Turba minor ritu sequitur succincta Gabino,
Vestalemque chorum ducit vittata sacerdos
Troianam soli cui fas vidisse Minervam.
tum, qui fata deum secretaque carmina servant
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et lotam parvo revocant Almone Cybeben,
et doctus volucres augur servare sinistras
septemvirque epulis festus Titiique sodales
et Salius laeto portans ancilia collo
et tollens apicem generoso vertice flamen.
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dumque illi effusam longis anfractibus urbem
circumeunt Arruns dispersos fulminis ignes
colligit et terrae maesto cum murmure condit
datque locis numen; sacris tunc admovet aris
electa cervice marem. iam fundere Bacchum
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coeperat obliquoque molas inducere cultro,
inpatiensque diu non grati victima sacri,
cornua succincti premerent cum torva ministri,
deposito victum praebebat poplite collum.
nec cruor emicuit solitus, sed volnere laxo
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diffusum rutilo dirum pro sanguine virus.
palluit attonitus sacris feralibus Arruns
atque iram superum raptis quaesivit in extis.
terruit ipse color vatem; nam pallida taetris
viscera tincta notis gelidoque infecta cruore
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plurimus asperso variabat sanguine livor.
cernit tabe iecur madidum, venasque minaces
hostili de parte videt. pulmonis anheli
fibra latet, parvusque secat vitalia limes.
cor iacet, et saniem per hiantis viscera rimas
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emittunt, produntque suas omenta latebras.
quodque nefas nullis inpune apparuit extis,
ecce, videt capiti fibrarum increscere molem
alterius capitis. pars aegra et marcida pendet,
pars micat et celeri venas movet inproba pulsu.
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his ubi concepit magnorum fata malorum
exclamat ‘vix fas, superi, quaecumque movetis,
prodere me populis; nec enim tibi, summe, litavi,
Iuppiter, hoc sacrum, caesique in pectora tauri
inferni venere dei. non fanda timemus,
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sed venient maiora metu. di visa secundent,
et fibris sit nulla fides, sed conditor artis
finxerit ista Tages.’ flexa sic omina Tuscus
involvens multaque tegens ambage canebat.
at Figulus, cui cura deos secretaque caeli
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nosse fuit, quem non stellarum Aegyptia Memphis
aequaret visu numerisque
‘aut hic errat’ ait ‘nulla cum lege per aevum
mundus et incerto discurrunt sidera motu,
aut, si fata movent, urbi generique paratur
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humano matura lues. terraene dehiscent
subsidentque urbes, an tollet fervidus aer
temperiem? segetes tellus infida negabit,
omnis an infusis miscebitur unda venenis?
quod cladis genus, o superi, qua peste paratis
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saevitiam? extremi multorum tempus in unum
convenere dies. summo si frigida caelo
stella nocens nigros Saturni accenderet ignis,
Deucalioneos fudisset Aquarius imbres
totaque diffuso latuisset in aequore tellus.
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si saevum radiis Nemeaeum, Phoebe, Leonem
nunc premeres, toto fluerent incendia mundo
succensusque tuis flagrasset curribus aether.
hi cessant ignes. tu, qui flagrante minacem
Scorpion incendis cauda chelasque peruris,
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quid tantum, Gradive, paras? nam mitis in alto
Iuppiter occasu premitur, Venerisque salubre
sidus hebet, motuque celer Cyllenius haeret,
et caelum Mars solus habet. cur signa meatus
deseruere suos mundoque obscura feruntur,
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ensiferi nimium fulget latus Orionis?
inminet armorum rabies, ferrique potestas
confundet ius omne manu, scelerique nefando
nomen erit virtus, multosque exibit in annos
hic furor. et superos quid prodest poscere finem?
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cum domino pax ista venit. duc, Roma, malorum
continuam seriem clademque in tempora multa
extrahe civili tantum iam libera bello.’
terruerant satis haec pavidam praesagia plebem,
sed maiora premunt. nam, qualis vertice Pindi
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Edonis Ogygio decurrit plena Lyaeo,
talis et attonitam rapitur matrona per urbem
vocibus his prodens urguentem pectora Phoebum:
‘quo feror, o Paean? qua me super aethera raptam
constituis terra? video Pangaea nivosis
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cana iugis latosque Haemi sub rupe Philippos.
quis furor hic, o Phoebe, doce, quo tela manusque
Romanae miscent acies bellumque sine hoste est.
quo diversa feror? primos me ducis in ortus,
qua mare Lagei mutatur gurgite Nili:
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hunc ego, fluminea deformis truncus harena
qui iacet, agnosco. dubiam super aequora Syrtim
arentemque feror Libyen, quo tristis Enyo
transtulit Emathias acies. nunc desuper Alpis
nubiferae colles atque aeriam Pyrenen
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abripimur. patriae sedes remeamus in urbis,
inpiaque in medio peraguntur bella senatu.
consurgunt partes iterum, totumque per orbem
rursus eo. nova da mihi cernere litora ponti
telluremque novam: vidi iam, Phoebe, Philippos.’
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haec ait, et lasso iacuit deserta furore.
Tien dietro il gruppo degli assistenti, succinti secondo l’usanza di Gabii, e a capo del gruppo delle Vestali è la sacerdotessa adorna di bende: a lei soltanto è lecito vedere la troiana Minerva; seguono quelli che custodiscono la volontà degli dèi e i segreti responsi e riconducono il simulacro di Cibèle, dopo averlo bagnato nel piccolo Almone, e l’àugure esperto nell’osservare gli uccelli provenienti da sinistra e il settèmviro, che regola i sacri banchetti, e i Tizii sodali e il Salio che reca lieto sul collo gli scudi sacri e il flàmine con la tiara sul nobile capo. E mentre tutti costoro compiono in processione il giro della città, percorrendola tutta quanta, Arrunte raccoglie i fuochi sparsi di un fulmine e li seppellisce con un mesto mormorio e consacra il luogo alla potenza divina. A questo punto egli fa condurre ai sacri altari un toro dall’alta testa. Già aveva iniziato a versare vino e a spargere farina con il coltello ricurvo e la vittima, a lungo insofferente del temuto sacrificio, mentre gli assistenti succinti la costringevano ad abbassare le corna minacciose, offriva, piegate le ginocchia, il collo domato. Ma non sgorgò il sangue che ci si sarebbe aspettato: dalla ferita aperta colò invece uno spaventoso marciume, in luogo del sangue zampillante. Impallidì Arrunte, sbigottito per il funesto sacrificio, e afferrò le viscere della vittima per ricercarvi l’ira degli dèi. Fu sufficiente il loro colore per atterrire l’indovino: una tinta paonazza molto diffusa chiazzava con macchie di sangue le pallide viscere segnate da note orrende e impregnate di sangue gelido ormai rappreso; l’aruspice scorge il fegato fradicio di putredine ed osserva le vene minacciose dalla parte infausta; non è possibile scorgere la fibra del polmone anelante e una sottile fessura taglia le parti vitali; il cuore è immobile e le viscere emettono putredine attraverso fessure aperte e gli intestini svelano le loro parti più riposte; e – segnale funesto, che mai apparve in alcun sacrificio senza conseguenze – ecco che l’aruspice vede crescere su una protuberanza del fegato un’altra escrescenza: una parte penzola corrotta e putrescente, una parte palpita e muove, incutendo spavento, le vene con rapida pulsazione. Non appena Arrunte colse da tutto ciò il fato di immani sventure, esclamò: «A stento è lecito, o numi, che io possa rivelare al popolo quel che state provocando; infatti io non ho celebrato il sacrificio in tuo onore, o sommo Giove: nel petto del toro ucciso si sono insediati gli dèi infernali. Abbiamo paura di eventi inesprimibili, ma si abbatteranno su noi cose ancora peggiori di quel che possiamo temere. Gli dèi volgano in meglio quel che abbiamo visto e non si presti alcuna fede all’esame delle viscere, ma che piuttosto Tagète, il fondatore di quest’arte, si sia inventato tutte queste cose». Così il vate etrusco vaticinava i suoi responsi, avvolgendoli in lunghi e tortuosi giri di parole.
Ma Fìgulo – che si era dedicato alla conoscenza degli dèi e dei misteri del cielo e che l’egiziana Menfi non sarebbe riuscita ad eguagliare nell’osservazione delle stelle e nello studio del ritmo che muove gli astri – disse: «O questo mondo vaga attraverso il tempo senza alcuna regola e gli astri scorrono con movimenti non prefissati oppure, se sono i fati a muovere ogni cosa, per Roma e per il genere umano si prepara una rovina ormai imminente. La terra si spalancherà e le città sprofonderanno oppure l’aria infuocata distruggerà la zona temperata? L’infida terra negherà i suoi prodotti oppure tutte le acque saranno avvelenate? Qual disastro mai state approntando, o dèi, con quale rovina vi apprestate ad incrudelire? L’estremo giorno di una lunga serie si è raccolto in un momento solo. Se nella parte più alta del cielo il gelido e infausto pianeta Saturno accendesse neri fuochi, l’Acquario verserebbe piogge da diluvio universale e l’intera terra sarebbe sommersa dalle acque. Se ora, o Febo, incalzassi con i tuoi raggi il crudele leone di Nèmea, tutto il mondo sarebbe preda del fuoco e l’etere brucerebbe arso dal tuo carro, che scorre sotto la sua volta. Ma questi fuochi non appaiono. Tu, o Gradìvo, che accendi il minaccioso Scorpione dall’ardente coda e ne infiammi le chele, che cosa appresti di spaventoso? Infatti il mite Giove è nascosto profondamente nella zona occidentale, il favorevole pianeta Venere non brilla più, il veloce Cillènio ferma il suo moto: il solo Marte occupa il cielo. Per quale motivo gli astri hanno abbandonato i loro itinerari e sono trascinati ed errano oscuri per l’universo, mentre brilla in maniera eccessiva il fianco di Oriòne armato di spada? Incombe il furore delle armi e il potere del ferro sconvolgerà ogni diritto con la violenza, sarà considerato un atto di valore il delitto sacrilego e questa follia durerà per molti anni. Che giova invocarne la fine dagli dèi? Codesta pace giunge con un padrone. Porta avanti, o Roma, una serie ininterrotta di mali e continua – libera ormai soltanto per la guerra civile – per lungo tempo la strage!».
Questi presagi avevano sufficientemente atterrito il popolo pauroso, ma altri, ben peggiori, lo incalzano. Infatti, come una baccante, invasata dall’ogìgio Lièo, corre giù dalla vetta del Pindo, così una matrona scorrazza attraverso la città sbigottita, svelando con queste parole Febo che le opprime il petto: «Dove sono trascinata, o Peàn? In quale terra mi deponi dopo avermi rapita in cielo? Scorgo il Pangèo, bianco per le sue vette nevose, e la piana di Filippi sotto le rocce dell’Emo. Dimmi che furore è questo, o Febo, in preda al quale si scontrano le schiere romane, provocando così una guerra senza nemici. In qual luogo lontano sono trasportata? Mi conduci ai limiti orientali, là dove il mare si muta nelle onde del Nilo di Lago: riconosco quel tronco informe, che giace sulla sabbia del fiume. Sono trascinata sopra il mare verso le infide Sirti e l’arida Libia, dove la triste Enìo ha trasferito le truppe, che prima avevano combattuto in Tessaglia. Ora mi trasporti sulle cime nuvolose delle Alpi e sugli alti Pirenei. Ritorno poi nell’Urbe: nel mezzo del Senato si svolgono empie guerre. Risorgono nuovamente i partiti ed io ripercorro ancora una volta il mondo. Concedimi di contemplare nuovi lidi e una nuova terra: io ho già visto Filippi, o Febo». Dopo aver detto ciò, giacque esausta, abbandonata dall’invasamento profetico del dio.