Ab Urbe Condita, I, 3 – “Ascanio e la fondazione di Alba Longa”

Nondum maturus imperio Ascanius Aeneae filius erat; tamen id imperium ei ad puberem aetatem incolume mansit; tantisper tutela muliebri – tanta indoles in Lavinia erat – res Latina et regnum avitum paternumque puero stetit. Haud ambigam – quis enim rem tam veterem pro certo adfirmet? – hicine fuerit Ascanius an maior quam hic, Creusa matre Ilio incolumi natus comesque inde paternae fugae, quem Iulum eundem Iulia gens auctorem nominis sui nuncupat. Is Ascanius, ubicumque et quacumque matre genitus – certe natum Aenea constat – abundante Lavinii multitudine florentem iam ut tum res erant atque opulentam urbem matri seu novercae relinquit, novam ipse aliam sub Albano monte condidit quae ab situ porrectae in dorso urbis Longa Alba appellata.

Ascanio, il figlio di Enea, non era ancora maturo per comandare; tuttavia il potere rimase intatto finché egli non ebbe raggiunto la pubertà. Nell’intervallo di tempo, lo Stato latino e il regno che il ragazzo aveva ereditato dal padre e dagli avi gli vennero conservati sotto la tutela della madre (tali erano in Lavinia le qualità caratteriali). Non mi metterò a discutere – e chi infatti potrebbe dare come certa una cosa così antica? – se sia stato proprio questo Ascanio o uno più vecchio di lui, nato dalla madre Creusa quando Ilio era ancora in piedi e compagno del padre nella fuga, quello stesso Julo dal quale la famiglia Giulia sostiene derivi il proprio nome. Questo Ascanio, quali che fossero la madre e la patria d’origine, in ogni caso era figlio di Enea. Dal momento che la popolazione di Lavinio era in eccesso, lasciò alla madre, o alla matrigna, la città ricca e fiorente, e per conto suo ne fondò sotto il monte Albano una nuova che, dalla sua posizione allungata nel senso della dorsale montana, fu chiamata Alba Longa.

La prima guerra punica: i consoli “ammiragli” e l’impresa di Atilio Regolo

Marcus Atilius Regulus consul primus Romanorum ducum classem in Africam traiecit. Postquam ea quassata est, naves, oppida et multa milia hostium cepit. Dumabsens est, Romae coniugi eius et liberis ob paupertatem sumptus publice datus est. Mox, arte Xanthippi Lacedaemonii ducis captus, in carcerem missus est. Deinde Romam legatus de permutatione captivorum missus, in senatu condicionem dissuasit et, postquam coniugis et liberorum amplexum reiecit, in Africam revenit, ubi in arcam ligneam coniectus, in qua clavi praeacuti adigebantur, vigiliis ac dolore punitus est.

Il console Marco Atilio Regolo lanciò per primo fra i condottieri romani la flotta in Africa. Dopo che questa fu distrutta, prese le navi, le città e molte migliaia di nemici. Mentre era assente, un sussidio a spese dello stato fu dato a sua moglie e ai figli. Poi, catturato grazie alla strategia del condottiero spartano Santippo, fu mandato in carcere. Poi inviato a Roma come legato per lo scambio dei prigionieri, non sostenne la condizione nel senato e, dopo che rifiutò l’abbraccio della moglie e dei figli, ritornò in Africa, gettato in una botte di legno, nella quale erano conficcati dei chiodi appuntiti, fu punito con solerzia e dolore.

Guerra e pace tra Romani e Sabini

Novum bellum a Sabinis in Romanos geritur, neque prius indicitur quam committitur. Dolus enim consilio additur: Sp. Tarpeio, duci Romanae arcis, filia erat virgo, nomine Tarpeia. Tatius Sabinus rex Tarpeiam auro corrumpit et armatis arcem capit. Tarpeia a Sabini mercedem petit armillas aureas gemmatosque anulos, quos in laevo brachio habebant, sed Sabini virginem scutis, quae laevo brachio gerunt, obruunt atque interficiunt. Sabini arcem tenent, Romani iniquo loco pugnare coguntur. Tunc Romulus rex cum globo animosorum iuvenum Mettium Curtium, Sabinorum principem, petit ac fundit. Sabini autem in media convalle duorum montium redintegrant proelium: acriter cruenteque pugnatur. Tum Sabinae mulieres, quod bellum propter iniuriam ludorum gerebatur, inter gladios ac tela se interponunt ac supplices orant uno tempore patres et viros: “Si adfinitatem inter vos recusatis, si conubium reicitis, in nos vertite iras; nos a causa belli, nos causa vulnerum ac caedium viris ac parentibus sumus; e vita excedemus potius quiam sine alteris vestrum viduae aut orbae vivemus”. Et multitudo militum et duces commoventur; duces tandem non solum bellum componunt, sed etiam regnum consociant et civitatem unam ex duabus faciunt.

Dai Sabini viene mossa una nuova guerra contro i Romani e, prima di essere attaccata, non viene dichiarata. Infatti alla decisione si aggiunge un inganno: Spurio Tarpeo, capo della roccaforte romana, aveva una figlia vestale, di nome Tarpea. Il re sabino Tazio corrompe col denaro Tarpea e con milizie armate conquista la roccaforte. Tarpea chiede ai Sabini come ricompensa i braccialetti d’oro e gli anelli ricoperti di gemme, che portavano sul braccio sinistro, ma i Sabini soffocano la ragazza con gli scudi, che avevano con sé nel braccio sinistro, e l’ammazzano. I sabini occupano la rocca, i Romani sono costretti a combattere in una posizione sfavorevole. Allora re Romolo con un manipolo di giovani coraggiosi si dirige da Mezio Curzio, capo dei Sabini, e lo sconfigge. Ma i Sabini in mezzo ad una valle comune tra due montagne riprendono il combattimento: si combatte duramente e sanguinosamente. Allora le donne sabine, poiché la guerra era mossa a causa dell’offesa dei “ludi”, si intromisero tra le spade e i dardi e come supplici pregano contemporaneamente padri e mariti: “Se rifiutate una parentela tra di voi, se respingete un’unione, abbattete contro di noi le ire; noi siamo motivo di guerra, motivo di ferite e di uccisioni per i mariti e parenti; moriremo piuttosto che vivere da vedove o orfane senza uno di voi”. Sia la moltitudine dei soldati sia i comandanti si commuovono; infine i comandanti non soltanto pongono fine alla guerra, ma mettono in comune il regno, e da due popoli ne creano uno solo.

“La fine del regno di Tarquinio il Superbo”

Lucius Tarquinius Superbus septimus atque ultimus regum Volscos vicit Gabios civitatem et Suessam Pometiam subegit cum Tuscis pacem fecit et templum Iovis in Capitolio aedificavit. Postea dum Ardeam oppugnat imperium perdidit. Nam cum filius et ipse nomine Tarquinius nobilem et pudicam feminam Lucretiam Collatini uxorem violavisset Lucretia iniuriam marito et patri et amicis aperuit et in omnium conspectu se occidit. Itaque Brutus parens Tarquinii populum concitavit et Taquinio ademit imperium. Mox quoniam facinoris nuntius vulgatus erat exercitus quoque Tarquinium qui civitatem Ardeam cum rege oppugnabat reliquit. Cum rex ad urbem venit quia portae clausae erant exclusus est cumque imperavisset annos quattuor et viginti cum uxore et liberis suis fugit.

Lucio Tarquinio il Superbo, settimo e ultimo dei re, sconfisse i Volsci, sottomise la città di Gabii e Pomezia, quando fece la pace con gli Etruschi e fece costruire il tempio in Campidoglio. In seguito, mentre attaccava Ardea, perse il potere. Infatti, poiché il figlio, anch’egli di nome Tarquinio, aveva violentato la moglie di Collatino, Lucrezia, donna illustre e casta, Lucrezia svelò l’oltraggio al marito, al padre e agli amici e sotto gli occhi di tutti si uccise. E così, Bruto, padre di Tarquinio, infiammò il popolo e sottrasse il potere a Tiberio. Poi, poiché era stata diffusa la notizia del misfatto, anche l’esercito abbandonò Tarquinio, il quale attaccava la città di Ardea insieme al re. Quando il re giunse nella città e poiché le porte erano chiuse, non fu lasciato entrare e, dopo aver comandato per 24 anni, andò in esilio con la moglie e i suoi figli.

“Le oche del Campidoglio”

Galli Romanos in proelio vincunt, deinde Romam properant atque cives profligant et fugant. Inde Capitolium, urbis arcem, obsidione claudunt. A paucis Romanorum civibus eximia virtute Capitolium tenetur. Per noctis silentia Galli montis ascensionem temptant et in Capitolii rupem scalis adventant. Omnes homines dormiunt sed non omnia animalia: nam vigiles anseres, deae Iunoni sacri, alto clangore et alarum iactione Marcum Manlium, Capitolii custodem, e somno excitant. Romanus vir hostes amovet et de rupe praecipitat. Ita a Iunonis avibus urbs servatur. Postea anserem argenteum Romani in Capitolio collocant et ab omnibus civibus Manlio honor tribuitur.

I Galli vincono in battaglia i Romani, poi si dirigono in fretta a Roma e sbaragliano e mettono in fuga i cittadini. Quindi cingono d’assedio il Campidoglio, rocca della città. Il Campidoglio è difeso da pochi cittadini Romani con straordinario valore. I Galli tentano la scalata durante i silenzi della notte e si avvicinano alla rupe del Campidoglio con le scale. Tutti gli uomini dormono ma non tutti gli animali: infatti le vigili oche, sacre alla dea Giunone, con un forte schiamazzo e l’agitazione delle ali svegliano Marco Manlio, custode del Campidoglio. L’uomo romano respinge i nemici e li getta giù dalla rupe. Così la città è salvata dagli uccelli di Giunone. In seguito i Romani pongono un’oca d’argento sul Campidoglio e da tutti i cittadini è tributato onore a Manlio.

Saturae, Liber Primus, III

Quamvis digressu veteris confusus amici
laudo tamen, vacuis quod sedem figere Cumis
destinet atque unum civem donare Sibyllae.
ianua Baiarum est et gratum litus amoeni
5 secessus. ego vel Prochytam praepono Suburae;
nam quid tam miserum, tam solum vidimus, ut non
deterius credas horrere incendia, lapsus
tectorum adsiduos ac mille pericula saevae
urbis et Augusto recitantes mense poetas?
10 sed dum tota domus raeda componitur una,
substitit ad veteres arcus madidamque Capenam.
hic, ubi nocturnae Numa constituebat amicae
(nunc sacri fontis nemus et delubra locantur
Iudaeis, quorum cophinus fenumque supellex;
15 omnis enim populo mercedem pendere iussa est
arbor et eiectis mendicat silva Camenis),
in vallem Egeriae descendimus et speluncas
dissimiles veris. quanto praesentius esset
numen aquis, viridi si margine cluderet undas
20 herba nec ingenuum violarent marmora tofum.
Hic tunc Umbricius “quando artibus” inquit “honestis
nullus in urbe locus, nulla emolumenta laborum,
res hodie minor est here quam fuit atque eadem cras
deteret exiguis aliquid, proponimus illuc
25 ire, fatigatas ubi Daedalus exuit alas,
dum nova canities, dum prima et recta senectus,
dum superest Lachesi quod torqueat et pedibus me
porto meis nullo dextram subeunte bacillo.
cedamus patria. vivant Artorius istic
30 et Catulus, maneant qui nigrum in candida vertunt,
quis facile est aedem conducere, flumina, portus,
siccandam eluviem, portandum ad busta cadaver,
et praebere caput domina venale sub hasta.
quondam hi cornicines et municipalis harenae
35 perpetui comites notaeque per oppida buccae
munera nunc edunt et, verso pollice vulgus
cum iubet, occidunt populariter; inde reversi
conducunt foricas, et cur non omnia? cum sint
quales ex humili magna ad fastigia rerum
40 extollit quotiens voluit Fortuna iocari.
quid Romae faciam? mentiri nescio; librum,
si malus est, nequeo laudare et poscere; motus
astrorum ignoro; funus promittere patris
nec volo nec possum; ranarum viscera numquam
45 inspexi; ferre ad nuptam quae mittit adulter,
quae mandat, norunt alii; me nemo ministro
fur erit, atque ideo nulli comes exeo tamquam
mancus et extinctae corpus non utile dextrae.
quis nunc diligitur nisi conscius et cui fervens
50 aestuat occultis animus semperque tacendis?
nil tibi se debere putat, nil conferet umquam,
participem qui te secreti fecit honesti.
carus erit Verri qui Verrem tempore quo vult
accusare potest. tanti tibi non sit opaci
55 omnis harena Tagi quodque in mare volvitur aurum,
ut somno careas ponendaque praemia sumas
tristis et a magno semper timearis amico.
Quae nunc divitibus gens acceptissima nostris
et quos praecipue fugiam, properabo fateri,
60 nec pudor obstabit. non possum ferre, Quirites,
Graecam urbem. quamvis quota portio faecis Achaei?
iam pridem Syrus in Tiberim defluxit Orontes
et linguam et mores et cum tibicine chordas
obliquas nec non gentilia tympana secum
65 vexit et ad circum iussas prostare puellas.
ite, quibus grata est picta lupa barbara mitra.
rusticus ille tuus sumit trechedipna, Quirine,
et ceromatico fert niceteria collo.
hic alta Sicyone, ast hic Amydone relicta,
70 hic Andro, ille Samo, hic Trallibus aut Alabandis,
Esquilias dictumque petunt a vimine collem,
viscera magnarum domuum dominique futuri.
ingenium velox, audacia perdita, sermo
promptus et Isaeo torrentior. ede quid illum
75 esse putes. quemvis hominem secum attulit ad nos:
grammaticus, rhetor, geometres, pictor, aliptes,
augur, schoenobates, medicus, magus, omnia novit
Graeculus esuriens: in caelum iusseris ibit.
in summa non Maurus erat neque Sarmata nec Thrax
80 qui sumpsit pinnas, mediis sed natus Athenis.
horum ego non fugiam conchylia? me prior ille
signabit fultusque toro meliore recumbet,
advectus Romam quo pruna et cottana vento?
usque adeo nihil est quod nostra infantia caelum
85 hausit Aventini baca nutrita Sabina?
quid quod adulandi gens prudentissima laudat
sermonem indocti, faciem deformis amici,
et longum invalidi collum cervicibus aequat
Herculis Antaeum procul a tellure tenentis,
90 miratur vocem angustam, qua deterius nec
ille sonat quo mordetur gallina marito?
haec eadem licet et nobis laudare, sed illis
creditur. an melior cum Thaida sustinet aut cum
uxorem comoedus agit vel Dorida nullo
95 cultam palliolo? mulier nempe ipsa videtur,
non persona, loqui: vacua et plana omnia dicas
infra ventriculum et tenui distantia rima.
nec tamen Antiochus nec erit mirabilis illic
aut Stratocles aut cum molli Demetrius Haemo:
100 natio comoeda est. rides, maiore cachinno
concutitur; flet, si lacrimas conspexit amici,
nec dolet; igniculum brumae si tempore poscas,
accipit endromidem; si dixeris “aestuo,” sudat.
non sumus ergo pares: melior, qui semper et omni
105 nocte dieque potest aliena sumere vultum
a facie, iactare manus laudare paratus,
si bene ructavit, si rectum minxit amicus,
si trulla inverso crepitum dedit aurea fundo.
praeterea sanctum nihil “aut” ab inguine tutum,
110 non matrona laris, non filia virgo, nec ipse
sponsus levis adhuc, non filius ante pudicus.
horum si nihil est, aviam resupinat amici.
[scire volunt secreta domus atque inde timeri.]
et quoniam coepit Graecorum mentio, transi
115 gymnasia atque audi facinus maioris abollae.
Stoicus occidit Baream delator amicum
discipulumque senex ripa nutritus in illa
ad quam Gorgonei delapsa est pinna caballi.
non est Romano cuiquam locus hic, ubi regnat
120 Protogenes aliquis vel Diphilus aut Hermarchus,
qui gentis vitio numquam partitur amicum,
solus habet. nam cum facilem stillavit in aurem
exiguum de naturae patriaeque veneno,
limine summoveor, perierunt tempora longi
125 servitii; nusquam minor est iactura clientis.
Quod porro officium, ne nobis blandiar, aut quod
pauperis hic meritum, si curet nocte togatus
currere, cum praetor lictorem inpellat et ire
praecipitem iubeat dudum vigilantibus orbis,
130 ne prior Albinam et Modiam collega salutet?
divitis hic servo cludit latus ingenuorum
filius; alter enim quantum in legione tribuni
accipiunt donat Calvinae vel Catienae,
ut semel aut iterum super illam palpitet; at tu,
135 cum tibi vestiti facies scorti placet, haeres
et dubitas alta Chionen deducere sella.
da testem Romae tam sanctum quam fuit hospes
numinis Idaei, procedat vel Numa vel qui
servavit trepidam flagranti ex aede Minervam:
140 protinus ad censum, de moribus ultima fiet
quaestio. “quot pascit servos? quot possidet agri
iugera? quam multa magnaque paropside cenat?”
quantum quisque sua nummorum servat in arca,
tantum habet et fidei. iures licet et Samothracum
145 et nostrorum aras, contemnere fulmina pauper
creditur atque deos dis ignoscentibus ipsis.
quid quod materiam praebet causasque iocorum
omnibus hic idem, si foeda et scissa lacerna,
si toga sordidula est et rupta calceus alter
150 pelle patet, vel si consuto volnere crassum
atque recens linum ostendit non una cicatrix?
nil habet infelix paupertas durius in se
quam quod ridiculos homines facit. “exeat” inquit,
“si pudor est, et de pulvino surgat equestri,
155 cuius res legi non sufficit, et sedeant hic
lenonum pueri quocumque ex fornice nati,
hic plaudat nitidus praeconis filius inter
pinnirapi cultos iuvenes iuvenesque lanistae.”
sic libitum vano, qui nos distinxit, Othoni.
160 quis gener hic placuit censu minor atque puellae
sarcinulis inpar? quis pauper scribitur heres?
quando in consilio est aedilibus? agmine facto
debuerant olim tenues migrasse Quirites.
haut facile emergunt quorum virtutibus obstat
165 res angusta domi, sed Romae durior illis
conatus: magno hospitium miserabile, magno
servorum ventres, et frugi cenula magno.
fictilibus cenare pudet, quod turpe negabis
translatus subito ad Marsos mensamque Sabellam
170 contentusque illic Veneto duroque cucullo.
pars magna Italiae est, si verum admittimus, in qua
nemo togam sumit nisi mortuus. ipsa dierum
festorum herboso colitur si quando theatro
maiestas tandemque redit ad pulpita notum
175 exodium, cum personae pallentis hiatum
in gremio matris formidat rusticus infans,
aequales habitus illic similesque videbis
orchestram et populum; clari velamen honoris
sufficiunt tunicae summis aedilibus albae.
180 hic ultra vires habitus nitor, hic aliquid plus
quam satis est interdum aliena sumitur arca.
commune id vitium est: hic vivimus ambitiosa
paupertate omnes. quid te moror? omnia Romae
cum pretio. quid das, ut Cossum aliquando salutes,
185 ut te respiciat clauso Veiiento labello?
ille metit barbam, crinem hic deponit amati;
plena domus libis venalibus: accipe et istud
fermentum tibi habe. praestare tributa clientes
cogimur et cultis augere peculia servis.
190 Quis timet aut timuit gelida Praeneste ruinam
aut positis nemorosa inter iuga Volsiniis aut
simplicibus Gabiis aut proni Tiburis arce?
nos urbem colimus tenui tibicine fultam
magna parte sui; nam sic labentibus obstat
195 vilicus et, veteris rimae cum texit hiatum,
securos pendente iubet dormire ruina.
vivendum est illic, ubi nulla incendia, nulli
nocte metus. iam poscit aquam, iam frivola transfert
Ucalegon, tabulata tibi iam tertia fumant:
200 tu nescis; nam si gradibus trepidatur ab imis,
ultimus ardebit quem tegula sola tuetur
a pluvia, molles ubi reddunt ova columbae.
lectus erat Cordo Procula minor, urceoli sex
ornamentum abaci, nec non et parvulus infra
205 cantharus et recubans sub eodem marmore Chiron,
iamque vetus Graecos servabat cista libellos
et divina opici rodebant carmina mures.
nil habuit Cordus, quis enim negat? et tamen illud
perdidit infelix totum nihil. ultimus autem
210 aerumnae cumulus, quod nudum et frusta rogantem
nemo cibo, nemo hospitio tectoque iuvabit.
si magna Asturici cecidit domus, horrida mater,
pullati proceres, differt vadimonia praetor.
tum gemimus casus urbis, tunc odimus ignem.
215 ardet adhuc, et iam accurrit qui marmora donet,
conferat inpensas; hic nuda et candida signa,
hic aliquid praeclarum Euphranoris et Polycliti,
haec Asianorum vetera ornamenta deorum,
hic libros dabit et forulos mediamque Minervam,
220 hic modium argenti. meliora ac plura reponit
Persicus orborum lautissimus et merito iam
suspectus tamquam ipse suas incenderit aedes.
si potes avelli circensibus, optima Sorae
aut Fabrateriae domus aut Frusinone paratur
225 quanti nunc tenebras unum conducis in annum.
hortulus hic puteusque brevis nec reste movendus
in tenuis plantas facili diffunditur haustu.
vive bidentis amans et culti vilicus horti
unde epulum possis centum dare Pythagoreis.
230 est aliquid, quocumque loco, quocumque recessu,
unius sese dominum fecisse lacertae.
Plurimus hic aeger moritur vigilando (sed ipsum
languorem peperit cibus inperfectus et haerens
ardenti stomacho); nam quae meritoria somnum
235 admittunt? magnis opibus dormitur in urbe.
inde caput morbi. raedarum transitus arto
vicorum in flexu et stantis convicia mandrae
eripient somnum Druso vitulisque marinis.
si vocat officium, turba cedente vehetur
240 dives et ingenti curret super ora Liburna
atque obiter leget aut scribet vel dormiet intus;
namque facit somnum clausa lectica fenestra.
ante tamen veniet: nobis properantibus obstat
unda prior, magno populus premit agmine lumbos
245 qui sequitur; ferit hic cubito, ferit assere duro
alter, at hic tignum capiti incutit, ille metretam.
pinguia crura luto, planta mox undique magna
calcor, et in digito clavus mihi militis haeret.
nonne vides quanto celebretur sportula fumo?
250 centum convivae, sequitur sua quemque culina.
Corbulo vix ferret tot vasa ingentia, tot res
inpositas capiti, quas recto vertice portat
servulus infelix et cursu ventilat ignem.
scinduntur tunicae sartae modo, longa coruscat
255 serraco veniente abies, atque altera pinum
plaustra vehunt; nutant alte populoque minantur.
nam si procubuit qui saxa Ligustica portat
axis et eversum fudit super agmina montem,
quid superest de corporibus? quis membra, quis ossa
260 invenit? obtritum volgi perit omne cadaver
more animae. domus interea secura patellas
iam lavat et bucca foculum excitat et sonat unctis
striglibus et pleno componit lintea guto.
haec inter pueros varie properantur, at ille
265 iam sedet in ripa taetrumque novicius horret
porthmea nec sperat caenosi gurgitis alnum
infelix nec habet quem porrigat ore trientem.
Respice nunc alia ac diversa pericula noctis:
quod spatium tectis sublimibus unde cerebrum
270 testa ferit, quotiens rimosa et curta fenestris
vasa cadant, quanto percussum pondere signent
et laedant silicem. possis ignavus haberi
et subiti casus inprovidus, ad cenam si
intestatus eas: adeo tot fata, quot illa
275 nocte patent vigiles te praetereunte fenestrae.
ergo optes votumque feras miserabile tecum,
ut sint contentae patulas defundere pelves.
ebrius ac petulans, qui nullum forte cecidit,
dat poenas, noctem patitur lugentis amicum
280 Pelidae, cubat in faciem, mox deinde supinus:
[ergo non aliter poterit dormire; quibusdam]
somnum rixa facit. sed quamvis inprobus annis
atque mero fervens cavet hunc quem coccina laena
vitari iubet et comitum longissimus ordo,
285 multum praeterea flammarum et aenea lampas.
me, quem luna solet deducere vel breve lumen
candelae, cuius dispenso et tempero filum,
contemnit. miserae cognosce prohoemia rixae,
si rixa est, ubi tu pulsas, ego vapulo tantum.
290 stat contra starique iubet. parere necesse est;
nam quid agas, cum te furiosus cogat et idem
fortior? “unde venis” exclamat, “cuius aceto,
cuius conche tumes? quis tecum sectile porrum
sutor et elixi vervecis labra comedit?
295 nil mihi respondes? aut dic aut accipe calcem.
ede ubi consistas: in qua te quaero proseucha?”
dicere si temptes aliquid tacitusve recedas,
tantumdem est: feriunt pariter, vadimonia deinde
irati faciunt. libertas pauperis haec est:
300 pulsatus rogat et pugnis concisus adorat
ut liceat paucis cum dentibus inde reverti.
nec tamen haec tantum metuas; nam qui spoliet te
non derit clausis domibus postquam omnis ubique
fixa catenatae siluit compago tabernae.
305 interdum et ferro subitus grassator agit rem:
armato quotiens tutae custode tenentur
et Pomptina palus et Gallinaria pinus,
sic inde huc omnes tamquam ad vivaria currunt.
qua fornace graves, qua non incude catenae?
310 maximus in vinclis ferri modus, ut timeas ne
vomer deficiat, ne marra et sarcula desint.
felices proavorum atavos, felicia dicas
saecula quae quondam sub regibus atque tribunis
viderunt uno contentam carcere Romam.
315 His alias poteram et pluris subnectere causas,
sed iumenta vocant et sol inclinat. eundum est;
nam mihi commota iamdudum mulio virga
adnuit. ergo vale nostri memor, et quotiens te
Roma tuo refici properantem reddet Aquino,
320 me quoque ad Helvinam Cererem vestramque Dianam
converte a Cumis. saturarum ego, ni pudet illas,
auditor gelidos veniam caligatus in agros.”

Anche se la partenza di un vecchio amico mi
angoscia, devo approvare la sua decisione di stabilirsi
come un eremita a Cuma e di donare almeno un
cittadino alla Sibilla. Cuma, porta di Baia, è un
approdo piacevole, un rifugio delizioso. Io poi alla
Suburra preferirei persino Procida. Si è mai visto
luogo, per quanto misero, desolato, che non sia
preferibile al terrore continuo degli incendi, dei crolli,
ai mille pericoli di questa città tremenda, dove
nemmeno in pieno agosto sfuggi al vociare dei poeti?
Mentre si carica la casa tutta su un solo carro, l’amico
sosta sotto gli archi antichi dell’umida porta Capena.
Qui, dove di notte Numa dava convegno alla sua
amica, ora tempio e bosco della sacra fonte s’affittano
ai giudei, i cui unici beni sono un cesto e un po’ di
fieno (per legge infatti ogni albero paga all’erario una
tassa: cosí, cacciate le Camene, il bosco deve stendere
la mano). Ci inoltriamo nella valle di Egeria tra grotte
artificiali: viva sentiresti la presenza del dio in queste
acque, se l’erba con la sua verde cornice ne cingesse le
onde e non profanassero i marmi il tufo di quei luoghi.
E qui Umbricio dice: A Roma non c’è piú posto per un
lavoro onesto, non c’è compenso alle fatiche; meno di
ieri è ciò che oggi possiedi e a nulla si ridurrà domani;
per questo ho deciso di andarmene là dove Dedalo
depose le sue ali stanche, finché un accenno è la
canizie, aitante la prima vecchiaia e a Lachesi resta
ancora filo da torcere: mi reggo bene sulle gambe e
senza appoggiarmi a un bastone: giusto il tempo per
lasciare la patria. Artorio e Càtulo ci vivano, ci
rimanga chi muta il nero in bianco, chi si diverte ad
appaltare case, fiumi e porti, cloache da pulire,
cadaveri da cremare e vite da offrire all’incanto per
diritto d’asta. Un tempo suonavano il corno, comparse
fisse delle arene di provincia, ciarlatani famosi di città
in città; ora offrono giochi e quando la plebaglia
abbassa il pollice decretano la morte per ottenerne il
favore; poi, di ritorno, appaltano latrine. E perché mai
non altro? Sono loro quelli che la fortuna, quando è in
vena di scherzi, dal fango solleva ai massimi gradi.
Ma io a Roma che posso fare? Non so mentire. Se un
libro è mediocre non ho la faccia di lodarlo o di
citarlo; non so nulla di astrologia; non voglio e mi
ripugna pronosticare la morte di un padre; non ho mai
studiato le viscere di rana; passare ad una sposa
bigliettini e profferte dell’amante lo sanno fare altri, e
di un ladro mai sarò complice: per questo nessuno mi
vuole quando esco, come se fossi un monco, un essere
inutile privo della destra. Chi si apprezza oggi, se non
un complice, il cui animo in fiamme brucia di segreti,
che mai potrà svelare? Niente crede di doverti e mai ti
compenserà chi ti fa parte di un segreto onesto; ma a
Verre sarà caro chi sia in grado di accusarlo quando e
come vuole. Tutto l’oro che la sabbia del Tago
ombroso trascina in mare non vale il sonno perduto, i
regali che prendi e con stizza devi lasciare, la
diffidenza continua di un amico potente. La gente che
piú cerco di evitare, quella amatissima dai nostri
ricchi, faccio presto a descriverla e senza riserve. Una
Roma ingrecata non posso soffrirla, Quiriti; ma
quanto vi sia di acheo in questa feccia bisogna
chiederselo. Ormai da tempo l’Oronte di Siria sfocia
nel Tevere e con sé rovescia idiomi, costumi, flautisti,
arpe oblique, tamburelli esotici e le sue ragazze
costrette a battere nel circo. Sotto voi! se vi piace una
puttana forestiera con la mitra tutta a colori! O
Quirino, quel tuo contadino indossa scarpine e porta
medagliette al collo impomatato! Lasciano alle spalle
Sicione, Samo, Amídone, Andro, Tralli o Alabanda,
tutti all’assalto dell’Esquilino o del colle che dal
vimine prende nome, per farsi anima delle grandi
casate e in futuro padroni. Intelligenza fulminea,
audacia sfrontata, parola pronta e piú torrenziale di
Iseo, eccoli: chi credi che siano? Dentro di sé ognuno
porta un uomo multiforme: grammatico, retore, pittore
e geometra, massaggiatore, augure, funambolo,
medico e mago, tutto sa fare un greco che ha fame:
volerebbe in cielo, se glielo comandassi. In fin dei
conti non era mauro, sàrmato o trace quello che
s’applicò le penne, ma ateniese d’Atene. Ed io? non
dovrei evitare la porpora di questa gente? che prima di
me firmi un documento o sul letto migliore alle cene
si stenda chi a Roma è giunto con lo stesso vento che
porta prugne e fichi secchi? Non conta proprio niente,
nutriti d’olive sabine, aver respirato sin dall’infanzia
l’aria dell’Aventino? Adulatori senza pari, questo sono,
gente pronta a lodare le chiacchiere di un inetto, le
fattezze di un amico deforme, a confrontare il collo
oblungo di un invalido con quello di Ercole mentre da
terra solleva Anteo, ad ammirare con voce strozzata
che piú stridula non è nemmeno quella del gallo
quando copre la sua gallina. Adulazioni simili anche a
noi sarebbero permesse, ma a quelli per lo piú si
crede. Quale attore infatti meglio di un greco
interpreta Taide, la moglie o Dòride senza un velo di
trucco? Non è un commediante che recita, è una
donna! E giureresti che dal ventre in giú sia tutto una
pianura sgombra con alla fine un’esile fessura.
Antíoco, Stràtocle e Demetrio, con quell’effeminato di
Emo, non sono eccezioni di meraviglia: è tutto un
paese di commedianti. Ridi e lui scoppia a ridere piú
forte; vede un amico in lacrime e lui piange senza
provar dolore; ai primi freddi invochi un po’ di fuoco e
lui indossa una pelliccia; dici che hai caldo ed eccolo
che suda. Troppo diversi siamo, è chiaro: chi notte e
giorno senza posa è in grado di assumere l’espressione
dei visi altrui, pronto ad applaudire e lodare se l’amico
ha ruttato bene, pisciato senza inciampi o se il pitale
d’oro ha rimbombato finendo capovolto, ha tutto dalla
sua. Aggiungi in piú che niente è sacro o al sicuro dal
loro cazzo, non la madre di famiglia o la figlia
vergine, non il moroso imberbe o il figlio intatto; e se
non c’è di meglio ti stuprano la nonna. [Per farsi
temere non c’è segreto che gli sfugga della tua casa.]
Ma lascia perdere le chiacchiere che si fanno ai
ginnasi, visto che parliamo di greci, e ascolta la
scelleratezza di un maggiorente paludato: quel
vecchio stoico intendo, cresciuto sulla riva dove
caddero le penne del cavallo di Gòrgone, che
denunciandolo fece uccidere Bàrea, discepolo e
amico. Dove regna un Protògene, un Ermarco o un
Dífilo, che per vizio innato non vogliono amici in
comune, ma solo a sé legati, non c’è posto per un
romano. Basta una goccia di veleno, sí, quello di
patria natura, istillato da un greco in orecchie
meschine, e subito vengo messo alla porta, perdendo
anni e anni di servizio: in nessun luogo importa meno
disfarsi di un protetto. Non illudiamoci che
l’affannarsi in corse notturne di un poveraccio avvolto
nella toga abbia rispetto e merito, se un pretore può
scaraventare di brutto il littore a salutare il risveglio di
Albina e Modia, prima che il collega lo preceda dalle
due vedovelle. Puoi vedere il figlio di gente libera
scortare lo schiavo di un ricco; e un altro regalare a
Calvina o a Catiena quanto incassa un tribuno di
legione, per godere di loro una o due volte; ma tu, se ti
arrapa il faccino di una puttana in ghingheri, ti blocchi
ed esiti a far scendere Chione dal trono. Produci a
Roma un testimone degno di chi ospitò la dea dell’Ida,
si mostri Numa o chi dal tempio in fiamme salvò
l’atterrita Minerva: prima s’indagherà sul censo, per
ultimo sulla moralità. ‘Quanti schiavi mantiene?
quanta terra possiede? con che numero e ricchezza di
piatti cena?’ Ognuno gode di fiducia pari al denaro che
serra in cassaforte. Su tutti gli dei puoi giurare, di
Samotracia o nostri, l’idea è che un povero, snobbato
dagli stessi dei, non tenga conto delle folgori divine. E
le opportunità di riso universale che lui offre, le
sottovaluti? Un mantello informe e sdrucito, una toga
sordida come poche, una scarpa col cuoio rotto che si
slabbra o i margini di tutti quegli strappi ricuciti che
mostrano lo spago or ora usato! Niente di piú atroce
ha la sventura della povertà che rendere l’uomo
oggetto di riso. ‘Vergogna, fuori! via dai cuscini dei
cavalieri chi non ha il censo imposto dalla legge! il
posto è riservato ai figli dei ruffiani, in qualunque
casino siano nati! Qui, tra i rampolli azzimati di un
gladiatore o di un maestro d’armi, può battere le mani
solo il figlio di un banditore ben nutrito!’ Cosí piacque
a quell’inetto di Otone che volle segregarci. Accade
mai che sia ben visto un genero con meno averi e dote
della sposa, qui, fra questi? che un povero sia
nominato erede? o accettato in consiglio dagli edili?
Da tempo avrebbero dovuto i Quiriti in miseria a
schiere serrate migrare. Non è facile che emerga chi
alle proprie virtú vede opporsi la penuria del
patrimonio; a Roma poi lo sforzo è disumano: una
casa da miserabili costa un’enormità e cosí mantenere
servi o mangiare un boccone. Farlo poi con stoviglie
di terraglia ci sembra una vergogna, ma non lo
troveresti indegno scaraventato in mezzo ai Marsi o
alla tavola dei Sabini, dove un saio ruvido e scolorito
ti farebbe felice. Del resto, diciamo la verità, in gran
parte d’Italia la toga s’indossa solo da morti. Persino
quando le solennità festive vengono celebrate in un
teatro d’erba e sulla scena torna una farsa ben nota,
mentre tremano i marmocchi in grembo alle madri per
il ghigno livido delle maschere, vestiti tutti a un modo
puoi vederli, dai posti d’onore a quelli del popolo; e
agli edili, come segno dell’alta carica, basta una tunica
bianca per primeggiare. Fra noi invece l’eleganza
dell’abito è tutto e il superfluo si attinge a volte in
borse altrui. Male comune questo: viviamo tutti da
straccioni pieni d’arie. Ma perché farla lunga? a Roma
tutto ha un prezzo. Per salutare Cosso qualche volta o
perché Veiento, sia pure a labbra chiuse, ti getti uno
sguardo, tu quanto paghi? Chi si rade, chi ripone la
chioma dell’amato e la casa trabocca di focacce in
vendita: prendile e tienti stretta questa fregatura.
Come clienti, non c’è verso, siamo costretti a versare
tributi, ad aumentare i redditi di servi perbenino. Nella
gelida Preneste, fra i colli e i boschi di Bolsena, nella
tranquilla Gabi o nella rocca sui pendii di Tivoli chi
teme o ha mai temuto crolli? Ma noi viviamo a Roma,
una città che in gran parte si regge su puntelli
fatiscenti; cosí infatti l’amministratore rimedia ai
guasti e, tappata la fenditura di una vecchia crepa,
invita tutti a dormire tranquilli sotto la minaccia di un
crollo. Meglio vivere dove non scoppiano incendi e
non si temono allarmi la notte. ‘Acqua, acqua!’
supplica Ucalegonte portando in salvo i suoi stracci:
sotto di te il terzo piano è in fiamme e tu l’ignori; se
giú in basso il terrore dilaga, chi non ha che le tegole
per ripararsi dalla pioggia, lassú dove le languide
colombe depongono le uova, brucerà per ultimo, non
c’è dubbio, ma brucerà. Cordo aveva un letto troppo
piccolo anche per Pròcula, sei orcioli in mostra sul
tavolino, una piccola brocca sotto e un Chirone
sdraiato a sostenere il marmo; una cesta decrepita
custodiva qualche libretto greco, di cui, senza rispetto,
i topi rodevano i carmi sublimi. Nulla aveva Cordo,
chi può negarlo? Eppure quel disgraziato ha perduto
tutto il suo niente, e in piú per colmo di sventura a lui
che ignudo implora invano nessuno darà l’aiuto di un
po’ di pane o di un tetto per ospitarlo. Se però crolla il
palazzo di Astúrico, signore inorridite, maggiorenti in
lutto, pretori che sospendono le udienze, questo
vedrai, tutti a piangere la sorte di Roma, a maledire il
fuoco. Divampa ancora e già accorre chi dona marmi
o concorre alle spese; uno porta statue candide di
figure ignude, l’altro un capolavoro di Eufranore o di
Policleto, quella gioielli antichi di dèi asiatici, questo
libri, scaffali e un busto di Minerva, quello infine un
moggio d’argento. E Pèrsico, un riccone senza figli,
rimedia meglio e piú roba di prima, tanto da
giustificare il sospetto che lui, proprio lui abbia
incendiato la casa. Se sai strapparti dal cuore i giochi
del Circo, a Sora, Fabrateria o Frosinone, coi soldi che
spendi in un anno a Roma per la pigione di un tugurio,
puoi procurarti una casa stupenda, con un orticello e
un piccolo pozzo al quale attingere senza fatica o
bisogno di funi per innaffiare i getti delle piante. Vivi
con la tua zappa al fianco e cura con amore l’orto:
potrebbe fornirti la cena per cento pitagorici. In
qualunque luogo o angolo della terra essere tu il
padrone, anche di una sola lucertola, vale sempre
qualcosa. Per disturbi d’insonnia muore qui la maggior
parte di noi: è il cibo indigesto di Roma che ristagna
nello stomaco in fiamme a causare questo malessere;
d’altra parte, quale casa d’affitto permette di dormire?
Cifre da capogiro costa in questa città un buon sonno!
Il transito dei carri nella rete tortuosa delle strade e lo
strepito delle mandrie asserragliate, che
strapperebbero il sonno anche a Druso o ai vitelli
marini: fa capo a tutto ciò la malattia. Ma se, chiamato
da un affare, un ricco fende la folla, volando sulle
teste chiuso in una immensa liburna, può leggere,
scrivere o, se vuole, dormire, perché una lettiga con le
tende abbassate concilia il sonno. E arriverà sempre
prima di me, che cerco, come tutti noi che abbiamo
fretta, un varco tra la calca di chi mi precede; in piú la
gente che vien dietro a fiumi mi schiaccia le reni,
questo mi pianta in corpo un gomito, quello una
stanga impertinente, uno mi sbatte in testa una trave,
l’altro un barile. Gli stinchi in un mare di fango, da
ogni parte mi calpestano suole enormi e il chiodo di
un soldato mi si conficca nell’alluce. Non vedi con che
polverone si fa ressa per il sussidio? Cento i convitati
e ognuno col suo fornello. Persino un Corbulone
reggerebbe a stento sul capo tutti quei vasi enormi e
tutti gli utensili che un povero schiavetto porta a collo
teso correndo a rianimare il fuoco. E le tuniche appena
rattoppate vanno in brandelli. In bilico su un carro
avanza un lungo abete, un altro carretto trasporta un
pino, che oscillando da quell’altezza minacciano la
gente. Se poi si rovescia il rimorchio che contiene i
graniti di Liguria e sulla folla rovina quell’ammasso di
pietre, che rimane dei corpi? Chi ne ritrova piú una
traccia, ossa, membra? Ridotto tutto in polvere il
cadavere di quei poveracci si dissolve in un soffio. A
casa intanto, senza angustie, si lavano i piatti, si desta
col fiato la brace, si fanno stridere le striglie sulle
mense e, riempite le ampolle, si dispongono i coperti.
Tra i ragazzi c’è gara a sbrigare queste faccende, ma
quello ormai siede in riva allo Stige e, come novizio,
rabbrividisce di fronte al sinistro nocchiero, col
tormento di non poter contare sulla barca di quella
palude fangosa, perché in bocca non ha l’obolo per il
transito. Ma i pericoli della notte sono diversi e
numerosi, guarda: tegole che a picco dal tetto delle
case ti spaccano la testa, vasi ridotti in pezzi che il piú
delle volte rovinano dalle finestre con violenza tale da
segnare di crepe il selciato colpito. Un incosciente sei,
uno che non considera l’imprevedibilità degli eventi,
se vai fuori a cena senza aver fatto testamento: in ogni
finestra aperta, dove di notte si spiano i tuoi passi, sta
in agguato la morte. Àugurati dunque e in te coltiva la
flebile speranza che s’accontentino di rovesciarti
addosso il contenuto dei catini. Un ubriaco incattivito,
che, metti, non abbia ancora accoppato un uomo, dà in
escandescenze e passa la notte come un Achille che
pianga l’amico, giace bocconi e un attimo dopo
supino, solo a quel patto potrebbe dormire: a certa
gente menar le mani concilia il sonno. Ma per quanto
gli anni lo rendano arrogante e sia cotto dal vino, si
tiene alla larga da chi un mantello scarlatto, un séguito
senza fine di amici e in piú uno stuolo di torce e
candelabri di bronzo suggeriscono di evitare. Con me,
che mi faccio condurre dalla luna o dal lume incerto
della candela, di cui regolo ad arte lo stoppino, con me
lui se la prende. Ed eccoti l’esordio della zuffa infame,
se può chiamarsi zuffa quella dove tu picchi e solo io
le busco. Si pianta davanti e intima l’alt. Meglio
ubbidire; che mai si può fare quando piú forte è il
forsennato che l’impone? ‘Da dove vieni? ‘ urla, ‘con
l’aceto e le fave di chi ti sei rimpinzato? con quale
ciabattino hai mangiato fette di porro e testina di
montone lessato? Non mi rispondi? Parla o ti prendo a
calci! Avanti, dove ti rintani? in quale sinagoga ti si
può pescare?’ Se balbetti qualcosa o cerchi zitto zitto
di svignartela, è lo stesso: son sempre botte e magari,
dopo, questi pazzi furiosi ti citano in giudizio. Questa
è la libertà dei poveri: supplicare sotto i colpi e,
gonfio di pugni, implorare che ti lascino rincasare con
qualche dente almeno. Ma non c’è da temere solo
questo: quando, chiuse le case, in ogni luogo le
botteghe con le imposte serrate a catenaccio non
mandano rumori, può spuntare chi ti spoglia di tutto,
se poi il bandito non risolve la faccenda con una
coltellata a tradimento: tutte le volte infatti che la
palude Pontina e la pineta Gallinaria sono presidiate
da guardie armate, i briganti si riversano a Roma,
come se fosse una riserva. Su quale incudine mai, in
quale fornace non si forgiano catene massicce?
Enorme è la quantità di ferro impiegata in ceppi, tanto
da far temere che vengano a mancare vomeri, zappe e
sarchielli. Fortunati gli avi dei nostri bisnonni, puoi
dirlo, e quei tempi remoti di re e di tribuni quando
bastava a Roma un solo carcere. E potrei aggiungere a
questi altri e piú fondati argomenti, ma le bestie mi
attendono e il sole declina. Bisogna che vada; da un
po’ con la sua frusta il mulattiere fa segno che è l’ora.
Pensa a me qualche volta e quando avrai occasione
che Roma ti restituisca alla tua Aquino per rimetterti
in forze, avvertimi: da Cuma verrò alla tua Cerere
Elvina, alla tua Diana. Coi miei scarponi verrò in
quelle gelide campagne ad ascoltare le tue satire, se
non m’avranno in uggia.

Epitome de Tito Livio, I, 1 (12-13)

12 – Sed cum pari robore frequentibus proeliis utrique comminuerentur, misso in compendium bello, Horatiis Curiatiisque, trigeminis hinc atque inde fratribus, utriusque populi fata permissa sunt. Anceps et pulchra contentio exituque ipso mirabilis. Tribus quippe illinc volneratis, hinc duobus occisis, qui supererat Horatius addito ad virtutem dolo, ut distraheret hostem, simulat fugam singulosque, prout sequi poterant, adortus exsuperat.
13 – Sic rarum alias decus unius manu parta victoria est, quam ille mox parricidio foedavit. Flentem spolia circa se sponsi quidem, sed hostis, sororem viderat. Hunc tam inmaturum amorem virginis ultus est ferro. Citavere leges nefas, sed abstulit virtus parricidam et facinus infra gloriam fuit. Nec diu in fide Albanus.

12 – Ma poiché con pari forza si erano indeboliti in frequenti battaglie, fu deciso di concludere la guerra con un compromesso: fu affidato ai tre fratelli Orazi, da una parte, e ai tre fratelli Curiazi, dall’altra, il destino dei rispettivi popoli. Fu una contesa incerta e bellissima, con un esito che suscitò meraviglia. Infatti, mentre tre degli Orazi erano feriti, due dei Curiazi erano morti, e Orazio, l’unico rimasto, per raggiungere la vittoria, mise in atto un inganno, simulando la fuga e attaccando poi i nemici singolarmente, quando questi cercavano di inseguirlo.
13 – Così, la vittoria, che era stata conquistata con una sola mano, divenne una gloria effimera, quando Orazio la macchiò poco dopo con un atto di parricidio. Egli vendicò con la spada la sorella, che piangeva intorno ai trofei del suo fidanzato, ma che aveva visto il nemico. Anche se la legge condannava tale crimine, la virtù di Orazio superò tale ingiustizia e il suo crimine rimase al di sotto della sua gloria. Tuttavia, non molto tempo dopo, l’Albano si dimostrò infedele alla sua alleanza.

Liberalità dell’ateniese Cimone

Fuit Cimon, Miltiadis filius, Atheniensis tanta liberalitate, cum compluribus locis praedia hortosque haberet, ut numquam in eis custodem posuerit fructus servandi gratia, ne quis impediretur, quo minus eius rebus quibus quisque vellet frueretur. Semper eum pedisequi cum nummis sunt secuti, ut, si quis opis eius indigeret, haberet quod statim daret, ne differendo videretur negare. Saepe, cum aliquem offensum forte fortuna videret minus bene vestitum, suum amiculum dedit. Cotidie sic cena ei coquebatur, ut, quos invocatos vidisset in foro, omnes ad se vocaret, quod facere nullo die praetermittebat. Nulli fides eius, nulli opera, nulli res familiaris defuit; multos locupletavit, complures pauperes mortuos, qui unde efferrentur non reliquissent, suo sumptu extulit. Sic se gerendo minime est mirandum, si et vita eius fuit secura et mors acerba.

Cimone, figlio di Miltiade, ateniese, fu di una tale liberalità che, avendo molte proprietà e giardini in diverse località, non ha mai messo un custode per la loro conservazione, al fine di non impedire a nessuno di godere delle cose che gli appartenevano. Lo seguivano sempre alcuni servitori con denaro, in modo che se qualcuno avesse bisogno del suo aiuto, avesse subito qualcosa da dare, per evitare che sembrasse di negare aiuto ritardando. Spesso, se vedeva qualcuno sfortunato e vestito male, gli dava il suo mantello. Ogni giorno cucinava cena in modo tale che, vedendo chiunque fosse in piazza, li invitava tutti a casa sua, cosa che non mancava mai di fare. Nessuno fu mai tradito da lui, nessuno fu mai ignorato da lui, e aiutò molti a diventare ricchi e sollevò molti poveri che, quando morirono, non avevano lasciato nulla per il loro funerale, a proprie spese. Con un comportamento del genere, non è affatto sorprendente che la sua vita sia stata felice e la sua morte amara.

Il re Codro

Ultimus Athenarum rex fuit Codrus, Melanthi filius, vir memorabilis rara virtute. A Lacedaemoniis gravi bello premebantur Attici et eorum regio ferro ignique vastabatur. Quare Athenienses Apollinem Pythium interrogaverant et deus sic responderat: “Victorum dux ab hoste occidetur”. Cum responsum cognovit, Codrus deposuit vestem regiam, cultum pastoralem induit et se immiscuit hostibus in castris. Ibi rixam de industria suscitavit et, quia imprudenter agebat, hostes eum occiderunt. Tali modo Codrus sua morte Atheniensibus victoriam dedit et sibi immortalem gloriam obtinuit.

Ultimo re degli Ateniesi fu Codro, figlio di Melanto, un uomo memorabile per la sua rara virtù. Gli Ateniesi erano oppressi duramente nella guerra dai Lacedemoni e la loro regione era devastata dal ferro e dal fuoco. Perciò gli Ateniesi consultarono Apollo Pizio e il dio rispose così: “Il leader dei vincitori sarà ucciso dal nemico”. Quando Codro apprese la risposta, depose gli abiti reali, indossò l’abito di un pastore e si mescolò tra i nemici nel loro accampamento. Lì provocò una rissa di proposito e, poiché agiva in modo imprudente, i nemici lo uccisero. In questo modo, con la sua morte, Codro diede la vittoria agli Ateniesi e ottenne per sé una gloria immortale.

“Gli uomini primitivi” (2)

Priscis hominibus nec domus nec certae sedes erant: ii enim in obscuris speluncis vitam agebant ubi sibi tutum refugium parabant a fulminibus, ab imbrium vi atque hiemis algoribus. Aestivis noctibus in specubus vel sub procerarum quercuum ramis quiescebant; quod ferarum impetus et serpentium insidias reformidabant, interdum etiam in arborum ramis somnum capiebant. Feram agrestemque vitam agebant quia nec agriculturae studebant nec mercaturam exercebant; cotidie enim per silvas saltusque errabant, piscibus vel beluarum carne vel terrae fructibus vel quercuum glandibus famem sedabant. Nullum vestitum gerebant sed corpora ferarum pellibus tegebant. Postea paulatim homines tam ferum vitae genus reliquerunt: nam, procedente tempore, casas parvasque domos fluminibus vel lacubus proximas aedificaverant, agros colere et greges pascere didicerant. Deinde primos vicos constituerant et eos armis cuncti a beluarum incursu et ab hostium tribuum insidiis protegebant.

Gli uomini primitivi non avevano né case né sedi fisse: essi, infatti, vivevano in buie caverne dove si procuravano un sicuro rifugio dai fulmini, dalla violenza delle piogge e dai freddi dell’inverno. Nelle notti d’estate dormivano nelle caverne o sotto i rami di alte querce; poiché temevano gli attacchi delle belve e l’agguato dei serpenti, talvolta si addormentavano anche sui rami degli alberi. Conducevano una vita selvaggia e agreste, poiché non si dedicavano all’agricoltura né praticavano il commercio; infatti ogni giorno vagavano per i boschi e per le gole, placavano la fame con pesci o con la carne di animali o con i frutti della terra o le ghiande delle querce. Non portavano alcun indumento ma coprivano i corpi con le pellicce degli animali. Poi, a poco a poco, gli uomini abbandonarono una condotta di vita tanto selvatica: infatti, col passare del tempo, avevano costruito case e piccole abitazioni vicine ai fiumi o ai laghi, avevano imparato a coltivare i campi e a pascolare le greggi. Poi avevano costituito i primi villaggi e tutti li proteggevano con le armi dall’attacco degli animali e dall’agguato delle tribù nemiche.

“La vita degli uomini primitivi”

Pristini homines agrorum cultum non exercebant, sed terrae fructus manibus carpebant, agrestium animalium carnem et beluarum pelles arcubus sagittisque sibi parabant. Domos non aedificabant, itaque in recessibus, procul a ferarum incursionibus, dormiebant. Aliquando hostium fulminumque metu in obscuris specubus nocte quiescere praeoptabant. Temporis decursu homines vitam mutaverunt: agros colere ac animalia educare inceperunt vicosque in locis fluminibus vel lacubus proximis condiderunt. Neque leges neque magistratus habebant, sed in tribubus patres omnes discordias iudicabant.

Gli uomini antichi non praticavano la coltivazione dei campi, ma prendevano con le mani i frutti della terra, si procuravano la carne degli animali selvatici e, con archi e frecce, le pelli delle fiere. Non costruivano case, e così dormivano in rifugi, lontano dagli assalti delle bestie feroci. Talvolta, per paura dei nemici e dei fulmini, preferivano riposare di notte in oscure caverne. Con il passare del tempo gli uomini cambiarono vita: cominciarono a coltivare i campi e allevare gli animali e fondarono i villaggi in luoghi vicini ai fiumi e ai laghi. Non avevano leggi nè magistrati ma, all’interno delle tribù, gli anziani giudicavano le controversie.

“La cornacchia superba e il pavone”

Pennae pavoni deciderant graculusque, inani superbia tumens, collegerat atque suum corpus exornaverat. Deinde, graculorum genus contemnens, cum formoso pavonum grege convenit. Pavones autem, dolum animadvertentes, impudenti avi pennas eripiunt eumque rostris fugant. Plagis et contumelia maerens graculus ad proprium genus tristis revertit; graculi autem procacem alitem reiciunt, monimentum iniuriae addentes: “Nostris sedibus et tua natura contentus non fuisti; ideo contumeliam pavonum et nostram repulsam nunc sentis”. Si a pristinis moribus deflectes, amicos amittes et in magnis calamitatibus eris.

Ad un pavone erano cadute a terra delle penne e una cornacchia, gonfia di vana superbia, le aveva raccolte e ne aveva adornato il suo corpo. Poi, in spregio della specie delle cornacchie, si aggregò al bel branco dei pavoni. Ma i pavoni, accortisi dell’inganno, strappano via le penne allo sfacciato volatile e lo mettono in fuga a colpi di becco. Lamentandosi delle ferite e dell’oltraggio la cornacchia ritorna triste alla sua specie; ma le cornacchie respingono l’insolente alato, aggiungendo una minaccia all’ingiuria: “Non sei stato contento delle nostre sedi e della tua natura; per questo ora subisci l’offesa dei pavoni e la nostra ripulsa”. Se ti allontanerai dagli antichi costumi, perderai gli amici e ti troverai in grandi guai.

“Sosia il contadino”

Tranquillus vivebat in agris Sosia, magnae patientiae industriaeque agricola. Aestate cotidie prima luce laborare incipiebat, nec ante noctem in studio suo cessabat. Filii auxilium patri dabant nec in agro opus erat eis molestum. Meridie filiae prandium in agrum ferebant. Nocte ad villam suam omnes revertebant. Hieme saepe Sosia, uxor, filii et filiae ante culinae focum manebant et pater pulchras fabulas narrabat. Sosiae familia sine curis vivebat nec fortunam adversam timebat.

Sosia, contadino di grande pazienza ed energia, viveva tranquillo nei campi. Ogni giorno d’estate cominciava a lavorare alle prime luci (dell’alba) e non indugiava nel suo impegno prima di notte. I figli davano aiuto al padre ma il lavoro nel campo era per loro fastidioso. A mezzegiorno le figlie portavano il pranzo nei campi. Di notte tutti ritornavano alla sua casa di campagna. In inverno spesso Sosia, la moglie, i figli e le figlie restavano davanti al focolare della cucina e il padre raccontava piacevoli favole. La famiglia di Sosia viveva senza preoccupazioni e non temeva l’avversa sorte.

“Un processo ingiusto”

Coniurationis in contione Alcibiades, dux Athenarum militum, ab inimicis accusabatur, sed instabat tempus belli, nam Athenae bellum contra Syracusas paraverant. Alcibiades in Siciliam vere pervenit ac aestate Athenis causa contra eum intenta est duxque sacrilegii quoque argutus est. Itaque nuntius in Siciliam Athenis missus est et de causa Alcibiadi sic dixit: “Nunc hoc necessarium est: reverte Athenas ac te ipsum defende”. Dux nuntio paruit et in trierem, quam ad eum deportandum populus miserat, ascendit. Multa autem reputavit de immoderata civium suorum suscitaverunt. Nave Thurios pervectus est atque se ab custodibus subduxit et postea Spartam demigravit. Ibi, ut Alcibiades praedicare consueverat, non adversus patriam, sed inimicos suos bellum gessit, qui etiam hostes erant civitati. Itaque Alcibiadis consilio Lacedaemonii cum Perse rege amicitiam iunxerunt, dein Deceleam in Attica munierunt atque a praesidio ibi perpetuo posito in obsidione Athenas tenuerunt. Ideo Athenis Alcibiades capitis damnatus est.

Nella riunione della congiura, Alcibiade, comandante dei soldati di Atene, era accusato dagli avversari, ma il momento della guerra era vicino, infatti Atene aveva preparato una guerra contro Siracusa. Alcibiade in primavera giunse in Sicilia e in estate ad Atene fu intentata una causa contro di lui e il comandante fu accusato anche di sacrilegio. Pertanto da Atene fu inviato un messaggero in Sicilia e così disse ad Alcibiade riguardo alla causa: “Ora è necessario questo: torna ad Atene e difendi te stesso”. Il comandante obbedì al messaggero e si imbarcò su una trireme, che il popolo aveva mandato a lui per prelevarlo. Tuttavia considerò molte cose sulla smodata dissolutezza dei suoi concittadini e sulla crudeltà contro gli uomini onesti e le riflessioni suscitarono nel suo animo la decisione della fuga. Con una nave si diresse a Turi e si sottrasse alle guardie e poi si recò a Sparta. Per questo motivo ad Atene fu condannato a morte. Là, come era abituato a dichiarare, combatté una guerra non contro la patria, ma contro i suoi avversari, i quali erano anche nemici della città. Pertanto su proposta di Alcibiade gli Spartani strinsero un’alleanza con il re Persiano, poi in Attica fortificarono Decelea e lì, posta una guarnigione stabile, tennero Atene in assedio. Per questo motivo ad Atene Alcibiade fu condannato a morte.

“Valicare le Alpi: una missione possibile”

Hannibal, Carthaginiensium imperator, post longum et difficile iter ab hispania per galliam, ad Alpes cum militibus suis perveniebat. Magna nivis copia in editis montibus erat et omnes milites, iam gravibus laboribus fessi, novas difficultates novaque pericula timebant: multi etiam iter pergere recusabant. Tum Hannibal ex Alpium cacumine pulchras Italiae terras atque locupletes urbes militibus suis ostendebat et sic animos adflictos recreabat. Postridie profectionis signum dabat: fortis ducis imperio omnes obtemperabant. Sed locorum asperitate atque frigore nonnulli in itinere mortem inveniebant. Nix enim omnia tegebat et homines et elephanti cum gravibus sarcinis in altas voragines praecipitabant. Iam omnes de salute desperabant, sed Hannibalis animum nec preces nec lacrimae movebant. Tum milites omnibus viribus iter a nive purgabant et superstites denique in Italiam descendebant.

Annibale, comandante supremo dei Cartaginesi, dopo un lungo e difficile viaggio dalla Spagna attraverso la Gallia, giugeva alle Alpi con i sui soldati. C’era grande quantità di neve nei monti elevati e tutti i soldati, già stanchi per le grandi fatiche temevano nuove difficoltà e nuovi pericoli: molti anche rifiutavano di proseguire il cammino. Allora Annibale mostrava dalla cima delle Alpi le belle terre dell’Italia e le ricche città ai suoi soldati così rianimava gli animi afflitti. Il giorno dopo dava il segnale della partenza: tutti obbedivano al comando del forte comandante. Ma per il cattivo stato dei luoghi ed il freddo, nel viaggio molti trovavano la morte. La neve infatti nascondeva ogni cosa e gli uomini e gli elefanti con bagagli pesanti precipitavano in profonde voragini. Ormai tutti non avevano speranza nella salvezza, ma né le suppliche né le lacrime commuovevano l’animo di Annibale. Allora tutti i soldati ripulivano il tragitto dalla neve e i superstiti infine scendevano in Italia.

“Malinconica fine di una carriera politica”

In Cornelia gente P. Cornelius Scipio valde clarus fuit, et eloquentia et litterarum studiis et virtute militari. Scipio patri in Hispania adhuc iuvenis successit. Hic Hasdrubalem vicit et Carthaginienses paravit. Tum Carthaginienses mox Hannibalem ducem ex Italia revocaverunt. Apud Zamam, Numidiae urbem, legiones Romanorum splendidam victoriam comparaverunt et Chartaginiensium vires omnino deleverunt. At magnae victoriae praemia non percepit infelix Scipio. Nam multi inter patres conscriptos Scipionem repetundarum accusaverunt. Tum Scipio a publicis negotiis secessit et Literni, in Campana villa, vitam tranquillam ac quietam traduxit. Splendidis facinoribus in Africae terris cognomen Africanum meruit Scipio.

Tra la gens Cornelia Cornelio Scipione fu molto famoso, sia per eloquenza che per studi di letteratura e valore militare. Scipione successe ancora giovane al padre in Spagna. Egli vinse Asdrubale e prese accordi con i Cartaginesi. Allora i Cartaginesi subito richiamarono Annibale dall’Italia. Presso Zama, città della Numidia, le legioni romane ottennero una splendida vittoria e distrussero completamente le forze cartaginesi. Ma lo sfortunato Scipione non prese i premi della grande vittoria. Infatti molti tra i senatori accusarono Scipione di concussione. Allora Scipione si allontanò dai pubblici affari e si ritirò a Literno, nella villa campana, alla vita tranquilla e quieta. Scipione per le splendide imprese nelle terre d’Africa meritò il soprannome di Africano.

“La morte di Marco Aurelio”

Imperator Marcus Aurelius, cum bellum gereret cum Marcomannis, Sarmatis Quadisque, gentibus barbaris bellicosisque, imperio Romano admodum infestis, in castris apud Vindobonam gravi morbo oppressus est. Cum vis morbi augeret, filium Commodum advocavit atque monuit ut bellum continuaret ne proditor rei publicae a civibus existimaretur. Sed filius, vir animi turpis ignavique, qui officio incolumitatem suam anteponebat, consilia paterna neglexit. Ad amicos qui deplorabant eius calamitatem, Marcus Aurelius, qui res humanas irridebat atque mortem contemnebat, dixit: «Cur de fortuna mea fletis et non magis de pestilentia et communi periculo cogitatis?». Deinde abstinuit victu potuque, mortem maturare optans. Milites quoque, postquam de imperatoris mala valetudine cognoverant, vehementer dolebant, quia eum unice amaverant. Septimo die, cum morbus ingravesceret, in tabernaculum solum filium admisit, sed statim dimisit, ne eum contagione corrumperet. Cum filium dimisisset, caput operuit et media nocte animam efflavit.

L’imperatore Marco Aurelio, mentre combatteva contro i Marcomanni, i Sarmati e i Quadi, popolazioni barbare e bellicose, molto pericolose per l’impero Romano, nell’accampamento nei pressi di Vindobona venne colpito da una grave malattia. Poiché la violenza del morbo si aggravava, convocò il figlio Commodo e lo incitò a continuare la guerra per non essere considerato dai cittadini un traditore dello Stato. Ma il figlio, uomo dall’indole ignobile e vile, che anteponeva al dovere la propria incolumità, trascurò i consigli paterni. Agli amici che deploravano la sua disgrazia, Marco Aurelio, che irrideva le vicende umane e disdegnava la morte, disse: «Perché piangete per la mia sorte e piuttosto non pensate al contagio e al pericolo comune?». Poi si astenne dal cibo e dalle bevande, desiderando accelerare la morte. Anche i soldati, dopo aver saputo dell’infermità dell’imperatore, erano molto addolorati, perché lo avevano amato straordinariamente. Il settimo giorno, poiché la malattia si aggravava, accolse nella tenda solo il figlio, ma lo congedò subito, per non nuocergli con il contagio. Dopo aver allontanato il figlio, si coprì il capo e morì a mezzanotte.

“Discorso di Lucio Emilio Paolo al popolo”

Bello in Perseum, Macedonum regem, a senatu indicto, ego Romani reliqui et prima luce classem a Brundisio solvi ut in Macedoniam exercitum traicerem; occidente sole cum omnibus meis navibus Corcyram tenui. Inde quinto die Delphos contendi ut oraculum de exitu belli consulerem atque Apollini pro me exercitibusque et classibus vestris sacrificavi. Delphis post aliquotdies in castra perveni et, imperio accepto, mutatis rebus quae impedimento victoriae erant, ad Pydnam perrexi ut Perseum pugnam recusantem ad pugnandum cogerem. Itaque regem ade vici, Macedoniam in potestatem populi Romani redegi et bellum, quod per quadriennium tres consules ante me gesserunt, ego quindecim diebus perfeci. Praeterea et sponte se dediderunt; gaza regia Romam translata est atque Perseus rex cum liberis est captus.

Dato che c’era la guerra contro Perseo, re dei Macedoni secondo quanto venne prescritto dal senato io lasciai Roma e all’alba salpai da Brindisi per trascinare l’esercito in Macedonia; al tramontar del sole occupai con tutte le mie navi Circira. Da lì dopo cinque giorni giunsi a Delfi per consultare l’oracolo in merito all’esito della guerra e e feci sacrifici ad Apollo per me per gli eserciti e per le vostre flotte. Da Delfi dopo alcuni giorni giunsi nell’accampamento e, secondo l’ordine ricevuto, in quanto era mutata la situazione che era d’impedimento alla vittoria, proseguii in direzione di Pidna per costringere Perseo che rifiutava lo scontro a combattere. E così sconfissi il re, ridussi la macedonia in potere del popolo Romano ed io in quindici giorni portai a termine la guerra, che per 12 anni i consoli prima di me avevano combattuto. E per di più si consegnarono spontaneamente; il tesoro regale fu trasportato a Roma e il re Perseo venne catturato con i figli.

“Mercurio e Vulcano”

Cum multis aliis diis antiqui Graeci et Romani Mercurium et Vulcanum colebant. Mercurius deus viarum et mercaturae, divitiarum et furti erat. Multa erant officia Mercurii: in Olympo mensas deorum parabata et epulas ministrabat. Quia nuntius erat, portabat in terram dicta, mandata, iussa deûm. Magnā virgā umbras mortuorum ad Inferos adducebat Mercurius. Non solum amabat palaestras et ludos, sed etiam mercaturam et eloquentiam et iucundum sonum lyrae. Vulcanus faber erat, cum suis operaiis in officina Aetnae vivebat, ubi metalla tractabat, arma et scuta diis fabricabat.

Gli antichi Greci e Romani adoravano di pari passo con le altre divinità Mercurio e Vulcano. Mercurio era il dio delle vie e del commercio, della ricchezza e del furto. Molti erano i compiti di Mercurio: preparava nell’Olimpo le mense degli dèi ed organizzava il banchetto. Dato che era l’ambasciatore, portava sulla terra le parole, gli incarichi, gli ordini degli dèi. Mercurio con una grande verga trascinava agli inferi le ombre dei morti. Non amava solo le palestre ed i giochi, ma anche il commercio, l’eloquenza ed il piacevole suono della lira. Vulcano era un fabbro, viveva con i suoi operai nell’officina dell’Etna, dove lavorava i metalli, fabbricava gli scudi e le armi per le divinità.

“Un’arma singolare: il vino”

Summae audaciae vir, Cyrus, iam asiae dominus erat. Inde Scythis, populo vago, bellum indixit. Erat tunc Scytharum regina Tamsyris (Tamiri), femina strenua et belli perita. Cyrus copias suas in scytharum territorium duxit ibique castra posuit; sed postridie fugam simulavit et in castris magnam vini copiam, animorum oblectamentum, reliquit. Regina tunc misit adulescentulus, belli ignarus, cum copiis ad Cyri castra pervenit, Scythae, vini cupidi atque avidi, affatim biberunt neque adulescentulus hoc (ciò) prohibuit. Dum universi propter crapulam et vini intemperantiam placide cubant; Cyrus, callidus atque belli peritus vir, repente in castra venit Scythas ebrios oppressit et universos cum raginae filio interfecit.

Ciro, uomo di grande coraggio, era già padrone di tutta l’Asia. Da lì dichiarò guerra agli Sciti, una popolazione nomade. In quel tempo la regina degli Sciti era Tamiri, donna coraggiosa ed esperta di guerra. Ciro condusse le sue truppe nel territorio degli Sciti e lì dispose l’accampamento; ma il giorno dopo finse la fuga e lasciò nell’accampamento una grande quantità di vino, diletto degli animi. Allora la regina mandò un giovinetto, ignaro della guerra, che giunse con le truppe all’accampamento di Ciro, gli sciti, avidi e bramosi di vino, bevvero abbondantemente nè il giovinetto lo proibì; Ciro uomo astuto ed esperto di guerra, ritornò improvvisamente nell’accampamento vinse gli Sciti ubriachi e li uccise tutti quanti con il figlio della regina.

“Una sbornia rovinosa”

Cyrus, iam Asiae et universi Orientis dominus, Scythis bullum indixit. Erat tunc Scytharum regina Tamyris, femina strenua et belli parita. Cyrus copias suas in Scytharum territirium duxit ibique castra posuit; sed postridie fugam simulavit et in castris magnam vini copiam, animorum oblectamentum, reliquit.Regina tunc misit adulescentulum filium cum copiis adversus Cyrum. Postquam adulescentulus, belli ignarus, cum copiis ad Cyri castra pervenit, Scythae, vini cupidi atque avidi, affatim biberunt neque adulescentulus hoc prohibuit. Dum universi propter crapulam et vini intemperantiam placide cubant; Cyrus, callidus atque belli peritus vir, repente in castra venit, Scythas ebrios oppressit et universos cum reginae filio interfecit.

Ciro, già padrone dell’Asia e di tutto l’Oriente, proclamò guerra agli Sciti. Era allora regina degli Sciti, Tamiri, donna valorosa ed esperta di guerra. Ciro condusse le sue truppe in territorio degli Sciti e qui pose l’accampamento, ma il giorno dopo finse la fuga e lasciò una grande abbondanza di vino nell’accampamento, sollazzo degli animi. La regina allora mandò il giovane figlio con le truppe contro Ciro. Dopo che il giovane, ignaro della guerra, entrò nell’accampamento di Ciro con le truppe, gli Sciti, avidi e desiderosi di vino, bevvero a sazietà e il giovane non proibì questo. Mentre tutti per l’ubriachezza e intemperanza del vino si addormentano placidamente; Ciro uomo furbo e esperto di guerra, all’improvviso venne nell’accampamento, oppresse gli Sciti ubriachi e uccise tutti con il figlio della regina.

Elegia III, 25 (“L’elegia del discidium”)

Risus eram positis inter convivia mensis,
et de me poterat quilibet esse loquax.
quinque tibi potui servire fideliter annos:
ungue meam morso saepe querere fidem.
nil moveor lacrimis: ista sum captus ab arte;
semper ab insidiis, Cynthia, flere soles.
flebo ego discedens, sed fletum iniuria vincit:
tu bene conveniens non sinis ire iugum.
limina iam nostris valeant lacrimantia verbis,
nec tamen irata ianua fracta manu.
at te celatis aetas gravis urgeat annis,
et veniat formae ruga sinistra tuae!
vellere tum cupias albos a stirpe capillos,
iam speculo rugas increpitante tibi,
exclusa inque vicem fastus patiare superbos,
et quae fecisti facta queraris anus!
has tibi fatalis cecinit mea pagina diras:
eventum formae disce timere tuae!

Ero oggetto di riso, a mensa nel convito,
e su di me ciascuno diveniva loquace.
Restai per cinque anni il tuo fedele schiavo:
comprenderai, mordendoti le mani, la mia fede.
Non mi muovono lacrime, conosco ormai quest’arte,
e sempre, quando piangi, non è che tradimento.
Piangerò nel lasciarti, ma l’offesa è più forte
del pianto: sei tu quella che rifiuta il legame.
Soglia che lacrimavi per mie parole, porta
dalla mia mano irata non mai infranta, addio!
E a te, che la vecchiaia ti raggiunga con gli anni
che nascondi, e, sinistra, ti corrughi il bei volto!
Strappare dalla cute i capelli imbiancati
vorrai, quando lo specchio accusi le tue rughe,
soffrirai a tua volta di durezze e disdegni
e proverai, da vecchia, il dolore che hai dato.
Ti canta, la mia pagina, questo orrendo destino:
abbi paura, ha fine ormai la tua bellezza!

Carmina, I, 22 (“Il poeta è un uomo onesto”)

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nec venenatis gravida sagittis,
Fusce, pharetra,
sive per Syrtis iter aestuosas
sive facturus per inhospitalem
Caucasum vel quae loca fabulosus
lambit Hydaspes.
Namque me silva lupus in Sabina,
dum meam canto Lalagem et ultra
terminum curis vagor expeditis,
fugit inermem;
quale portentum neque militaris
Daunias latis alit aesculetis.
Nec Iubae tellus generat, leonum
arida nutrix.
Pone me pigris ubi nulla campis
arbor aestiva recreatur aura,
quod latus mundi nebulae malusque
Iuppiter urget;
pone sub curru nimium propinqui
solis in terra domibus negata:
dulce ridentem Lalagem amabo,
dulce loquentem.

Chi è integro di vita e puro di colpe
Non ha bisogno di strali dei Mauri né dell’arco
né della faretra colma di frecce avvelenate, o Fusco,
sia che stia per viaggiare tra le Sirti infuocate
o attraverso l’inospitale Caucaso o nei luoghi
che lambisce il favoloso Idaspe.
E infatti un lupo nel bosco sabino,
mentre canto la mia Lalage e oltre
il confine vago libero da preoccupazioni,
fugge me inerme;
un mostro quale né la bellicosa
Daunia nutre nei suoi vasti querceti
né la terra di Giuba genera, arida nutrice
di leoni.
Mettimi in campi sterili dove nessun
albero è ristorato dall’aria estiva,
in quella parte del mondo che le nebbie e
il cattivo Giove opprimono;
mettimi sotto il carro del sole troppo vicino
nella terra negata alle case:
amerò Lalage che ride dolcemente,
che parla dolcemente.

“Le matrone romane”

Mulierum quoque virtutes reipublicae Romanorum profuerunt et in secundis et in adversis rebus. Nam Romanae matronae semper dignas se praebuerunt fide atque existimatione omnium civium. Castae et temperantes domi vivebant, labori et familiae intentae, earumque praecipua laus haec fuit: prudenter et parce rem familiarem genere et liberis maritisque inservire. In adversis quoque rebus, fidei ac pietatis erga patriam insigna et varia exempla ediderunt. Secundo bello Punico enim, post Cannensem cladem, cum salutis spes iam non erat, matronae Romanae omnes ornatus aureos reipublicae donare non dubitaverunt. Ita senatus Romanus exercitui commeatus suppeditare potuit. Ita mulierum quoque vitrutes rempublicam Romanam servaverunt.

Anche le virtù delle mogli della repubblica dei Romani giovano sia nelle circostanze favorevoli che avverse. Infatti le matrone romane sono degne della fiducia e stima di tutti i cittadini. Vivevano caste e moderate in casa, intente al lavoro e alla famiglia, e il loro pregio principale fu questo: servire prudentemente e parcamente la famiglia, i figli e il marito. Anche nelle circostanze avverse, diedero nobili esempi di fede e rispetto nei confronti della patria. Infatti durante la seconda guerra punica, dopo la sconfitta di Canne, quando non c’era più speranza di salvezza, le matrone romane non dubitarono di donare tutti gli ori (di cui erano ornate) alla repubblica. Così il senato romano potè fornire le vettovaglie all’esercito. Così anche le virtù delle donne salvarono lo stato romano.

Eneide IV, 296-361 (“Lo scontro fra i due amanti”)

At regina dolos (quis fallere possit amantem?) praesensit, motusque excepit prima futuros omnia tuta timens. Eadem impia Fama furenti detulit armari classem cursumque parari. Saevit inops animi totamque incensa per urbem bacchatur, qualis commotis excita sacris Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron. Tandem his Aenean compellat vocibus ultro: “Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum posse nefas tacitusque mea decedere terra? Nec te noster amor nec te data dextera quondam nec moritura tenet crudeli funere Dido? Quin etiam hiberno moliri sidere classem et mediis properas Aquilonibus ire per altum, crudelis? Quid, si non arva aliena domosque ignotas peteres, et Troia antiqua maneret, Troia per undosum peteretur classibus aequor? Mene fugis? Per ego has lacrimas dextramque tuam te quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui, per conubia nostra, per inceptos hymenaeos, si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam dulce meum, miserere domus labentis et istam, oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem. Te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni odere, infensi Tyrii; te propter eundem exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam, fama prior. Cui me moribundam deseris hospes hoc solum nomen quoniam de coniuge restat? Quid moror? An mea Pygmalion dum moenia frater destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas? Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula luderet Aeneas, qui te tamen ore referret, non equidem omnino capta ac deserta viderer”. Dixerat. Ille Iovis monitis immota tenebat lumina et obnixus curam sub corde premebat. Tandem pauca refert: “Ego te, quae plurima fando enumerare vales, numquam, regina, negabo promeritam, nec me meminisse pigebit Elissae dum memor ipse mei, dum spiritus hos regit artus. Pro re pauca loquar. Neque ego hanc abscondere furto speravi ne finge fugam, nec coniugis umquam praetendi taedas aut haec in foedera veni. Me si fata meis paterentur ducere vitam auspiciis et sponte mea componere curas, urbem Troianam primum dulcisque meorum reliquias colerem, Priami tecta alta manerent, et recidiva manu posuissem Pergama victis. Sed nunc Italiam magnam Gryneus Apollo, Italiam Lyciae iussere capessere sortes; hic amor, haec patria est. Si te Karthaginis arces Phoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis, quae tandem Ausonia Teucros considere terra invidia est? Et nos fas extera quaerere regna. Me patris Anchisae, quotiens umentibus umbris nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt, admonet in somnis et turbida terret imago; me puer Ascanius capitisque iniuria cari, quem regno Hesperiae fraudo et fatalibus arvis. Nunc etiam interpres divum Iove missus ab ipso testor utrumque caput celeris mandata per auras detulit: ipse deum manifesto in lumine vidi intrantem muros vocemque his auribus hausi. Desine meque tuis incendere teque querelis; Italiam non sponte sequor”.

Ma la regina (chi potrebbe ingannare un amante?) presentì, per prima colse i movimenti futuri temendo ogni sicurezza. La stessa empia Fama riferì a lei impazzita, che si allestiva la flotta e si preparava la rotta. Impazza annichilita nel cuore e furiosa per la città smania come baccante, come Tiade scossa, iniziati i riti, quando udito Bacco, le orge triennali la stimolano ed il notturno Citerone la chiama col frastuono. Infine spontaneamente affronta Enea con queste frasi: “Sperasti pure poter dissimulare, perfido, sì gran sacrilegio e zitto allontanarti dalla mia terra? Né ti trattiene il nostro amore né la destra data un giorno né una Didone desinata amore di morte crudele? Anzi anche con stella invernale allestisci la flotta e ti affrettiamo ad andare al largo in mezzo agli Aquiloni, crudele? Che? Se non cercassi campi stranieri e case ignote e restasse l’antica Troia, Troia sarebbe cercata con flotte per il mare ondoso? Forse fuggi me? Io per queste lacrime e la tua destra te, poiché io stessa non lasciai null’altro a me misera, per i nostri vincoli, per le nozze incominciate, se per te meritai bene qualcosa, o per te ci fu qualche mia tenerezza, abbi pietà d’una casa che crolla e cancella, ti prego, se ancora c’è un posto per le preghiere, questa idea. A causa di te i popoli libici ed i tiranni dei Nomadi mi odiano, contrari i Tirii; proprio a causa di te fu estinto il pudore e la fama per prima, per la quale io sola salivo alle stelle. A chi mi abbandoni moribonda, ospite, solo questo nome da un marito mi resta? Che aspetto? Forse fin che il fratello Pigmalione distrugga le mie mura o il Getulo Iarba mi porti prigioniera? Almeno se prima della fuga mi fosse nato da te un figlio, se un piccolo Enea mi giocasse nella reggia, che ti richiamasse col volto, non mi sembrerei del tutto delusa e abbandonata”. Aveva detto. Egli teneva gli occhi immobili agli ordini di Giove e sforzandosi premeva il dolore dentro il cuore. Finalmente proferisce poche cose: “Io mai negherò che tu hai meriti, i maggiori che parlando sei in grado di enumerare, o regina, né mi rincrescerà ricordarmi di Elissa, fin che io stesso sia memore di me, fin che lo spirito regga queste membra. Per il fatto dirò poco. Né io sperai nasconder con frode questa fuga, non credere, né mai ho alzato fiaccole di marito o venni a tali patti. Io se i fati permettessero di condurre la vita secondo miei desideri e e calmare gli affanni di mia scelta, anzitutto onorerei la città troiana ed i dolci resti dei miei, si manterrebbero le alte regge di Priamo, e con mano ostinata avrei rifatto Pergamo per i vinti. Ma ora Apollo Grineo e gli oracoli dei Licia mi hanno comandato di raggiungere Italia; questo il mio amore, questa è la mia patria. Se le rocche di Cartagine e la vista d’una città libica trattiene te, Fenicia, quale invidia c’è che finalmente i Teucri si fermino su terra Ausonia? E’ fato che anche noi cerchiamo regni stranieri. Me terrorizza la sconvolta immagine del padre Anchise e mi ammonisce in sogno, quando, piovendo le ombre, la notte ricopre le terre, quando gli astri ignei sorgono; Me, pure, i piccolo Ascanio ed il torto del caro volto che defraudo del regno d’Esperia e dei campi fatali. Ora anche l’interprete degli dei mandato dallo stesso Giove, lo giuro sul capo d’entrambi, inviò ordini attraverso i cieli veloci: io stesso vidi il dio in chiara visione che penetrava le mura e ne assorbii la voce con queste orecchie. Smetti di incendiare me e te coi tuoi pianti; l’Italia la inseguo non spontaneamente”.

“Governanti e governati”

Semper primores, qui civitatibus praesunt, debent curare ut prosint civibus sui nec cuiquam in civitate sua obsint. Nam inter bonum et malum civitatis rectorem hoc interest quod alter commoda civium procurat, alter sibi ipsi prodesse studet. Boni cives autem, etiam cum a patria absunt, ei prodesse student et inter externas gentes bonam famam suae civitatis servare omni ratione curant. Cum autem in patria sunt, numquam suis officiis desunt, semper illis, qui legitimis magistratibus praesunt, obtemperant. Etiam imperatores efficere debent ut patriae et civibus suis prosint neque umquam officio,quod militibus praestare debent,desint. Caesar semper in acie cum militibus aderat: nunc peditibus cohortatione et exemplo proderat, nunc inter equites pedes certabat, semper rebus dubiis et periculis intererat ne ulli sua praesentia deesset sed in omnium animis fiducia ducis inesset

Sempre i primi, che sono a capo delle città, devono preoccuparsi di giovare ai loro concittadini e di non nuocere a nessuno nella loro città. Infatti tra il buono ed il cattivo governatore di città c’è questa differenza, che l’uno provvede alla felicità dei cittadini, l’altro aspira a giovare a se stesso. Invece i buoni cittadini, anche quando sono lontani dalla patria, desiderano giovare ad essa e tra le popolazioni straniere si dedicano a conservare la buona reputazione della loro città in ogni modo. D’altra parte, quando sono in patria, non vengono mai meno ai loro doveri, obbediscono sempre a coloro che sono a capo delle magistrature. Anche i comandanti devono agire in modo tale da giovare alla patria ed ai loro concittadini e da non venire mai meno al dovere, che devono assicurare ai soldati. Cesare era sempre presente in linea di battaglia con i soldati: ora giovava ai fanti con l’esortazione e l’esempio, ora combatteva da fante tra i cavalieri, partecipava alle situazioni dubbie ed ai pericoli affinché a nessuno mancasse la sua presenza, ma negli animi di tutti ci fosse fiducia verso il comandante.

“Riforme di Caio Gracco”

Decem deinde interpositis annis, qui Ti. Graccum idem Gaium fratrem eius occupavit furor, tam virtutibus eius omnibus quam huic errori similem, ingenio etiam eloquentiaque longe praestantiorem. Qui cum summa quiete animi civitatis princeps esse posset, vel vindicandae fraternae mortis gratia vel praemuniendae regalis potentiae eiusdem exempli tribunatum ingressus, longe maiora et acriora petens dabat civitatem omnibus Italicis, extendebat eam paene usque Alpis, dividebat agros, vetabat quemquam civem plus quingentis iugeribus habere, quod aliquando lege Licinia cautum erat, nova constituebat portoria, novis coloniis replebat provincias, iudicia a senatu trasferebat ad equites, frumentum plebi dari instituerat; nihil immotum, nihil tranquillum, nihil quietum, nihil denique in eodem statu relinquebat; quin alterum etiam continuavit tribunatum.

Trascorsi poi dieci anni, lla follia che invase Tiberio invase ugualmente anche Gaio Gracco, per ogni virtù simile a quello quanto lo era anche nell’errore, ma per ingegno ed eloquenza era lui senza dubbio ad essere il più bravo. Non appena costui, con la più salda tranquillità d’animo, ebbe l’occasione di mettersi a capo della città, quando assunse la carica di tribuno, certo più in virtù del voler vendicare la morte del fratello o di rafforzare la potenza regale di se stesso, si mise a richiedere riforme ancora più ambiziose e astiose: concedeva la cittadinanza a tutti gli Italici, la voleva estendere quasi fino alle Alpi, divideva i campi, vietava a qualsiasi cittadino di avere in proprietà più di cinquecento iugeri, limite che un tempo era stato già fissaro dalla lex Licinia, istituiva nuove tasse commerciali, riempiva le province di nuovi coloni, trasferiva le corti giudicanti dal senato ai cavalieri, istituiva la distribuzione di frumento alla plebe; nulla era più stabile, nulla era più sicuro, nulla era più calmo, perché nulla, nello stesso stato, aveva lasciato immutato, che non abbia poi continuato a turbare anche durante il secondo suo tribunato.

“Un sogno ambiguo”

Singulari vir ingenio Aristoteles et paene divino scribit Eudemum Cyprium, familiarem suum, iter in Macedoniam facientem Pheras venisse; in eo igitur oppido ita graviter aegrum Eudeum fuisse, ut omnes medici diffiderent. Eudemo visus est in quiete egregia facie iuvenis dicere fore ut perbrevi convalesceret, paucisque diebus interiturum esse Alexandrum tyrannum quinquennioque post eum domum esse rediturum. Atque id quidem scribit Aristoteles consecutum esse, convaluisse Eudemum et ab uxoris fratribus interfectum esse tyrannum; quinto autem anno exeunte, cum esset spes ex illo somnio in Cyprum illum ex Sicilia esse rediturum, proeliantem eum ad Syracusas occidisse; ex quo ita illud somnium esse interpretatum, ut, cum animus Eudemi e corpore excesserit, tum domum revertisse videatur.

Aristotele, uomo di singolare intelligenza, quasi divina, scrive che Eudemo di Cipro, suo parente, dovendo intraprendere un viaggio verso la Macedonia, arrivò a Fere; dunque in quella città Eudemo si ammalò così gravemente che tutti i medici avevano perso ogni speranza. Un giovane di bell’aspetto apparve in sogno ad Eudemo, dicendo che in breve tempo sarebbe guarito e in pochi giorni sarebbe morto il tiranno Alessandro e dopo cinque anni sarebbe tornato a casa. Questo certamente, scrive Aristotele, successe: Eudemo guarì e il tiranno fu ucciso dai fratelli della moglie; ma dopo il quinto anno, pur essendoci speranza a causa di quel sogno che sarebbe tornato a Cipro dalla Sicilia, combattendo fu ucciso a Siracusa. Per questo così interpretò quel sogno, che essendo l’anima di Eudemo andata via dal corpo, allora sembrò che sarebbe tornata a casa.

“Il maestro conosce i livelli di apprendimento dei singoli”

Incipientibus atque adhuc teneris condiscipulorum quam praeceptoris iucimdior hoc ipso, quod facilior imitatio est. Vix enim se prima dementa ad spem tollere effingendae, quam summam putant, eloquentiae audebunt; proxima amplectentur magia, ut uites arboribus adplicitae inferiores prius adprendendo ramos in cacumina euadunt. Quod adeo uerum est, ut ipsius etiam magistri, si tamen ambitiosis utilia praeferet, hoc opus sit, cum adhuc rudia tractabit ingenia, non statim onerare infirmitatem discentium, sed temperare uires suas et ad intellectum audientis descendere. Nam ut uascula oris angusti superfusam umoris copiam respuunt, sensim autem influentibus uel etiam instillatis complentur, sic animi puerorum quantum excipere possint videndum est: nam maiora intellectu uelutparum apertos ad percipiendum animos non subibunt.

Con i principianti ancora giovanissimi risulta maggiormente piacevole l’imitazione dei compagni che non quella degli insegnanti per il semplice motivo che è più facile (imitarli). Chi ha a che fare con i primi elementi, infatti, difficilmente oserà elevarsi fino alla speranza di riprodurre l’eloquenza, che stima l’obiettivo massimo. Abbraccerà piuttosto le nozioni più vicine, come le viti abbarbicate agli alberi prima afferrano i rami bassi e poi si arrampicano verso l’alto. Ciò è tanto vero che anche lo stesso maestro, purché preferisca l’utilità all’ambizione, nel rivolgersi a menti ancora inesperte ha il compito non di gravare da subito con carichi eccessivi sulla debolezza degli allievi, bensì di moderare le proprie forze e abbassarsi alla loro capacità di comprensione. Come infatti i vasetti con l’imboccatura stretta lasciano colare all’esterno il liquido che vi viene versato in abbondanza, mentre si riempiono dei liquidi che entrano poco a poco o addirittura a gocce, così bisogna stare attenti a quante nozioni possano ricevere le menti dei ragazzi: infatti quelle che superano le loro possibilità di comprensione non penetreranno in intelletti, per così dire, troppo poco aperti per riceverle.

“I vantaggi della scuola pubblica”

Sed sicut firmiores in litteris profectus alit aemulatio, ita incipientibus atque adhuc teneris condiscipulorum quam praeceptoris iucundior hoc ipso quod facilior imitatio est. Vix enim se prima elementa ad spem tollere effingendae quam summam putant eloquentiae audebunt: proxima amplectentur magis, ut vites arboribus adplicita e inferiores prius adprendendo ramos in cacumina evadunt. Quod adeo verum est ut ipsius etiam magistri, si tamen ambitiosis utilia praeferet, hoc opus sit, cum adhuc rudia tractabit ingenia, non statim onerare infirmitatem discentium, sed temperare vires suas et ad intellectum audientis descendere.

Ma come negli studi letterari lo spirito di emulazione alimenta profitti più solidi, così ai principianti e agli alunni ancora giovani l’imitazione dei compagni piace maggiormente che non quella degli insegnanti per il semplice fatto che è più facile. Chi ha a che fare con i primi elementi, infatti, difficilmente oserà elevarsi fino alla speranza di riprodurre l’eloquenza, che stima l’obiettivo massimo. Abbraccerà piuttosto le nozioni più vicine, come le viti abbarbicate agli alberi prima afferrano i rami bassi e poi si arrampicano verso l’alto. Ciò è tanto vero che anche lo stesso maestro, purché preferisca l’utilità all’ambizione, nel rivolgersi a menti ancora inesperte ha il compito non di gravare da subito con carichi eccessivi sulla debolezza degli allievi, bensì di moderare le proprie forze e abbassarsi alla loro capacità di comprensione.