Bella per Emathios plus quam civilia campos
iusque datum sceleri canimus, populumque potentem
in sua victrici conversum viscera dextra
cognatasque acies, et rupto foedere regni
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certatum totis concussi viribus orbis
in commune nefas, infestisque obvia signis
signa, pares aquilas et pila minantia pilis.
quis furor, o cives, quae tanta licentia ferri?
gentibus invisis Latium praebere cruorem
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cumque superba foret Babylon spolianda tropaeis
Ausoniis umbraque erraret Crassus inulta
bella geri placuit nullos habitura triumphos?
heu, quantum terrae potuit pelagique parari
hoc quem civiles hauserunt sanguine dextrae,
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unde venit Titan et nox ubi sidera condit
quaque dies medius flagrantibus aestuat horis
et qua bruma rigens ac nescia vere remitti
astringit Scythico glacialem frigore pontum!
sub iuga iam Seres, iam barbarus isset Araxes
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et gens siqua iacet nascenti conscia Nilo.
tum, si tantus amor belli tibi, Roma, nefandi,
totum sub Latias leges cum miseris orbem,
in te verte manus: nondum tibi defuit hostis.
at nunc semirutis pendent quod moenia tectis
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urbibus Italiae lapsisque ingentia muris
saxa iacent nulloque domus custode tenentur
rarus et antiquis habitator in urbibus errat,
horrida quod dumis multosque inarata per annos
Hesperia est desuntque manus poscentibus arvis,
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non tu, Pyrrhe ferox, nec tantis cladibus auctor
Poenus erit: nulli penitus descendere ferro
contigit; alta sedent civilis volnera dextrae.
quod si non aliam venturo fata Neroni
invenere viam magnoque aeterna parantur
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regna deis caelumque suo servire Tonanti
non nisi saevorum potuit post bella gigantum,
iam nihil, o superi, querimur; scelera ipsa nefasque
hac mercede placent. diros Pharsalia campos
inpleat et Poeni saturentur sanguine manes,
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ultima funesta concurrant proelia Munda,
his, Caesar, Perusina fames Mutinaeque labores
accedant fatis et quas premit aspera classes
Leucas et ardenti servilia bella sub Aetna,
multum Roma tamen debet civilibus armis
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quod tibi res acta est. te, cum statione peracta
astra petes serus, praelati regia caeli
excipiet gaudente polo: seu sceptra tenere
seu te flammigeros Phoebi conscendere currus
telluremque nihil mutato sole timentem
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igne vago lustrare iuvet, tibi numine ab omni
cedetur, iurisque tui natura relinquet
quis deus esse velis, ubi regnum ponere mundi.
sed neque in Arctoo sedem tibi legeris orbe
nec polus aversi calidus qua vergitur Austri,
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unde tuam videas obliquo sidere Romam.
aetheris inmensi partem si presseris unam,
sentiet axis onus. librati pondera caeli
orbe tene medio; pars aetheris illa sereni
tota vacet nullaeque obstent a Caesare nubes.
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tum genus humanum positis sibi consulat armis
inque vicem gens omnis amet; pax missa per orbem
ferrea belligeri conpescat limina Iani.
sed mihi iam numen; nec, si te pectore vates
accipio, Cirrhaea velim secreta moventem
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sollicitare deum Bacchumque avertere Nysa:
tu satis ad vires Romana in carmina dandas.
fert animus causas tantarum expromere rerum,
inmensumque aperitur opus, quid in arma furentem
inpulerit populum, quid pacem excusserit orbi.
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invida fatorum series summisque negatum
stare diu nimioque graves sub pondere lapsus
nec se Roma ferens. sic, cum conpage soluta
saecula tot mundi suprema coegerit hora
antiquum repetens iterum chaos, [omnia mixtis
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sidera sideribus concurrent,] ignea pontum
astra petent, tellus extendere litora nolet
excutietque fretum, fratri contraria Phoebe
ibit et obliquum bigas agitare per orbem
indignata diem poscet sibi, totaque discors
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machina divolsi turbabit foedera mundi.
in se magna ruunt: laetis hunc numina rebus
crescendi posuere modum. nec gentibus ullis
commodat in populum terrae pelagique potentem
invidiam Fortuna suam. tu causa malorum
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facta tribus dominis communis, Roma, nec umquam
in turbam missi feralia foedera regni.
o male concordes nimiaque cupidine caeci,
quid miscere iuvat vires orbemque tenere
in medio? dum terra fretum terramque levabit
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aer et longi volvent Titana labores
noxque diem caelo totidem per signa sequetur,
nulla fides regni sociis, omnisque potestas
inpatiens consortis erit. nec gentibus ullis
credite nec longe fatorum exempla petantur:
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fraterno primi maduerunt sanguine muri.
nec pretium tanti tellus pontusque furoris
tunc erat: exiguum dominos commisit asylum.
temporis angusti mansit concordia discors
paxque fuit non sponte ducum; nam sola futuri
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Crassus erat belli medius mora.
Cantiamo guerre più atroci di quelle civili, combattute sui campi d’Emazia, e il delitto divenuto legalità e un popolo potente che si è rivolto contro le sue stesse viscere con la destra vittoriosa e i contrapposti eserciti appartenenti allo stesso sangue e – infranto il patto della tirannia – tutte le energie del mondo sconvolto che lottano per un comune misfatto e le insegne che vanno contro quelle avversarie e le aquile contrarie alle aquile e i giavellotti minacciosi contro i giavellotti.
Quale follia, o cittadini, quale sfrenato abuso delle armi offrire il sangue latino alle genti nemiche? Mentre si sarebbero dovuti strappare alla superba Babilonia i trofei italici e mentre l’ombra di Crasso continuava ad errare invendicata, si decise di intraprendere guerre che
non avrebbero avuto alcun trionfo? Oh, con il sangue che venne versato nei conflitti civili quanto spazio in terra e in mare si sarebbe potuto conquistare, là donde sorge il sole, dove la notte occulta gli astri, dove il mezzogiorno arde di ore infuocate, dove il rigido inverno, incapace di sciogliere il suo freddo anche in primavera, stringe il mare glaciale con freddo scitico: sarebbero già stati sottomessi i Seri, il barbaro Arasse e la popolazione, se esiste, che conosce le sorgenti del Nilo! Allora, o Roma, se brami tanto una guerra empia – una volta che avrai sottomesso l’orbe intero alle leggi latine – rivolgi la mano contro te stessa: fino ad ora non ti sono mancati i nemici. Ma adesso – del fatto che, nelle città d’Italia, le mura delle case diroccate minacciano di cadere e, crollate le pareti, grandi massi giacciono a terra e non c’è più alcuno che custodisca le abitazioni e soltanto qualche raro abitante vaga per le antiche città e, ancora, del fatto che l’Esperia sia irta di rovi, senza che l’aratro, per molti anni, abbia lavorato e che mancano le braccia per i campi che le richiedono – di così grandi sciagure non sei responsabile né tu, o feroce Pirro, né il Cartaginese: a nessuno è toccato in sorte di penetrare così internamente con il ferro: le ferite inferte dalla guerra civile sono le più profonde e inguaribili.
Se poi i fati non hanno trovato altro mezzo per l’avvento di Nerone e a caro prezzo si apprestano gli eterni regni per gli dèi e il cielo poté servire al suo Tonante solo dopo le guerre combattute contro i crudeli Giganti, noi, o numi, non ci lamentiamo più ormai: approviamo questi nefandi delitti, se essi hanno avuto tali conseguenze: Farsàlo sommerga di sangue i campi maledetti e se ne sazino i Mani cartaginesi, gli estremi combattimenti abbiano luogo nella funesta Munda, a questi tristi destini si aggiungano, o Cesare, la fame di Perugia e il travaglio di Modena e le flotte che si trovano sotto la rocciosa Lèucade e le guerre servili sotto l’Etna infuocato: purtuttavia Roma deve molto ai conflitti civili, dal momento che tutto ciò si è realizzato per te. Te – allorquando, completato il periodo del tuo soggiorno terreno, salirai, il più tardi possibile, verso gli astri – accoglierà la reggia del cielo, che avrai scelto, fra il tripudio dell’universo: sia che ti piaccia impugnare lo scettro sia che tu voglia montare sul carro fiammeggiante di Febo e percorrere con il fuoco errante la terra che non avrà timore del nuovo sole, ogni nume si ritirerà dinanzi a te e la natura ti lascerà il diritto di decidere qual dio vorrai essere e dove collocare il tuo regno sull’universo. Ma non scegliere la tua sede nella zona dell’Orsa né in quella opposta, dove si trova il caldo polo australe, donde vedresti la tua Roma con una traiettoria obliqua: se tu graverai su una sola parte dell’etere immenso, l’asse dell’universo sentirà il tuo peso. Equilibra con un’orbita centrale la massa del cielo: quella zona dell’etere sereno sia libera del tutto e nessuna nube sia di ostacolo dalla parte di Cesare. Allora il genere umano, deposte le armi, pensi a se stesso e ogni popolo si ami vicendevolmente: la pace, diffusa per il mondo, chiuda le ferree porte del tempio di Giano apportatore di guerra. Ma tu per me sei fin da ora un dio e se io, accogliendoti nel mio petto, divengo poeta, non vorrei sollecitare il dio che rivela i segreti di Cirra e distogliere Bacco da Nisa: tu basti ad infondere forza e ispirazione per un poema romano.
È mia intenzione portare alla luce i motivi di avvenimenti così importanti: mi si rivela una fatica immane, quella cioè di svelare che cosa abbia spinto il popolo impazzito alle armi, che cosa abbia cacciato via la pace dal mondo: invidiosa è la successione dei fati, non è consentito a ciò che è giunto al culmine di durare a lungo, pesanti sono le cadute sotto un peso troppo gravoso, né Roma è più in grado di sostenersi. Così – allorquando, scardinato il meccanismo che tiene insieme il mondo, l’ora estrema avrà concluso il ciclo di tante generazioni, dando nuovamente luogo all’antico caos – tutti gli astri si mescoleranno e cozzeranno fra loro, le stelle infuocate precipiteranno nel mare, la terra non vorrà estendere le sue spiagge e respingerà le acque, Febe si dirigerà contro il fratello e, sdegnatasi di percorrere l’orbita obliqua, chiederà per sé il giorno e tutta la struttura del mondo, ormai scardinatasi, sconvolgerà le leggi dell’universo. La grandezza precipita su se stessa: gli dèi posero questo limite alla crescita della prosperità. Né la Fortuna offre ad alcuna popolazione straniera la propria invidia contro un popolo potente per terra e per mare: tu, o Roma, sei la causa dei tuoi mali, tu, resa possesso comune di tre padroni, e i patti funesti di un dominio mai prima affidato a tante persone. O malamente concordi e resi ciechi da una eccessiva ingordigia, che giova mescolare le forze e tenere il mondo sotto il vostro dominio? Finché la terra sosterrà il mare e l’aria la terra e il sole continuerà a svolgere la sua lunga fatica e la notte terrà dietro al giorno sempre con le medesime costellazioni, quelli che hanno in comune un dominio non saranno mai leali fra loro e chi detiene il potere non sopporterà di dividerlo con un altro. Non cercate esempi presso altre popolazioni e non ricercate troppo lontano gli esempi di simili destini: le vostre mura furono le prime ad essere macchiate di sangue fraterno. Ed allora la contropartita di una così mostruosa follia non era la terra né il mare: un piccolo rifugio mise di fronte i due contendenti che aspiravano al dominio.
La discorde concordia ebbe breve durata e la pace venne stipulata non per volere dei capi: l’unico ostacolo che si frapponeva alla futura guerra era Crasso.