Dum haec Veiis agebantur, interim arx Romae Capitoliumque in ingenti periculo fuit. Namque Galli, seu vestigio notato humano qua nuntius a Veiis pervenerat seu sua sponte animadverso ad Carmentis saxo in adscensum aequo, nocte sublustri cum primo inermem qui temptaret viam praemisissent, tradentes inde arma ubi quid iniqui esset, alterni innixi sublevantesque in vicem et trahentes alii alios, prout postularet locus, tanto silentio in summum evasere ut non custodes solum fallerent, sed ne canes quidem, sollicitum animal ad nocturnos strepitus, excitarent. Anseres non fefellere quibus sacris Iunonis in summa inopia cibi tamen abstinebatur. Quae res saluti fuit; namque clangore eorum alarumque crepitu excitus M. Manlius qui triennio ante consul fuerat, vir bello egregius, armis arreptis simul ad arma ceteros ciens vadit et dum ceteri trepidant, Gallum qui iam in summo constiterat umbone ictum deturbat. Cuius casus prolapsi cum proximos sterneret, trepidantes alios armisque omissis saxa quibus adhaerebant manibus amplexos trucidat. Iamque et alii congregati telis missilibusque saxis proturbare hostes, ruinaque tota prolapsa acies in praeceps deferri. Sedato deinde tumultu reliquum noctis, quantum in turbatis mentibus poterat cum praeteritum quoque periculum sollicitaret, quieti datum est. Luce orta vocatis classico ad concilium militibus ad tribunos, cum et recte et perperam facto pretium deberetur, Manlius primum ob virtutem laudatus donatusque non ab tribunis solum militum sed consensu etiam militari; cui universi selibras farris et quartarios vini ad aedes eius quae in arce erant contulerunt, — rem dictu parvam, ceterum inopia fecerat eam argumentum ingens caritatis, cum se quisque victu suo fraudans detractum corpori atque usibus necessariis ad honorem unius viri conferret. Tum vigiles eius loci qua fefellerat adscendens hostis citati; et cum in omnes more militari se animadversurum Q. Sulpicius tribunus militum pronuntiasset, consentiente clamore militum in unum vigilem conicientium culpam deterritus, a ceteris abstinuit, reum haud dubium eius noxae adprobantibus cunctis de saxo deiecit. Inde intentiores utrimque custodiae esse, et apud Gallos, quia volgatum erat inter Veios Romamque nuntios commeare, et apud Romanos ab nocturni periculi memoria.
Mentre a Veio succedevano queste cose, nel frattempo la cittadella di Roma e il Campidoglio corsero un gravissimo pericolo. Infatti i Galli, o perché avevano notato orme umane nel punto in cui era passato il messaggero giunto da Veio, o perché si erano resi conto da soli che l’erta nei pressi del tempio di Carmenta poteva essere superata senza difficoltà, una notte debolmente rischiarata inviarono prima in avanscoperta un uomo disarmato per accertare che il passaggio fosse praticabile; poi, passandosi le armi nei punti più difficili, appoggiandosi a vicenda e spingendosi verso l’alto gli uni con gli altri a seconda della natura del terreno, raggiunsero la cima in un tale silenzio che non solo riuscirono a passare inosservati alle sentinelle, ma non svegliarono nemmeno i cani che invece sono animali sensibilissimi ai rumori notturni. Non sfuggirono però alla vigilanza delle oche che, non ostante la grande penuria di viveri, erano state risparmiate perché sacre a Giunone. E questo fatto salvò i Romani. Svegliato infatti dal verso e dallo starnazzare delle oche, Marco Manlio, che era stato console tre anni prima e si era sempre distinto in campo militare, afferrando le armi e insieme chiamando gli altri a imitarlo, si fece avanti e mentre i suoi compagni correvano in disordine a armarsi, con un colpo di scudo ricacciò giù dal pendio un Gallo che era già riuscito a raggiungere la sommità dell’erta. Ma siccome la sua caduta travolse quelli che gli venivano dietro, altri Galli, colti dal panico, nel tentativo di aggrapparsi con le mani alle rocce alle quali aderivano con il corpo, lasciarono cadere le armi e finirono sotto i colpi di Manlio. Essendosi nel frattempo aggiunti anche altri Romani, i nemici vennero ricacciati dalle rocce con lancio di frecce e di pietre, così che l’intero contingente di Galli fu respinto con successo franando rovinosamente giù dal precipizio. Tornata la calma, per quanto era consentito a menti sconvolte dal ricordo del pericolo anche se ormai passato, il resto della notte venne dedicato al riposo. Alle prime luci del giorno, il suono delle trombe chiamò i soldati all’adunata di fronte ai tribuni. E siccome era necessario ricompensare chi aveva fatto il proprio dovere e punire chi invece non era stato all’altezza, prima di ogni altra cosa Manlio venne elogiato per il suo coraggio e premiato non solo dai tribuni dei soldati ma anche all’unanimità dai soldati, ciascuno dei quali portò mezza libbra di grano e un quarto di vino alla sua casa sulla cittadella: ricompensa modesta, a parole, ma che in quella situazione di grave penuria era prova di enorme affetto, in quanto ogni soldato, per onorare quell’unico uomo, si privava di viveri, li sottraeva alla propria persona e necessità. Poi vennero chiamati in giudizio le sentinelle di guardia nel punto in cui i nemici erano riusciti a salire senza che nessuno se ne accorgesse. Il tribuno Quinto Sulpicio annunciò di volerli punire tutti in base alla legge marziale: ma trattenuto dalle concordi grida dei soldati che addossavano la responsabilità dell’accaduto su un’unica sentinella, risparmiò gli altri, e, col consenso di tutti, fece scaraventare dalla rupe Tarpea l’uomo che senza dubbio era il responsabile di quella colpa. Da quel momento in poi da entrambe le parti la vigilanza fu più accurata: sia presso i Galli che erano venuti a sapere dell’avvenuto passaggio di messaggieri tra Roma e Veio, sia presso i Romani, memori del pericolo corso quella notte.