioni. E così gli abitanti per la natura sembravano più tristi e spesso in condizione pessima a causa del freddo durissimo e molto molesto. Le regioni d’Italia, al contrario, avevano un clima puro e mite, un’aria molto salubre per gli uomini e adattissima ai raccolti, campi più fertili; motivo per cui gli abitanti sembravano più lieti e alacri. Nelle foreste della Germania vivevano numerosi animali, ignoti ai Romani, tra i quali Cesare classificò le alci e gli uri. Le alci erano per l’aspetto molto simili alle capre, ma di poco più grandi e dalle corna tronche; avevano zampe senza nodi e articolazioni e non si coricavano per dormire, perché, se fossero cadute, non avrebbero più potuto rialzarsi. Gli uri erano di poco più piccoli degli elefanti e avevano l’aspetto del toro, ma per l’ampiezza delle corna differivano di molto dalle corna dei nostri buoi.

“Promesse elettorali”

Marcus tribunatum petit, quare veste candida indutus, inforumit, ad rostra ascendit et sic ad populum orationem habet: “Cives, si plebis tribunus creabor atque fidem vestram mihi dabitis, ego semper iura vestra contra patriciorum insolentiam defendam: vos sub mea tutela tuti ac tranquilli vivetis. Si liberos, uxores parentesque vastros amatis, si Romae deos deasque colitis, si libertatem pacem concordianque diligitis. Si iustum honestumque honoratis si bona vestra servare vultis. Cum suffragium vestrum in urnam deponetis, hoc solum mementote: ego semper vobiscum ero vos adiubavo atque defendere officio tribuni est semperque erit. In urbe concordia denique erit inter patricios ac plebem”. Vos, quid dicitis? Si Marcus tribunus creabitur promissa sua tenebit?

Marco chiese il tribunato, perciò indossata la veste bianca, entrò nel foro, si recò dai Rosti e così fece un orazione al popolo: “O cittadini, se verrò eletto tribuno della plebe, e voi mi darete la vostra fiducia, io giuro di difendervi per sempre dalle insolenze dei patrizi: voi vivrete tranquilli sotto la mia protezione. Se amate i vostri figli, le vostre mogli e i vostri parenti, se adorate gli dei e le dee di Roma, se prediligite la libertà, la concordia e la pace. Se onorate il giusto e l’onesto, se volete preservare voi stessi. Deponendo il vostro voto nell’urna, ricordate solo questo: io sarò sempre a voi, e a difendervi sempre dalle decisioni dei tribuni. Nella città vi sarà la concordia fra i patrizi e i plebei”. Voi che dite? Se Marco verrà eletto tribuno, manterrà la sua promessa?

Breviarium, I, 2 (“Il mito di Romolo”)

Condita civitate, quam ex nomine suo Romam vocavit, haec fere egit. Multitudinem finitimorum in civitatem recepit, centum ex senioribus legit, quorum consilio omnia ageret, quos senatores nominavit propter senectutem. Tum, cum uxores ipse et populus suus non haberent, invitavit ad spectaculum ludorum vicinas urbi Romae nationes atque earum virgines rapuit. Commotis bellis propter raptarum iniuriam Caeninenses vicit, Antemnates, Crustuminos, Sabinos, Fidenates, Veientes. Haec omnia oppida urbem cingunt. Et cum orta subito tempestate non comparuisset, anno regno tricesimo septimo ad deos transisse creditus est et consecratus. Deinde Romae per quinos dies senatores imperaverunt et his regnantibus annus unus completus est.

Dopo aver fondato la città, che dal suo nome chiamò Roma, fece più o meno queste cose. Accolse nella cittadinanza un gran numero di confinanti, scelse cento tra i cittadini più anziani, che chiamò senatori a causa della vecchiaia, per fare tutte le cose con il loro consiglio. In quel tempo, poiché egli stesso e il popolo non avevano mogli, invitò allo spettacolo dei giochi le popolazioni vicine alla città di Roma e fece rapire le loro fanciulle. essendo scoppiate guerre per l’offesa delle rapite, vinse i Ceninesi, gli Antemnati, i Crustumini, i Sabini, i Fidenati, i Veienti. Tutte queste città stanno intorno a Roma. E poiché, essendo scoppiata all’improvviso una tempesta, era scomparso, nel trentasettesimo anno di regno si credette che fosse salito agli dei e fu divinizzato. Poi a Roma ebbero il potere i senatori per cinque giorni ciascuno e, sotto il loro governo trascorse un intero anno.

“Come trattare le mogli”

Notum est xanthippem, Socratis philosophi uxorem, admodum morosam fuisse et iurigiosam, cum irarum et molestiarum muliebrium per diem perque noctem scateret. Cum Alcibiades, Socratis discipulis, faminae intemperies in maritum cognosceret, interrogavit Socratem: “Cur mulierem tam acerbam domo non exigis?”. “Quoniam – inquit Socrates – cum illam domi talem tolero, insuesco et exerceor ut ceterorum quoque foris petulantiam et inuriam facilius tolerem”. Varro quoque in satura Menippea “De officio mariti” scripsit: “Vitium uxoris aut tollite aut tollerate. Qui tollit vitium, uxorem commodiorem praestat, qui tolerat sese meliorem facit”. Denique, ita Varro censuit: “Toleremus vitia uxoris, si corrigi non possunt et si tolerari a viro possunt vitia enim flagitiis leviora sunt”.

E’ noto che Santippe, moglie del filosofo Socrate, fu assai bisbetica e litigiosa, essendo pronta ad erompere in ira e pedanterie femminili di giorno e di notte. Alcibiade, discepolo di Socrate, venendo a conoscenza delle intemperanze della donna contro il marito, chiese a Socrate: “Perchè non cacci di casa una donna tanto cattiva?”. “Perchè – disse Socrate – come la sopporto a casa, mi abituo e mi esercito per sopportare assai facilmente anche la petulanza e l’offesa degli altri nelle piazze”. Anche Varrone nella satira Menippea “Riguardo al dovere del marito” scrisse: “O educate o tollerate il vizio della moglie. Colui che educa il vizio, rende la moglie assai piacevole, colui che tollera si rende migliore”. Infine, Varrone così decreta: “Tolleriamo i vizi della moglie, se non possono essere corretti e se possono essere tollerati dal marito infatti i vizi sono più futili dei misfatti”.

Fabulae, 36 – Deianira

Deianira Oenei filia Herculis uxor cum vidit Iolen virginem captivam eximiae formae esse adductam verita est, ne se coniugio privaret. Itaque memor Nessi praecepti vestem tinctam centauri sanguine, Herculi qui ferret, nomine Licham famulum misit. Inde paulum, quod in terra deciderat et id sol attigit, ardere coepit. Quod Deianira ut vidit, aliter esse ac Nessus dixerat intellexit, et qui revocaret eum, cui vestem dederat, misit. Quam Hercules iam induerat statimque flagrare coepit; qui cum se in flumen coniecisset, ut ardorem extingueret, maior flamma exibat; demere autem cum vellet, viscera sequebantur. Tunc Hercules Licham, qui vestem attulerat, rotatum in mare iaculatus est, qui quo loco cecidit, petra nata est, quae Lichas appellatur. Tunc dicitur Philoctetes Poeantis filius pyram in monte Oetaeo construxisse Herculi, eumque ascendisse immortalitatem. Ob id beneficium Philocteti Hercules arcus et sagittas donavit. Deianira autem ob factum Herculis ipsa se interfecit.

Quando Deianira, figlia di Eneo e moglie di Ercole, vide arrivare prigioniera Iole, che era una fanciulla di straordinaria bellezza, temette che le rubasse il marito; perciò, memore del consiglio di Nesso, inviò a Ercole un servo di nome Lica, perché gli portasse una veste intinta nel sangue del Centauro. Ma poi un poco di quel sangue, che era sgocciolato per terra, toccato dal Sole, prese fuoco. Quando Deianira lo vide, capì che Nesso aveva mentito e mandò un uomo a richiamare il servo al quale aveva dato la veste. Ercole l’aveva però già indossata e aveva subito preso fuoco. Si gettò in un fiume per spegnere le fiamme, ma queste divamparono con maggior ardore; provò a togliersi la veste, ma veniva via anche la carne viva. Allora Ercole afferrò Lica, che gli aveva portato la veste, e dopo averlo fatto roteare lo gettò in mare; nel luogo dove cadde, sorse uno scoglio che è chiamato Lica. Si dice che poi Filottete, figlio di Peante, abbia innalzato una pira per Ercole sul monte Eta e che così quest’ultimo sia asceso all’immortalità. In compenso di questo favore, Ercole donò a Filottete il suo arco e le sue frecce; Deianira, per parte sua, si diede la morte a causa di ciò che era accaduto ad Ercole.

“Dio mette alla prova i migliori”

Quare deus optimum quemque aut mala valetudine aut luctu aut aliis incommodis afficit? Quia in castris quoque omnia periculosa fortissimis imperantur: dux milites lectissimos mittit qui nocturnis insidiis hostes adgrediantur aut explorent iter aut praesilio potiantur. Di sequuntur in bonis viris eandem rationem, quam in discipulis suis praeceptores, qui plus laboris ab iis exgunt in quibus certior spes est. Numquid tu credis invisos esse lacedaemoniis liberos suos, quorum experiuntur indolem publice verberibus caedentes? Ipsi patres illos adhortantur ut ictus flagellorum fortiter perferant. Fortuna igitur nos verberat et lacerat? Patiamur. Non est saevitia, sed certamen: deus enim dure animos magnos temptat, ut fortiores sint.”

Perchè Dio affligge i migliori o con la cattiva salute o con il dolore o con le disgrazie? Perché anche all’interno dell’accampamento le azioni pericolose sono affidate ai più valorosi: il comandante invia i soldati più abili ad assalire i nemici in imboscate notturne o ad esplorare la strada o a scalzare da un luogo un presidio. Gli dei seguono lo stesso metodo nei confronti degli uomini buoni che seguono gli insegnanti con i loro alunni, da loro esigono molto più lavoro, in loro la speranza è più certa. Che forse tu credi che i loro figli fossero malvisti dagli Spartani, figli dei quali mettono alla prova il carattere colpendoli pubblicamente con frustate? La fortuna dunque ci frusta e ci lacera? Sopportiamo. Non è crudeltà, ma una gara: infatti il Dio mette alla prova duramente i grandi animi affinchè siano più forti.

“La vecchietta sincera e il tiranno Dionigi”

Syracusis anicula deos cotidie obsecrabat ut Dionysius, crudelissimus civitatis tyrannus, incolumis semper esset diuque viveret. Dionysus, re nova cognita, mulierem in regiam adduci iuissit precumque causam quaesivit. Anicula liberius respondit: “Olim Syracusis iniquus ryrannus imperium tenebat; cum e vita excessisset, ferocior tyrannus urbis arcem occupavit, ideoque vehementer cupiebam ut eius dominatus quam brevissimus esset. Sed postea habuimus te, omnium tyrannorum saevissimum et violentissimum. Ita deos pro tua salute obsecro, ne post mortem tuam tyrannus etiam peior civitati contingat”. Tam liberum ac facetum responsum Dyonisius punire noluit et aniculam dimisit incolumem.

A Siracusa una vecchietta ogni giorno pregava gli dei affinchè il crudelissimo tiranno della città Dionigi, fosse sempre incolume e vivesse a lungo. Dopo che Dionigi ebbe saputo il fatto, fece venire la vecchietta, e domandò il motivo delle preghiere. La donna molto sinceramente rispose: “Una volta a Siracusa comandava un tiranno ingiusto; quando quello morì, un tiranno (ancora) più crudele occupò la rocca di Siracusa, e perciò desideravo ardentemente che anche la sua tirannia fosse quanto più breve possibile; ma poi abbiamo avuto te, il più crudele di tutti i tiranni. Perciò prego vivamente gli dei per la tua salvezza, che non ci tocchi dopo la tua morte un tiranno perfino peggiore di te. Dionigi non punì una franchezza così spiritosa e lasciò andare la vecchietta.

“Il canto del Ciclope innamorato”

Apud Ovidium poetam legimus Polyphemum, ferum cyclopem, Galateae nymphae amore incensum, blandissimis verbis pulcherrimam puellam celebravisse: “Tu es, galatea, candidior folio nivei ligustri, floridior pratis, longa alno procerior, splendidior vitro, tenero haedo lascivior, levior conchis assiduo aequore maris detritis, sole hiberno, aestiva umbra gratior, lucidior glacie, matura uva dulcior,mollior cycni plumis, riguo horto formosior”. Cyclops autem, quia crudelis nimpha eius amori repugnabat, maestissimus longam querelam edidit: “Sed etiam tu es durior annosa quercu, fallacior undis, lentior salicis virgis, scopulis immobilior, violentior amne, pavone superbior, acrior igni, asperior tribulis, ursa truculentior, calcato angue immitior, non solum velocior cervo canum latratibus exterrito, verum etiam ventis volucrique aura fugacior”.

Presso il poeta Ovidio leggiamo che Polifemo, feroce ciclope, acceso d’amore per la ninfa Galatea, abbia celebrato la bellissima fanciulla con piacevolissime parole: “Tu sei, Galatea, sei il più più candido di un petalo di ligustro, più florida dei prati, più slanciata di un ontano vettante, più splendente del cristallo, più allegra di un giovane aedo, più liscia di conchiglie levigate dal flusso del mare, più gradevole del sole in inverno, dell’ombra d’estate, più luminosa del ghiaccio, più dolce dell’uva matura, più morbida di una piuma di cigno, più bella di un orto irriguo”. Il ciclope tuttavia poichè crudelmente la ninfa ripudiava il suo amore, assai triste emise una lunga lamentela: “Ma tu anche sei più dura di una vecchia quercia, più ingannevole delle onde, più insensibile del salice giovane, più immobile di una roccia, più violenta di un fiume, più superba del pavone, più furiosa del fuoco, più aspra delle spine, più ringhiosa dell’orsa, più spietata di un serpente calpestato, e più veloce non solo del cervo incalzato dai latrati dei cani, ma anche dai venti e dalla più sfuggente brezza alata”.

De Bello Gallico, VII, 70 (“La cavalleria germanica sconfigge i Galli”)

Opere instituto fit equestre proelium in ea planitie, quam intermissam collibus tria milia passuum in longitudinem patere supra demonstravimus. Summa vi ab utrisque contenditur. Laborantibus nostris Caesar Germanos summittit legionesque pro castris constituit, ne qua subito irruptio ab hostium peditatu fiat. Praesidio legionum addito nostris animus augetur: hostes in fugam coniecti se ipsi multitudine impediunt atque angustioribus portis relictis coacervantur. Germani acrius usque ad munitiones sequuntur. Fit magna caedes: nonnulli relictis equis fossam transire et maceriam transcendere conantur. Paulum legiones Caesar quas pro vallo constituerat promoveri iubet. Non minus qui intra munitiones erant perturbantur Galli: veniri ad se confestim existimantes ad arma conclamant; nonnulli perterriti in oppidum irrumpunt. Vercingetorix iubet portas claudi, ne castra nudentur. Multis interfectis, compluribus equis captis Germani sese recipiunt.

Quando i lavori erano già iniziati, le cavallerie vengono a battaglia nella pianura che si stendeva tra i colli per tre miglia di lunghezza, come abbiamo illustrato. Si combatte con accanimento da entrambe le parti. In aiuto dei nostri in difficoltà, Cesare invia i Germani e schiera le legioni di fronte all’accampamento, per impedire un attacco improvviso della fanteria nemica. Il presidio delle legioni infonde coraggio ai nostri. I nemici sono messi in fuga: numerosi com’erano, si intralciano e si accalcano a causa delle porte, costruite troppo strette. I Germani li inseguono con maggior veemenza fino alle fortificazioni. Ne fanno strage: alcuni smontano da cavallo e tentano di superare la fossa e di scalare il muro. Alle legioni schierate davanti al vallo Cesare ordina di avanzare leggermente. Un panico non minore prende i Galli all’interno delle fortificazioni: pensano a un attacco imminente, gridano di correre alle armi. Alcuni, sconvolti dal terrore, si precipitano in città. Vercingetorige comanda di chiudere le porte, perché l’accampamento non rimanesse sguarnito. Dopo aver ucciso molti nemici e catturato parecchi cavalli, i Germani ripiegano.

“Il cane e la pecora”

Canis calumniator resposcebat ab ove panem, quem dederat mutuum. contendebat autem ovis numquam se a cane panem accepisse; cum autem ante iudicem venissent, canis multos dixit se habere testes, et statim lupum introduxit, qui talia verba dixit: “Scio canem ovi panem commendavisse”. Deinde supervenit milvus: “Coram me – inquit – accepit”. Tertius accipiter dixit: “Cur, improba, hoc negas, te panem accepisse?”. Ovis, a falsis testibus victa, ante tempus lanas suas vendidit, ut, quod non acceperat, redderet. Sic calumniatores fictis criminibus innocentes opprimunt.

Un cane calunniatore reclamava il pane che aveva dato in prestito ad una pecora. D’altro canto la pecora sosteneva di non aver mai ricevuto pane dal cane; così, giunti di fronte ai guiudici, il cane disse di avere molti testimoni, e subito presentò il lupo, che disse quantro segue: “So che il cane aveva affidato alla pecora del pane. Poi giunse il nibbio che disse: “L’ha ricevuto in mia presenza”. Per terzo lo sparviero disse: “Perchè, o bugiarda, neghi ciò, di aver ricevuto il pane?”. La pecora, sovrastata da falsi testimoni, vendette la propria lana prima del tempo per restituire quel che non aveva ricevuto. Così i calunniatori opprimono gli innocenti con falsi crimini.

“Gesta di Annibale”

Numquam Carthaginiensibus dux magis strenuus, Romanis hostis acrior quam Hannibal fuit. Cum admodum iuvenis Carthagine discessisset, in Hispania sub patre Hamilcare militavit et post eius mortem imperator a militibus consalutatus est. Gloriae imperiique cupidissimus, cum magno militum agmine in Italiam pervenit. Hieme iter per Alpes ob nivium copiam ac asperrimum frigus difficilius fuit, sed firma Hannibalis voluntas omnes difficultates omniaque pericula superavit. In pugna peritior et minus imprudens quam Romanorum consules fuit; nam apud Ticinum, Trebiam et Trasumenum lacum praeclaras victorias facile obtinuit. Denique hostes apud Cannas profligavit, ubi L. Aemilius Paulus consul atque plurimi milites necati sunt, pauci incolumes effugerunt. Postea, Carthaginem revocatus, Hannibal cum Scipione Africanum, peritissimo duce, apud Zamam conflixit.Cum victus esset, in Bithyniam apud Prusiam regem confugit, ubi, ne a Romanis caperetur, venenum sumpsit.

Mai i Cartaginesi ebbero un condottiero più valoroso di Annibale, mai i Romani ebbero un nemico più valoroso di Annibale. Essendo (Annibale) partito molto giovane da Cartagine, prestò servizio militare in Spagna sotto il padre Amilcare e dopo la morte di questo fu acclamato generale dai soldati. Assai desideroso di gloria e potere, arrivò in Italia con un gran numero di soldati. Il tragitto attraverso le Alpi, d’inverno, fu piuttosto difficile per l’abbondanza delle nevi e del gelo rigidissimo, ma la forte volontà di Annibale superò tutte le difficoltà e tutti i pericoli. In battaglia fu più abile e meno imprudente dei consoli dei Romani; infatti, presso il Ticino, la Trebbia ed il lago Trasumeno ottenne facilmente vittorie famosissime. Infine sbaragliò i nemici presso Canne, dove il console Lucio Emilio Paolo e molti soldati furono uccisi, pochi ne uscirono incolumi. Poi, richiamato a Cartagine, Annibale combattè presso Zama contro Scipione l’Africano, generale abilissimo. Dopo essere stato vinto, si rifugiò in Bitinia presso il re Prusia, dove, per non essere catturato dai Romani, assunse un veleno.

“Enea e il re Latino”

In Latio rex Latinus in longa pace arva opÄ«ma et urbes placidas regebat. Troiani, qui nihil praeter arma et naves habebant, ex agris omnia, quae ad victum necessaria erant, sumpsÄ“runt. Rex Latinus aboriginesque, agrorum incolae, armati concurrÄ“runt ut cum advÄ›nis pugnarent. Iam exercitus proelium commissuri erant, cum Latinus ducem advenarum ad colloquium evocavit. Nam regi oraculum dei Fauni praedixÄ›rat magnum virum, virtute et pietate insignem, in Latium perventurum esse, novam et invictam stirpem procreaturum. In colloquio cum Latino Aeneas dixit: “Nos Troiani sumus, ego Aeneas (sum), filius Anchisae et deae Veneris. Hostes non sumus, neque agros vestros vastaturi neque oppia vestra oppugnaturi venÄ­mus, sed ut novam urbem, deorum iussu, conderemus”. Deinde regi narravit Torianos e patria a Graecis capta deletaque fugisse et post longos errores ab insula Sicilia ad Italiam navigavisse et ad ostium Tiberis appulisse. Latinus, ut amicitiam cum Troianis iungÄ›ret, Aeneae filiam Laviniam, quam Turno, Rutulorum regis, primo despondÄ›rat, in matrimonium dedit. Turnus, tanta iniuria accepta iratus, bellum suscÄ“pit, sed postremo cum Aenea in singulari certamine strenue pugnans cecÄ­dit.

Nel lazio il re Latino reggeva in lunga pace i fertili campi e le tranquille città. I Troiani, che non avevano nulla eccetto che le armi e le navi, presero dai campi tutte le cose che erano necessarie per il vitto. Il re latino e gli aborigeni, abitanti dei campi, accorsero armati per lottare con gli avversari. Già l’esercito stava per intraprendere il combattimento, quando Latino chiamò a colloquio il comandante degli stranieri. Infatti l’oracolo del dio Fauno aveva predetto al re che un grande uomo, illustre per virtù e pietà, sarebbe giunto nel Lazio e avrebbe generato una nuova e invinta stirpe. Durante il colloquio con Latino Enea disse: “Noi siamo troiani, io sono Enea, figlio di Anchise e della dea Venere. Non siamo nemici e non siamo venuti per devastare i vostri campi e nè per devastare la vostra città, ma per fondare una nuova città per ordine degli dei”. Infine narrò al re che i Troiani erano fuggiti dalla patria presa e distrutta dai Greci e che dopo un lungo errare aveva navigato dalla Sicilia all’Italia e che erano approdati al Tevere. Latino, per unirsi in amicizia con i Troiani, diede in matromio a Enea la figlia Lavinia, che già era stata promessa a Turno, re dei Rutuli. Turno, irato dall’offesa ricevuta, proclamò guerra ma alla fine cadde combattendo strenuamente nel duello con Enea.

“La Sicilia”

Dicunt maximam et nobilissimam insularum, quae in mari Mediterraneo adsurgunt, esse Siciliam, cui primo Trinacriae nomen fuit. Perangustum fretum eam ab Italia dividit, quod celerrimo brevissimoque cursu naves superant. Hac insula nulla terra est caelo felicior et feracitate praestantior. Furitur enim uberrima soli natura, ibique ver est diutinum, brevior hiems quam in ceteris terris. Insulae, ut in antiquissim fabulis legimus, prisci incolae Cyclopes fuerunt, taeterrimum genus, feris quam hominibus proprius; deinde, historium testimonio, Sicani ac deinceps Carthaginienses et Gaeci per multas sed maxime varias vices eam tenuerunt, Romani postremi armis et virtute imperio suo adiunxerunt.

Dicono che la Sicilia sia la più grande e nobile delle isole che sorgono nel mar Mediterraneo, il cui nome inizialmente fu Trinacria. Un assai angusto stretto la divide dall’Italia, che le navi con velocissimo e brevissimo corso superarono. Nessuna terra è più mite per cielo e più prestante per fertilità di quest’isola. Infatti la salutare natura del sole, e qui la primavera è eterna, più breve l’inverno rispetto alle altre terre. I primi abitanti dell’isola, come leggiamo nelle antiche favole, furono i Ciclopi, genere assai mostruoso, feroce più degli uomini, poi secondo testimonianza delle storie, i Sicani e poi i Cartaginesi e i Greci la tennero attraverso molte e diverse vicessitudini, alla fine i Romani l’aggiunsero al proprio potere con le armi e la virtù.

Orationes, In Pisonem, 11

Magnum nomen est, magna species, magna dignitas, magna maiestas consulis; non capiunt angustiae pectoris tui, non recipit levitas ista, non egestas animi; non infirmitas ingeni sustinet, non insolentia rerum secundarum tantam personam, tam gravem, tam severam. Seplasia me hercule, ut dici audiebam, te ut primum aspexit, Campanum consulem repudiavit. Audierat Decios Magios et de Taurea illo Vibellio aliquid acceperat; in quibus si moderatio illa quae in nostris solet esse consulibus non fuit, at fuit pompa, fuit species, fuit incessus saltem Seplasia dignus et Capua. Gabinium denique si vidissent duumvirum vestri illi unguentarii, citius agnovissent. Erant illi compti capilli et madentes cincinnorum fimbriae et fluentes purpurissataeque buccae, dignae Capua, sed illa vetere; nam haec quidem quae nunc est splendidissimorum hominum, fortissimorum virorum, optimorum civium mihique amicissimorum multitudine redundat. Quorum Capuae te praetextatum nemo aspexit qui non gemeret desiderio mei, cuius consilio cum universam rem publicam, tum illam ipsam urbem meminerant esse servatam. Me inaurata statua donarant, me patronum unum asciverant, a me se habere vitam, fortunas, liberos arbitrabantur, me et praesentem contra latrocinium tuum suis decretis legatisque defenderant et absentem principe Cn. Pompeio referente et de corpore rei publicae tuorum scelerum tela revellente revocarant. An tum eras consul cum in Palatio mea domus ardebat non casu aliquo sed ignibus iniectis instigante te? Ecquod in hac urbe maius umquam incendium fuit cui non consul subvenerit? At tu illo ipso tempore apud socrum tuam prope a meis aedibus, cuius domum ad meam domum exhauriendam patefeceras, sedebas non exstinctor sed auctor incendi et ardentis faces furiis Clodianis paene ipse consul ministrabas.

Grande è il nome, grande l’aspetto, grande la nobiltà, grande l’autorevolezza del console; non lo affliggono le angosce del tuo cuore, non lo distrae codesta volubilità né la mancanza di carattere. La via Seplasia, a quanto sentivo dire, appena ti ha visto ti ha rifiutato un console campano. Aveva sentito parlare di persone come Decio Magio e aveva avuto qualche notizia del famoso Vibellio Taurea, nei quali, se mancava il senso della misura che di solito si trova nei nostri consoli, almeno c’era una magnificenza, un aspetto, un portamento degno della via Seplasia e di Capua. Insomma se quei vostri profumieri avessero visto come duumviro Gabinio, l’avrebbero riconosciuto prima. Aveva i capelli ben acconciati, sfrangiature di riccioli stillanti di unguenti, le guance cascanti e imbellettate degne di Capua; ma di quella di un tempo, perché quella di adesso è colma di una quantità di persone della più grande signorilità, di uomini pieni di coraggio, di cittadini ottimi e con la più viva amicizia per me. Nessuno di loro ti ha visto in pretesta senza levare gemiti di rimpianto, perché ricordavano bene che dalla mia saggezza sia lo stato tutto quanto sia la loro città erano stati salvati. A me avevano reso onore con una statua dorata, me avevano assunto come unico patrono, a me erano convinti di essere debitori della vita, dei beni, dei figli, me sia avevano difeso, quando ero a Roma, con i loro decreti e con i loro inviati dalla tua azione da brigante sia, durante la mia assenza, hanno richiamato quando Pompeo per primo metteva il problema all’ordine del giorno e strappava dal corpo dello stato i dardi dei tuoi delitti. Eri console quando sul Palatino la mia casa bruciava non per qualche accidente ma perché per tua istigazione vi era stato appiccato il fuoco? Quale incendio di qualche rilievo si è mai verificato in questa città senza che un console accorresse in aiuto? Invece tu proprio in quel momento te ne stavi seduto vicino a casa mia da tua suocera, la cui casa avevi fatto spalancare per vuotare la mia, non per estinguere ma per provocare l’incendio ed eri tu, il console, a fornire quasi di persona torce accese alle furie di Clodio.

“Dignitose proposte di pace degli abitanti di Priverno ai Romani”

Cum occupatum esset Privernum interfectique essent ii qui id oppidum ad rebellionem incitaverant, senatus, indignatione accensus, consilium agitabat quid sibi de reliquis Privernatibus esset faciendum. Tunc Privernates, quamvis animadverterent auxilium unicum in precibus sibi futurum esse, ingenui et Italici sanguinis oblivisci non potuerunt. Princeps enim eorum in curia interrogatus quam poenam cives eius pati mererentur, respondit: “Poenam quam merentur qui se dignos libertate iudicant”. His verbis patrum conscriptorum animos inflammaverat, qui magnam poenam decreturi erant. Sed Plautius consul, favens Provernatium causae, quaesivit es Privernatibus, qualem pacem cum eis Romani habituri essent, si impunitas eis data esset; et princeps constantissimo vultu “Si bonam dederitis ““ inquit ““ pacem, perpetuam habituri estis, si malam non diuturnam”. Qua voce commoti patres constituerunt ut victis non solum venia sed etiam ius et beneficium nostrae civitatis daretur.

Dopo che Priverno fu occupata e dopo aver ucciso quelli che avevano sollevato quella città alla ribellione, il senato, acceso di indignazione, rifletteva su che cosa doveva fare dei restanti Privernati. Allora i Privernati, nonostante si rendessero conto che l’unico soccorso per loro sarebbe stato nelle suppliche, non poterono dimenticarsi del loro sangue libero e italico. Infatti il loro capo interrogato in senato su quale pena i propri cittadini meritassero patire, rispose: “La pena che si meritano coloro che si ritengono degni della libertà”. Con queste parole aveva acceso gli animi dei senatori, che si accingevano ad infliggere una pesante punizione. Ma il console Plozio, che era propizio alla causa dei Privernati, domandò ai Privernati che tipo di pace i Romani si sarebbero accinti a pattuire con loro, se fosse stata data loro l’impunità; e il capo con sguardo molto fermo: “Se ce ne avrete data una buona, state per averla infinita, se cattiva non durevole”. I senatori commossi da questo discorso stabilirono che fosse dato ai vinti non solo il perdono ma anche il diritto e il beneficio della nostra cittadinanza.

“Prudenza di un luogotenente di Cesare”

Dum haec in Venetis geruntur, Q. Titurius Sabinus cum iis copiis, quas a Caesare acceperat, in fines Unellorum pervenit. His praeerat Viridovix ac summam imperii tenebat earum omnium civitatum, quae defecerant, ex quibus exercitum magnasque copias coegerat; atque his paucis diebus Aulerci Eburovices Lexoviique senatu suo interfecto, quod auctores belli esse nolebant, portas
clauserunt seseque cum Viridovice coniunxerunt. Magnaque praeterea multitudo undique ex Gallia perditorum hominum latronumque convenerat, quos spes praedandi studiumque bellandi ab agri cultura et cotidiano labore revocabat. Sabinus idoneo omnibus rebus loco castris se tenebat, cum Viridovix contra eum duorum milium spatio consedisset cotidieque productis copiis pugnandi potestatem faceret, ut iam non solum hostibus in contemptionem Sabinus veniret, sed etiam nostrorum militum vocibus nonnihil carperetur; tantamque opinionem timoris praebuit, ut iam ad vallum castrorum hostes accedere auderent. Id ea de causa faciebat quod cum tanta multitudine hostium, praesertim eo absente qui summam imperii teneret, nisi aequo loco aut opportunitate aliqua data legato dimicandum non existimabat.

Mentre si compivano queste cose contri i Veneti, Q. Titurio Sabino con quelle truppe, che aveva ricevuto da Cesare, giunse nei territori degli Unelli.Era loro capo Virodovice e teneva il controllo del potere di rutte quelle nazioni, che s’erano ribellate, tra le quali aveva radunato un esercito e grandi truppe;ma dopo pochi giorni, Aulirci, Eburovici e Lessovi, ucciso il loro senato, perché non volevano essere iniziatori della guerra, chiusero le porte e si unirono con Virodovice.Inoltre da ogni darte dalla Galli si era raccolta una gran massa di personaggi perduti e predoni, che una speranza di far bottino ed una voglia di combattere distoglieva dall’afgricoltura e dalla fatica quotidiana.Sabino si manteneva negli accampamenti in posizione favorevole per tutte le situazioni, mentre Virodovice si era insediato contro di lui alla distanza di due miglia e quotidianamente fatte avanzare le truppe offriva la possibilità di combattere, tanto che Sabino non solo per i nemici arrivava al disprezzo, ma qualcosa si poteva cogliere anche dalle frasi dei nostri soldati; ed offri una così grande convinzione di paura, che ormai i nemici osavano avvicinarsi alla palizzata deglia accampamenti. Faceva ciò per tale motivo, perché con una massa così grande di nemici, soprattutto essendo assente colui che deteneva il supremo comando, il legato non riteneva di scontrarsi se non in posizione favorevole o per una qualche opportunità offertasi.

“Niobe”

Cum Tiresias vates iussisset Thebanos Latonae, Apollonis et Dianae matri, hostias immolare, Nioba, Thebanorum regis uxor, per urbem superba incedens, popolum a deae aris insolentibus verbis submovebat: “Cur, cives, ignotae deae sacrificare vultis? Omnes sciunt Tantalum patrem meum esse, Iovem, deorum patrem, avum meum (esse). Ego septem filios totidemque filias habeo, Latona mater est duorum tantum liberorum. Talem igitur deam ne colueritis!”. Thebani reginae dicto paruerunt. Sed Latona, Niobae superbiam aegre ferens, a filiis suis petivit ut iniuriam vindicarent et reginam poena afficerent. Statim Apollo et Diana ex Olympo Thebas descenderunt ac primum deus septem Niboae filios sagittis confodit. Sed, cum mater filiorum nece prostrata non esset, Diana omnes eius filias necavit. Narrant infelicem Niobam, maerore ac lacrimis confectam, a Iove in saxum mutatam esse.

Quando il vate Tiresia ordinò che i Tebani immolassero a Latona, madre di Apollo e Diana, delle vittime, Niobe, moglie del re dei Tebani, avanzando con superbia verso la città, allontanava il popolo dagli altari della dea con insolenti parole: “Perchè, cittadini, volete fare sacrifici ad una dea sconosciuta? Tutti sanno che Tantalo è mio padre, che Giove, padre degli dei, è mio nonno. Io ho sette figli e altrettante figlie, Latona è madre di soltanto due figli. Perciò non onorate tale dea!”. I Tebani obbedirono al comando della regina. Ma Latona, sopportando a stento la superbia di Niobe, chiese ai suoi figli di vendicare l’offesa e di punire la regina. Subito Apollo e Diana scesero dall’Olimpo a Tebe e il primo dio trafisse con delle frecce i sette figli di Niobe. Ma, poichè la madre non era avvilita per la morte dei figli, Diana uccise tutte le sue figlie. Si narra che l’infelice Niobe, distrutta dalla tristezza e dalle lacrime, fu trasformata da Giove in un sasso.

Fabulae, 38 (Hoedus et Lupus)

Quum hoedus evasisset lupum et confugisset in caulamovium, quid tu, stulte, inquit ille, hic te salvumfuturum speras, ubi quotidie pecudes rapi et diismactari videas? Non curo, inquit hoedus; nam simoriendum sit, quanto praclarius mihi erit, meocruore aspergi aras deorum immortalium quam irrigarisiccas lupi fauces. Haec fabula docet, bonos mortemquae omnibus imminet, non timere, si cum honestate etlaude conjuncta sit.

Avendo il capretto evitato il lupo ed essendosi rifugiato nel recinto ovile: “Che cosa tu stoltamente ““ disse il lupo ““ speri che con questo ti sia salvo il futuro, dove ogni giorno, greggi sono portati via e le vittime sono date negli altari degli dei onorati?”. “Se dunque ““ disse il capretto ““ devo morire, quanto sarà più precaria con il mio sangue sparso sugli altari degli dei immortali, che bagnare le asciutte fauci del lupo!”. Questa favola insegna che i buoni non temono la morte che incombe su tutti, se è congiunta con onestà ed elogio.

Fabulae, 19 (“Non vanno puniti solo gli autori ma anche gli istigatori dei delitti”)

Tubicen ab hostibus captus, ne me, inquit,interficite; nam inermis sum, neque quidquam habeopraeter hanc tubam. At propter hoc ipsum, inquiunt,te interimemus; quod, quum ipse pugnandi sisimperitus, alios ad pugnam incitare soles. Fabula docet, non solum maleficos esse puniendos, sed etiameos, qui alios ad male faciendum irritent.

Un trombettiere catturato dai nemici: “Non volete uccidermi ““ disse – infatti sono inerme, e non ho nulla eccetto questa tromba”. Ma i nemici: “A causa di questa stessa cosa ““ risposero ““ ti uccideremo, poiché tu sei inesperto nel combattere, tuttavia sei solito incitare gli altri alla battaglia”. La favola insegna che non si deve punire solo i cattivi, ma anche quelli che esortano gli altri a fare il male.

Fabulae, 24 (“Contro i coraggiosi a parole”)

Mures aliquando habuerunt consilium, quomodo a felecaverent. Multis aliis propositis, omnibus placuit,ut ei tintinnabulum annecteretur: sic enim ipsos,sonitu admonitos, eam fugere posse. Sed quum jaminter mures quaereretur, qui feli tintinnabulumannecteret, nemo repertus est. Fabula docet, insuadendo plurimos esse audaces, sed in ipso periculotimidos.

I topi una volta ebbero un consiglio su come stare attenti al gatto. Alle molte cose proposte, alla fine con il consenso di tutti stabilirono di attaccare a lui un campanello, affinché gli stessi, potessero evitarlo, avvertiti dal suono. Ma quando si è cercato tra i topi chi avrebbe attaccato il campanello al gatto, non si trovò nessuno. La favola insegna che gli audaci nell’esortare sono di più, ma nello stesso pericolo sono paurosi.

“Pisistrato conquista Mègara”

Atheniensibus cum Megarensibus veters inicimicitiae erant. Athenienses, qui hostes crebris proeliis superaverant, propter eorum recentes iniurias bellum renovaverunt et Pisistratum, virum animi fortis acrisque, ducem creaverunt. Megarenses, memores pristinarum claudium, in acie confligere noluerunt, sed Atheniensibus insidias paraverunt. Nam noctu navibus Eleusinem contenderunt, matronas Athenienses Cereris sacra celebrantes vi abducturi. Ad effectum consilii sui iam perventuri erant, cum Pisistratus cum delectis militibus supervenit. Dux enim, cognita re, milites in silvis occultaverat atque, hostibus appropinquantibus, signum dedit, Megarenses inopinantes oppressit eorumque classem expugnavit. Postea, militibus cum mulieribus in naves hostium impositis, Megaram contendit. Cum cives e moenibus navium formam et praedam agnoverunt, laetitia exsultantes ad portum accurrerunt. Athenienses igitur omnes cives incautos atque imparatos necaverunt et urbem, a defensoribus vacuam, occupaverunt. Ita Megarenses dolis suis magnae victoriae occasionem Atheniensibus dederunt.

Antiche inimicizie (vi) erano tra Ateniesi e Megarensi. Gli Ateniesi, che avevano superato i nemici in numerosi combattimenti, per le loro recenti ingiurie rinnovarono la guerra e nominarono comandante, Pisistrato, uomo d’animo forte e feroce. I Megarensi, memori delle vecchie stragi, non vollero combattere in battaglia, ma prepararono insidie agli Ateniesi. Infatti di notte con le navi si diressero all’Eleusino, per rapire le matrone Ateniesi, che stavano celebrando riti sacri a Cerere. Stavano così per giungere all’effetto del loro piano, quando Pisistrato giunse con milizie scelte. Il comandante infatti, saputa la cosa, aveva nascosto le milizie nei boschi e, avvicinandosi i nemici, diede il segnale, oppresse i sorpresi Megarensi e espugnò la loro flotta. Dopo, imbarcati soldati con le mogli nelle navi dei nemici, si diresse a Megara. Quando i cittadini riconobbero dalle mura l’aspetto delle navi e il bottino, accorsero al porto esultanti di gioia. Gli Ateniesi dunque uccisero tutti i cittadini incauti e impreparati e occuparono la città, vuota dai difensori. Così i Megarensi con i loro inganni diedero l’opportunità per una grande vittoria agli Ateniesi.

“Il dado è tratto”

Cum Caesar cum cohortibus ad Rubiconem flumen, quod Galliae Cisalpinaefinis erat, advenisset, paulum constitit. Nam, cum ponticulum suas copias traducturus esset, proximis dixit: “Si vero ponticulum transcensuri erimus, bellum civile exardescet”. Dum alia dicturus est, prodigium apparuit, quod omen faustum putatum est. Tum caesar dixit: “Age, alea iacta est!”. Cum haec verba dixisset, Rubiconem flumen trascendit.

Dopo che Cesare fu giunto con le sue coorti presso il fiume Rubicone, che era il confine della Gallia Cisalpina, si fermò un po’. Infatti, essendo sul punto di trasportare le sue truppe al di là del ponticello, disse ai più vicini: “Se attraverseremo il ponticello, scoppierà la guerra civile”. Mentre stava dicendo altre cose, apparve un presagio che fu considerato di buon augurio. Allora Cesare disse: “Orsù, il dado è tratto”. Dopo aver pronunciato queste parole, oltrepassò il fiume Rubicone.

“Imprese di Teseo”

Theseus, Aegei Atheniensium regi filius, magnas res gessit. Debellavit Amazonas, genus mulierum crudelium bellicosarumque, apud Tanaim et Thermodonta flumina habitantes, earumque reginam Hyppolytam domum suam abduxit, quae ei Hyppolitum filium peperit. In insula Creta, Ariadna, regis filia, adiuvante, Minotaurum, monstrum immane, partim hominis partim tauri formam habentem, occidit et patriam cruento tributo liberavit. Creta Athenas navigans, et virginis amoris contemptor et benficii immemor, in insula Naxo miseram Ariadnam deseruit. Cum Pirithoo, familiari suo, ad inferos descendit, Proserpinam, Plutonis uxorem, rapturus. Pirithoo a cerbero, Tartareo custode, occiso, Theseus, aliquamdiu in vinculis Plutonis detentus, tandem ab Hercule liberatus est. Postquam Athenas rediit, civium discordia permotus, sponte sua in exilium iit, patriam, quam tantum amavit, reprehendes. In insula Scyro domicilium suum collocavit, sed a rege Lycomede necatus est.

Teseo, figlio del re ateniese Egeo, compì grandi imprese. Uccise le Amazzoni, popolo di donne crudeli e bellicose, che abitavano presso i fiumi Tanai e Termodonte, condusse a casa sua la loro regina Ippolita, che gli partorì il figlio Ippolito. Nell’isola greca di Creta, nell’aiutare Arianna, figlia del re, uccise il Minotauro, un mostro grandissimo, che aveva corpo in parte di uomo in parte di toro e liberò la patria dal cruento tributo. Navigando da Creta verso Atene, rifiutando l’amore della fanciulla e non curandosi del beneficio, abbandonò l’infelice Arianna nell’isola di Naxo. Discese negli inferi con Piritoo, suo schiavo, con l’intenzione di rapire Proserpina, moglie di Plutone. Ucciso Piritoo per mano di Cerbero, il guardiano del Trataro, Teseo, trattenuto per molto tempo nelle catene di Plutone, fu liberato finalmente da Ercole. Dopo che ritornò ad Atene, spinto dalla discordia dei cittadini, andò in esilio di sua volontà, mentre era trattenuto dalla patria che amò tanto. Collocò la sua casa nell’isola di Sciro, ma fu fatto uccidere dal re Licomede.

“La guerra contro Giugurta”

Iugurthae, Numidarum regi, bello indicto, Calpurnius Bestia consul cum exercitu a senatu in Africam missus est, sed regis pecunia curruptus, flagitiosam pacem cum hostibus fecit. Calpurnio Romam revocato, belli imperium Sp. Postumio Albino commissum est, qui ignominiose contra Numidas pugnavit. Tum Q. Caecilius Metellus consul, gravis atque integer vir, in Africam missus est. Metellus, exercitu ingenti severitate correcto et ad pristinam disciplinam militarem reducto, variis proeliis Iugurtham vicit, eius elephantes occidit vel cepit, multasque Numidarum civitates subegit. Metello, qui propter egregia facta Numidicus appelatus est, successit Caius Marius, dux strenuus atque rei militaris peritus. Marius Iugurtham eiusque socium Bocchum, Mauritaniae regem, proelio superavit bellumque confecit. Romae Iugurtha catenis vinctus ante currum Marii triumphantis adductus est; paulo post, consulis iussu, in carcere strangulatus est.

Dichiarata guerra a Giugurta, il re dei numidi, il console Calpurnio Bestia fu mandato in Africa dal senato, ma corrotto dal denaro del re, fece una pace vergognosa con i nemici. Dopo che Calpurnio fu richiamato a Roma, il comando della guerra fu consegnato a Spurio Postumio Albino, il quale combattè in modo vergognoso contro i numidi. Allora il console Quinto Cecilio Metello, uomo autorevole e integro, fu madnato in Africa. Metello, dopo aver corretto l’esercito con grande severità e dopo averlo ricondotto alla disiciplina di prima, vinse Giugurta per mezzo di varie battaglie, prese o uccise i suoi elefanti e sottomise molti cittadini della Numidia. A Metello, che a causa delle sue straordinarie azioni fu chiamato “Numidico”, succeddette Caio Mario, comandante valoroso e conoscitore dell’arte della guerra. Mario superò in battaglia Giugurta e il suo alleato Bocco, re di Mauritania, e fece scoppiare la guerra tra uno e l’altro. A Roma Giugurta legato con delle catene fu condotto davanti al carro di Mario trionfante; poco dopo, per ordine del console, fu strangolato in prigione.